APPUNTI SULLA

REGOLA DI S.BENEDETTO

di

D.Lorenzo Sena, OSB.Silv.
sansilvestro@pasadena.it



 

INDICE GENERALE

INDICE DEI CAPITOLI DELLA REGOLA (in ordine progressivo)

INDICE GENERALE (di questo commentario)


INTRODUZIONE GENERALE

1. L'autore

2. Il libro

3. Struttura e divisione

4. Fonti della Regola

5. Relazione con la Regula Magistri

6. Lingua e stile della Regola

7. Modello sapienziale

8. L'uso della Bibbia nella Regola

9. Manoscritti della Regola

10. Edizioni della Regola

11. Commenti alla Regola

Appendice: le Congregazioni Benedettine


COMMENTO AL TESTO

Prologo

CAP. 73 - Non tutte le norme della perf.sono contenute in questa Reg.

CAP. 1 - Delle varie specie dei monaci

CAP. 2 - Quale debba essere l'abate

CAP. 64 - L'elezione dell'abate

CAP. 3 - La convocazione dei fratelli a consiglio

 

SEZIONE ASCETICA (capitoli 4-7 e 68)

CAP. 4 - Quali sono gli strumenti delle buone opere

CAP. 5 - L'obbedienza

CAP. 68 - Se a un fratello vengono comandate cose impossibili

CAP. 6 - L'amore al silenzio

CAP. 7 - L'umilta`

 

OPUS DEI (capitoli 8-20; 47; 50; 52)

CAP. 8 - L'Ufficio divino nella notte

CAP. 9 - Quanti salmi debbano dirsi nell'Ufficio notturno

CAP. 10 - Come debba celebrarsi l'Ufficio notturno in estate

CAP. 11 - Come si debba svolgere l'Ufficio notturno nelle domeniche

CAP. 14 - Come debba celebrarsi l'Uff. nott. nelle feste dei Santi

CAP. 12 - Come si celebra l'Ufficio delle Lodi

CAP. 13 - Come si celebrano le Lodi nei giorni feriali

CAP. 15 - In quali tempi debba dirsi l'Alleluia

CAP. 16 - Quali siano i divini Uffici durante il giorno

CAP. 17 - Quanti salmi debbano dirsi in queste Ore

CAP. 18 - Con quale ordine debbano dirsi i salmi

CAP. 19 - Atteggiamento durante l'Ufficio

CAP. 20 - La riverenza nella preghiera

CAP. 47 - Il segnale per l'Ufficio divino

CAP. 50 - I frat. che lavorano lontano dall'orat. o sono in viaggio

CAP. 52 - L'oratorio del monastero

Excursus sulla preghiera monastica e nota bibliografica (Opus Dei)

 

I COLLABORATORI DELL'ABATE (capitoli 21; 31; 65)

CAP. 21 - I decani del monastero

CAP. 31 - Quale debba essere il cellerario del monastero

CAP. 65 - Il Priore del monastero

 

IL DORMITORIO E IL SILENZIO NOTTURNO (capitoli 22; 42)

CAP. 22 - Come debbano dormire i monaci

CAP. 42 - Che dopo compieta nessuno parli

 

CODICE PENITENZIALE (capitoli 23-30; 43-46)

CAP. 23 - La scomunica per le colpe

CAP. 24 - Quale debba essere il grado della scomunica

CAP. 25 - Le colpe piu` gravi

CAP. 26 - Quelli che senza autorizzaz. trattano con gli scomunicati

CAP. 27 - Come l'abate debba essere premuroso verso gli scomunicati

CAP. 28 - Quelli che, puniti piu` volte non vogliono correggersi

CAP. 29 - Se i frat. usciti dal monast. debbano essere riaccettati

CAP. 30 - Come debbano punirsi i fanciulli di minore eta`

CAP. 43 - Quelli che giungono tardi all'Ufficio divino o alla mensa

CAP. 44 - Come debbono fare la soddisfazione gli scomunicati

CAP. 45 - Quelli che sbagliano nell'oratorio

CAP. 46 - Quelli che sbagliano in una qualsiasi altra cosa

 

BENI MATERIALI e POVERTA` INDIVIDUALE (capitoli 32-34; 54-55; 57)

CAP. 32 - Gli arnesi e gli oggetti del monastero

CAP. 33 - Se i monaci debbano avere qualcosa di proprio

CAP. 34 - Se tutti debbano ricevere il necessario in misura uguale

CAP. 54 - Se il monaco possa ricevere lettere o altre cose

CAP. 55 - Vesti e calzature dei fratelli

CAP. 57 - Gli artigiani del monastero

 

ALIMENTAZIONE DEI MONACI (capitoli 35-41)

CAP. 35 - I settimanari di cucina

CAP. 36 - I fratelli infermi

CAP. 37 - I vecchi e i fanciulli

CAP. 38 - Il lettore di settimana

CAP. 39 - La misura del cibo

CAP. 40 - La misura del bere

CAP. 41 - In quali ore i fratelli debbono prendere cibo

 

LA GIORNATA IN MONASTERO (capitoli 48-49)

CAP. 48 - Il lavoro manuale giornaliero

CAP. 49 - L'osservanza della quaresima

 

RELAZIONI CON L'ESTERNO (capitoli 66-67; 51; 53; 56)

CAP. 66 - I portinai del monastero

CAP. 67 - I fratelli mandati in viaggio

CAP. 51 - I fratelli che vanno fuori non molto lontano

CAP. 53 - Come debbono essere accolti gli ospiti

CAP. 56 - La mensa dell'abate

 

AGGREGAZIONE AL MONASTERO e FORMAZIONE (capitoli 58-61+62)

CAP. 58 - Procedura per l'ammissione dei fratelli

CAP. 59 - I figli dei ricchi o dei poveri che vengono offerti

CAP. 60 - I sacerdoti che volessero eventualmente entrare in monast

CAP. 61 - Come debbano accogliersi i monaci pellegrini

CAP. 62 - I sacerdoti del monastero

 

RELAZIONI FRATERNE (capitoli 63; 69-72)

CAP. 63 - L'ordine della comunita`

CAP. 69 - In monastero nessuno ardisca difendere un altro

CAP. 70 - Nessuno osi arbitrariamente percuotere un altro

CAP. 71 - Che i fratelli si obbediscano a vicenda

CAP. 72 - Lo zelo buono che i monaci debbono avere

 

APPENDICE GENERALE: Valori fondamentali della Regola

 

EXCURSUS su L'ABATE DELLA RB (Appendice ai cc.2.3.64 della RB). Vedi:

L.SENA, La figura dell'abate nella RB e problemi attuali. Applicazione ai superiori delle comunita` silvestrine. In: "Inter Fratres" 35 (1985) 1-29.

EXCURSUS sulla LECTIO DIVINA (I.Appendice al c.48 - numeraz. propria)

EXCURSUS sul LAVORO MONASTICO (II.Appendice al c.48 - numeraz. propria)


INDICE DEI CAPITOLI DELLA REGOLA
(in ordine progressivo)

Prologo

CAP. 1 - Delle varie specie dei monaci

CAP. 2 - Quale debba essere l'abate

CAP. 3 - La convocazione dei fratelli a consiglio

CAP. 4 - Quali sono gli strumenti delle buone opere

CAP. 5 - L'obbedienza

CAP. 6 - L'amore al silenzio

CAP. 7 - L'umilta`

CAP. 8 - L'Ufficio divino nella notte

CAP. 9 - Quanti salmi debbano dirsi nell'Ufficio notturno

CAP. 10 - Come debba celebrarsi l'Ufficio notturno in estate

CAP. 11 - Come si debba svolgere l'Ufficio notturno nelle domeniche

CAP. 12 - Come si celebra l'Ufficio delle Lodi

CAP. 13 - Come si celebrano le Lodi nei giorni feriali

CAP. 14 - Come debba celebrarsi l'Uff. nott. nelle feste dei Santi

CAP. 15 - In quali tempi debba dirsi l'Alleluia

CAP. 16 - Quali siano i divini Uffici durante il giorno

CAP. 17 - Quanti salmi debbano dirsi in queste Ore

CAP. 18 - Con quale ordine debbano dirsi i salmi

CAP. 19 - Atteggiamento durante l'Ufficio

CAP. 20 - La riverenza nella preghiera

CAP. 21 - I decani del monastero

CAP. 22 - Come debbano dormire i monaci

CAP. 23 - La scomunica per le colpe

CAP. 24 - Quale debba essere il grado della scomunica

CAP. 25 - Le colpe piu` gravi

CAP. 26 - Quelli che senza autorizzaz. trattano con gli scomunicati

CAP. 27 - Come l'abate debba essere premuroso verso gli scomunicati

CAP. 28 - Quelli che, puniti piu` volte non vogliono correggersi

CAP. 29 - Se i frat. usciti dal monast. debbano essere riaccettati

CAP. 30 - Come debbano punirsi i fanciulli di minore eta`

CAP. 31 - Quale debba essere il cellerario del monastero

CAP. 32 - Gli arnesi e gli oggetti del monastero

CAP. 33 - Se i monaci debbano avere qualcosa di proprio

CAP. 34 - Se tutti debbano ricevere il necessario in misura uguale

CAP. 35 - I settimanari di cucina

CAP. 36 - I fratelli infermi

CAP. 37 - I vecchi e i fanciulli

CAP. 38 - Il lettore di settimana

CAP. 39 - La misura del cibo

CAP. 40 - La misura del bere

CAP. 41 - In quali ore i fratelli debbono prendere cibo

CAP. 42 - Che dopo compieta nessuno parli

CAP. 43 - Quelli che giungono tardi all'Ufficio divino o alla mensa

CAP. 44 - Come debbono fare la soddisfazione gli scomunicati

CAP. 45 - Quelli che sbagliano nell'oratorio

CAP. 46 - Quelli che sbagliano in una qualsiasi altra cosa

CAP. 47 - Il segnale per l'Ufficio divino

CAP. 48 - Il lavoro manuale giornaliero

CAP. 49 - L'osservanza della quaresima

CAP. 50 - I frat. che lavorano lontano dall'orat. o sono in viaggio

CAP. 51 - I fratelli che vanno fuori non molto lontano

CAP. 52 - L'oratorio del monastero

CAP. 53 - Come debbono essere accolti gli ospiti

CAP. 54 - Se il monaco possa ricevere lettere o altre cose

CAP. 55 - Vesti e calzature dei fratelli

CAP. 56 - La mensa dell'abate

CAP. 57 - Gli artigiani del monastero

CAP. 58 - Procedura per l'ammissione dei fratelli

CAP. 59 - I figli dei ricchi o dei poveri che vengono offerti

CAP. 60 - I sacerdoti che volessero eventualmente entrare in monast.

CAP. 61 - Come debbano accogliersi i monaci pellegrini

CAP. 62 - I sacerdoti del monastero

CAP. 63 - L'ordine della comunita`

CAP. 64 - L'elezione dell'abate

CAP. 65 - Il Priore del monastero

CAP. 66 - I portinai del monastero

CAP. 67 - I fratelli mandati in viaggio

CAP. 68 - Se a un fratello vengono comandate cose impossibili

CAP. 69 - In monastero nessuno ardisca difendere un altro

CAP. 70 - Nessuno osi arbitrariamente percuotere un altro

CAP. 71 - Che i fratelli si obbediscano a vicenda

CAP. 72 - Lo zelo buono che i monaci debbono avere

CAP. 73 - Non tutte le norme della perf. sono contenute in questa Reg. 43




Testi usati per la compilazione di questi appunti (affinche' non si creda che sia "farina del mio sacco"!):

BOGGERO, M.B. Appunti sulla Regola di S.Benedetto, pro man., Fabriano 1979.

COLOMBAS, G.M. La Regla de San Benito, Madrid, 1979.

DE VOGUE', A. La Regle de Saint Benoit, voll.7, Paris 1972-77.

LENTINI, A. S.Benedetto. La Regola, 2ed., Montecassino 1980.

WATHEN, A. Introduzione allo studio della Regula S.Benedicti, pro man., Roma 1977-78.

... e altre "scopiazzature" qua e la' su altri testi. Sopratutto ho seguito lo schema di COLOMBAS, prendendo molto anche dal suo testo.

 

D.Lorenzo Sena, OSB.Silv.

Fabriano, Monastero S.Silvestro, Ottobre 1980




INTRODUZIONE GENERALE

1. L'AUTORE

Benedetto nacque a Norcia verso il 480. Mandato a studiare a Roma, a 20 anni circa, verso il 500, fuggi' la corruzione e la miseria del mondo e si rifugio' dapprima in un piccolo borgo, Affile, a 50 km da Roma, ove pensava di vivere con altre pie persone in forma ascetica. Cerca poi la solitudine nella valle dell'Aniene, sui monti Simbruini, desiderando di piacere solo a Dio.

Inizia cosi' in una grotta l'esperienza eremitica nella sua forma piu' pura, tra incredibili asperita' e penitenze per vari anni: lotta contro il demonio, lotta con se stesso, preghiera, macerazioni. Cosi' egli pensa di vivere per sempre.

Ma il Signore ha altri disegni: molti, attirati dalla sua santita', vogliono mettersi sotto la sua guida, e allora l'anacoreta inizia la sua esperienza di cenobita e di padre di monaci. Costruisce a Subiaco o meglio nella valle sublacense 12 piccoli monasteri, con dodici monaci ciascuno, retti ognuno da un proprio capo, ma tutti dipendenti da Benedetto stesso.

Nel corso degli anni si matura nel santo un altro ideale di organizazione e di vita cenobitica. Verso il 529 si reca a Montecassino, dove fonda il grandioso monastero. Qui, nella piena maturita' degli anni e del pensiero, egli scrive la Regola con una organizzazione che consenta a tutti di vivere e lavorare nel recinto della clausura, con una costituzione che poggi sulla stabilita' dei monaci. Dalla Regola, che e' il reflesso fedele della sua vita - come dice S.Gregorio Magno - appare che l'autore:

- e' un innamorato di Cristo, Signore e Re, e insieme di Cristo sofferente e paziente, obbediente al Padre;

- e' convinto che nella vita quotidiana in seno alla comunita' si puo' trovare Dio, oggetto della sua ricerca, poiche' nella comunita' stessa si realizza il mistero pasquale di Cristo morto e risorto.

Benedetto muore a Montecassino nel 547(?) o qualche anno dopo.

Cf.Agiografia di Benedetto nello studio approfondito del Libro II dei Dialoghi di S.Gregorio Magno.

 

2. IL LIBRO

Come detto sopra, S.Benedetto scrisse la Regola a Montecassino in un periodo databile dal 530 al 550. Non la scrisse tutta di getto, ma a poco a poco, rivedendola varie volte, aggiungendo o togliendo con sapienza varie cose (vedi piu' sotto: 3. Divisione e struttura della Regola). E' certo che e' stata una gestazione lenta, opera di un uomo pratico e spirituale, frutto delle sue convinzioni profonde, delle sue letture, della sua esperienza di monaco e di abate, docile alla voce dello Spirito che parla alla Chiesa (cf.RB.Prol. 11).

Benedetto scrive con un suo disegno preciso: un testo chiaro e fisso che non solo intende impedire il disordine di falsi monaci (sarabaiti e girovaghi), ma vuol dare ai cenobiti un corpo di dottrina ascetica sobrio e insieme abbastanza completo, un equilibrato ordinamento liturgico per l'Opus Dei e un codice di norme per tutta l'organizzazione del cenobio. La Regola e insieme un testo legislativo e spirituale.

Certo, Benedetto non vuole essere un innovatore riguardo ai principi ascetici e mistici: venera e segue tutta la tradizione monastica precedente (lo dice espressamente nel cap.73). Ma da tutta la materia disseminata nei vari testi delle regole anteriori a lui, nella vita dei Padri, negli scritti spirituali di Cassiano,

egli intende trarre un nuovo testo che sintetizza, ordina e perfeziona gli elementi precedenti.

L'originalita' della Regola appare se si considera lo spirito di cui l'autore la anima: "la Regola si impose ben presto su quelle preesistenti per la sua intrinseca validita'", dicono i Vescovi italiani nel loro Messaggio per il XV Centenario di S.Benedetto. Emerge in essa - che Bossuet definisce "dotta e misteriosa sintesi del Vangelo" - il primato di Dio mediante la ricerca di Lui e l'adesione a Lui solo. Il punto qualificante della spiritualita' della Regola e' il cristocentrismo: Cristo posto al di sopra di tutto e nel mare di tutte le realta': "Non anteporre nulla all'amore di Cristo" (RB 4,21); e tutto nel monastero va visto come segno della sua presenza. E' veramente la vita del cristiano che non conosce altro se non Gesu' Cristo (cf.1Cor 2,2) e in lui il senso della vita e della storia e racchiuso come in un unico raggio di sole.

Si spiega cosi' il posto centrale che Benedetto assegna alla liturgia, chiama "Opera di Dio" - Opus Dei. "Nulla preporre all'Opera di Dio" (RB 43,3) e "Nulla preporre all'amore di Cristo" (RB 4,21) sono due espressioni di una unica convinzione: la liturgia infatti e' lo spazio privilegiato dell'incontro con Cristo, percio' il santo pone al centro e al culmine della giornata monastica il momento della lode divina che ritma il fluire del tempo.

Notiamo poi nella Regola la profonda umanita' fatta di equilibrio e discrezione. Benedetto ha la caratteristica di saper vedere l'essenziale, il veramente stabile e duraturo, mentre e' indulgente per le cose accessorie; considera l'uomo non solo quale dovrebbe essere, ma anche quale realmente e'. Per cui vuole che le norme si adattino a persone, condizioni e circostanze, e rimette ogni disposizione concreta al giudizio dell'abate. E' la "discrezione" fatta espressamente notare da S.Gregorio Magno: "mirabile per la discrezione" - "discretione praecipuam" (Dial.II,36). Benedetto vuole che ai fratelli malati o gracili si dia un lavoro piu' leggero (Rb 48,24); che quando c'e' un lavoro particolramente faticoso l'abate puo' aumentare la razione del cibo (RB 39,6) e anche del vino (RB 40,5); raccomanda all'abate la massima sollecitudine verso i fratelli erranti (RB 27), verso i malati (RB 36); lascia all'abate molta liberta' per quanto riguarda il cibo, la bevanda, i vestiti; vuole che ai fratelli si dia tutto il necessario perche' non abbiano a lamentarsi (RB 55,19); esorta l'economo ad essere come un padre per tutta la comunita' (RB 31,2), in modo che "nella casa di Dio nessuno si rattristi" (RB 31,19).

In compenso insiste sulla disciplina interiore e va diritto alle disposizioni intime: la ricerca di Dio, l'Opus Dei, l'umilta', l'obbedienza; qui vuole un impegno totale, una coerenza senza incrinature.

Ecco quindi lo spirito nuovo che Benedetto immette nella Regola; per questo fu tanto stimata nell'Occidente e col tempo ritenuta degna di imporsi su tutte le precedenti, proprio per il suo valore intrinseco.

Per chi scrisse S.Benedetto? Dall'esame interno della Regola appare che egli non pensava solo a Montecassino, perche' si presuppongono piu' monasteri, grandi e piccoli, situati in regioni di clima diverso (RB 40,5-8; 48,7; 55,1; ecc.). Sembra piu' verosimile l'ipotesi che egli abbia voluto fissare nello scritto delle norme per i suoi monaci di Montecassino, di Terracina e forse anche di Roma e Subiaco, e che poi altri abati d'Italia, attratti dalla fama di santita' dell'abate cassinese, lo abbiano spinto a scrivere o abbiano adottato il suo scritto.

La Regola si diffuse presto in tutta Europa. A causa delle vicende tumultuose dei tempi, e' difficile ricostruire il cammino di propagazione della Regola. Molto certamente giovo' alla sua diffusione l'autorita' prestigiosa di Gregorio Magno (sec.VI) che nei suoi "Dialoghi" diede speciale risalto alla biografia di Benedetto (tutto il Libro II) e fece l'elogio del codice monastico. Dagli studi appare che gia'

agli inizi del sec.VII, la Regola era conosciuta nelle Gallie. Lo stesso vale per l'Inghilterra, dove probabilmente fu portata da Agostino e dagli altri missionari inviati da Gregorio Magno. Da li' penetro' nella Frisia e nella Germania; si diffondeva contemporaneamente in Belgio, in Svizzera e in tutte le regioni dell'Europa Centrale.

Questo non significa che le altre regole erano sparite, specialmente quella di S.Colombano; solo che alla fine quella di S.Benedetto fini' col prevalere, persino a Bobbio stessa, fondazione di Colombano.

Al tempo di Carlo Magno (sec.IX), ormai la Regola dominava. Carlo Magno e poi Ludovico il Pio, con l'opera di riforma di S.Benedetto di Aniane, contribuirono molto alla diffusione e all'affermazione del codice monastico cassinese.

La Regola fu la base di vita a numerose riforme monastiche (congregazioni): Cluniacensi e Camaldolesi (sec.X); Avellaniti e Vallombrosani (sec.XI); Cistercensi (sec.XII); Silvestrini e Celestini (sec.XIII); Olivetani (sec.XIV); Trappisti (ramo piu' rigoroso dei cistercensi, sec.XVII); ecc. Anche le costituzioni dei Certosini e dei Premostratensi sono direttamente influenzate dalla Regola benedettina. Da essa prendono ispirazione anche le norme di parecchi ordini militari e ospedalieri del Medioevo.

Infine, tutte le nuove istituzioni di vita religiosa e regolare che sono fiorite nel corso dei secoli, si sono ispirate ai principi essenziali e alle norme fondamentali, ascetiche e disciplinari, del codice del Patriarca di Montecassino.

 

3. STRUTTURA E DIVISIONE

Abbiamo gia' detto che Benedetto non compose la Regola di getto, ma durante la sua vita, un po' per volta, aggiungeva un nuovo pensiero che modificava o precisava il pensiero precedente; questa elaborazione continua duro' fino al

termine della sua vita, perche' cambiavano le circostanze e maturava le sue esperienze di vita monastica.

Possiamo trovare nella Regola delle sezioni piu' o meno integrali (per es., codice liturgico: capp.8-20; codice penitenziale: capp.23-30 e 43-46) che forse all'inizio erano dei fascicoli a parte e poi furono inseriti nel testo. E' evidente poi che i capp.67-73 sono un'appendice aggiunta dopo; in una prima stesura, la Regola terminava al cap.66, come appare chiaro dalla frase di cap.66,8.

Cio' che ancora fa pensare a una stesura prolungata nel tempo e' il fatto che alcuni argomenti sono trattati piu' volte:

- due sezioni distinte riguardano le colpe e le penitenze: capp.23-30 e capp.43-36;

- dell'abate si tratta all'inizio (cap.2) e alla fine (cap.64);

- la dottrina dell'obbedienza e' disseminata in tutta la Regola (capp.5; 68; 71; ecc.).

Non possiamo dunque pretendere uno schema troppo preciso. Possiamo tuttavia tentare una divisione secondo un certo ordine:

- Oltre al Prologo e alla Conclusione (c.73),

- I Parte: sezione spirituale, principi ascetici (cc.1-7);

- II Parte: codice liturgico, (cc.8-20);

- III Parte: sezione disciplinare, leggi varie, (cc.21-72).

Quest'ultima parte, la dividiamo in varie sezioni:

(a) Decani del monastero, (c.21) e modo di dormire (c.22);

(b) codice penitenziale, (cc.23-30 e 43-46);

(c) ordinamento interno del monastero

e uso dei beni temporali, (31-57, eccetto 43-46):

- economo del monastero (31-34)

- disciplina sul vitto (35-41)

- orario e occupazioni dei monaci (42.47-48.54-57 e 49, Quaresima)

- chi e' in viaggio (50-51)

- oratorio (52)

- ospitalita' (53)

(d) accettazione dei candidati, (cc.58-62);

(e) gerarchia monastica, (cc.63-65)

- ordine della comunita' (63)

- elezione dell'abate (64)

- elezione del priore (65)

(f) relazioni con estranei (portineria e fratelli in viaggio, cc.66-67);

(g) relazioni scambievoli tra i fratelli, (cc.68-72).

 

4. FONTI DELLA REGOLA

S.Benedetto, come qualsiasi altro autore monastico del VI secolo, non aveva la pretesa di fare un'opera nuova e originale; le regole cenobitiche si proponevano di codificare dottrine ascetiche e usi-tradizioni per i monasteri. Benedetto, attraverso uno studio profondo ed assiduo, aveva familiare oltre la Bibbia (vedi piu' sotto al n.8 di questa Introduzione Generale), la precedente letteratura patristica e monastica.

a) San Pacomio.

Nato in Egitto verso il 290 (morto verso il 346), era soldato pagano. Si converti' e si ritiro' nei deserti d'Egitto a condurre una vita aspra di penitenza e di preghiera. Pacomio e' giustamente celebre nella storia del monachesimo cristiano per essere stato il primo organizzatore della vita ascetica comunitaria: e' veramente il padre del cenobitismo. La regola che da lui prende nome e' la prima regola monastica scritta (fu tradotta in latino da S.Girolamo nel 404) e ad essa si sono riferiti in qualche modo tutti i legislatori venuti dopo. La vita monastica dei pacomiani era derivata direttamente dalla Scrittura, sopratutto NT e in particolare i Vangeli. Altra caratteristica era imitare gli esempi dei Padri (Antonio il Grande, Pacomio stesso e cc.). La nota dominante e' l'organizzazione: si trattava di una specie di villaggio diviso in tante case o famiglie.

Le osservanze principali sono quelle che poi diverranno comuni a tutti i monaci: ufficio divino, celebrazioni liturgiche, letture bibliche, conferenze spirituali, lavoro di vario tipo secondo le varie "case". Inutile dire che in questi grandi agglomerati monastici c'era posto per tutti, c'era possibilita' di vari mestieri e di varie occupazioni.

Cf. G.TURBESSI, Regole monastiche antiche, 1974, pp.91-102 per l'introduzione e pp.103-131 per il testo delle Regole.

b) San Basilio

In RB 73,5 S.Benedetto parla di "Regola del nostro santo padre Basilio'. Per dire cosi', e' evidente che questi era conosciuto bene in Occidente ai tempi di S.Benedetto.

S.Basilio, detto "Magno", e' uno dei piu' grandi Padri della Chiesa Orientale. Nacque in Cappadocia nel 329 e fu presto affascinato dall'ideale monastico; percio' ando' a vedere la vita degli asceti, in Cappadocia e fuori. Dono' gran parte dei suoi beni ai poveri e si ritiro' presso Neocesarea. Presto si trovo' circondato da discepoli, sopratutto per l'equilibrio della sua vita e per l'impostazione evangelica del suo insegnamento. Fu consigliere e maestro di tutti i monaci della Cappadocia e con somma prudenza e carita' seppe dare un nuovo volto alla spiritualita' di questi austeri abitanti delle solitudini, i quali erano di una rigidezza a volte strana e quasi selvaggia, quindi mancante di carita', ed erano criticati aspramente da pagani e cristiani e mal visti dal clero.

Basilio scrisse due collezioni di regole:

- Regole lunghe ("Regulae fusius tractatae") e

- Regole brevi ("Regulae brevius tractatae",

tradotte poi in latino da Rufino.

Basilio non fu tanto un fondatore di un nuovo ordine religioso, quanto un equilibratore del monachesimo; si preoccupo' di ripensare l'ideale monastico nella linea della S.Scrittura, specialmente dei Vangeli, collegandolo alla teologia ecclesiale e togliendo ogni forma di individualismo egoistico.

E' merito di Basilio aver avvicinato il monachesimo alla cristianita' aver dimostrato a tutti i battezzati l’ideale della perfezione nella vita degli asceti. La sua influenza divenne maggiore allorche' venne ordinato prete verso il 362 e sopratutto quando venne consacrato vescovo nel 370.

Al centro dell'ascesi e della mistica del santo c'e' l'amore di Dio e l'amore del prossimo; siccome l'ideale di Basilio sgorga direttamente dai due precetti della carita', esso e' nello stesso tempo attivo e contemplativo. Non bisogna certo esagerare circa l'influsso sociale del monachesimo basiliano, ma e' vero che c'e' stato, anche se quello del santo e' derivato specialmente dalla sua qualita' di vescovo. S.Basilio mori', appena cinquantenne, nel 379. E' uno dei piu' grandi Padri e Dottori della Chiesa.

Cf. G.TURBESSI, o.c., pp.133-147 per l'introduzione e pp.148-266 per il testo delle Regole.

c) Sant'Agostino

Agostino e' uno dei piu' grandi geni dell'umanita'. Immenso e' stato il suo influsso nel pensiero e nell'azione della Chiesa d'Occidente. Tutti conoscono i suoi meriti nel campo della teologia, della filosofia e della letteratura; invece il suo influsso in campo monastico e' stato riscoperto solo negli ultimi anni; eppure il monachesimo latino deve molto a lui.

Nato a Tagaste, in Africa, probabilmente nel 354, dopo un periodo movimentato e di sbandamento intellettuale e morale (narrato nelle sue famose Confessioni), si converti' e fu battezzato da S.Ambrogio di Milano.

La risoluzione di farsi cristiano coincise con quella di farsi monaco (era stato colpito dalla vita di Antonio, il grande eremita); tutta la sua esistenza fu tesa nel realizzare in se' (e intorno a se') i punti essenziali dell'ascesi monastica, vista non come realta' statica ma dinamica, da realizzare in una continua ricerca di Dio, resa possibile dalla grazia, in uno studio appassionato e costante della

S.Scrittura; avra' come modello e stimolo l'esempio della prima comunita' cristiana di Gerusalemme', descritta negli Atti degli Apostoli.

Quando ritorno' in Africa, verso il 388, Agostino si spoglio' dei beni che aveva e si ritiro' fuori della citta', in compagnia di alcuni amici per una vita di perfezione, nella preghiera, nello studio e nell'austerita'.

Nel 391 si trasferisce da Tagaste a Ippona in cerca di maggior pace; ma il vescovo all'improvviso lo chiama e lo ordina sacerdote; pero' gli regala un terreno vicino alla cattedrale: qui Agostino costruisce un monastero, che diventa presto seminario di preti e di vescovi della Chiesa cattolica africana. Dovette lasciare la pace del chiostro quando fu, a malincuore, consacrato vescovo nel 395. Mori' a Ippona nell'anno 430.

L'ascesi monastica agostiniana e' contenuta nella Regola per i servi di Dio ("Regula ad servos Dei"), molto breve ma piena di sapienza e di equilibrio. Le grandi linee sono:

- ricerca costante di Dio nella vita comune, realizzata in un perfetto spogliamento individuale e in una perfetta comunione di beni;

- fusione degli spiriti e dei cuori in una autentica carita';

- apertura pastorale ai fratelli.

C'e' somiglianza tra il monachesimo agostiniano e quello di S.Basilio Magno: tutti e due prendono a modello il Vangelo e il fervoroso inizio della prima comunita' cristiana di Gerusalemme; in S.Agostino si vede piu' chiaramente l'unione del monachesimo al sacerdozio, come pure un impegno piu' immediato verso lo studio delle scienze sacre.

La "discrezione". sia come discernimento degli spiriti sia come moderazione ed equilibrio, trova nei due grandi dottori (Basilio e Agostino) dei meravigliosi precursori di S.Benedetto.

S.Agostino sviluppo' e organizzo' in terra d'Africa anche la vita monastica femminile con le due celebri lettere : "Epistula 210 e 211" indirizzate alle sacre vergini.

Cf. G.TURBESSI, o.c., pp.269-280 per l'introduzione e pp.281-297 per il testo della Regola.

d) Giovanni Cassiano

Nessuno meglio di Giovanni Cassiano puo' farci comprendere la vita monastica come la vivevano i Padri del Deserto; nelle sue opere: De Institutis coenobiorum (Istituzione dei cenobi, 12 libri) e Collationes (Conferenze o Collazioni, 24 libri) egli ci fornisce un materiale completo e insieme indispensabile per la comprensione della vita monastica primitiva; la vita ascetico-mistica realizzata e vissuta dai Padri appare come il fondamento per chi voglia seguire i consigli evangelici.

Nato verso il 360, originario probabilmente della Scizia, Cassiano era vissuto a lungo come monaco prima in Palestina e poi in Egitto e conobbe, essendo loro discepolo o amico, i piu' grandi Padri del Deserto, sia dell'Oriente che dell'Occidente. Come frutto dei suoi viaggi e delle sue conoscenze, inizio' gli occidentali alla vita spirituale dei monaci dell'Oriente con le due opere di cui sopra. Ordinato prete ad Antiochia intorno al 413, lascio' l'Oriente verso il 415 per recarsi a Marsiglia, dove fondo' due monasteri, uno per uomini e uno per donne. Mori' verso il 435.

Cassiano fu il primo ad introdurre in Gallia una forma di ascetismo ispirata alla tradizione egiziana ma mitigata da una prudenza che sembra annunziare la moderazione di S.Benedetto.

Cassiano e' molto importante per capire la Regola benedettina, perche' costituisce una delle fonti piu' importanti; moltissimi passi della RB trovano riscontro nelle opere di Cassiano; S.Benedetto lo cita spesso e ne raccomanda

espressamente la lettura (RB 42,3-5; 73,5), anche se i termini "institutiones" e "collationes" possono essere nomi comuni e indicare certamente l'opera di Cassiano, ma non soltanto questa.

e) Le "Vitae Patrum"

Altra fonte della RB e libro raccomandato ai monaci per il loro cammino spirituale (RB 73,5) sono le Vite dei Padri ("Vitae Patrum"). Si tratta di una collezione di documenti biografici antichi, chiamata cosi' genericamente. Sono giunte a noi attraverso una trascrizione del sec.XVII, riunita in 10 Libri che contengono svariati argomenti:

- Libro I: Vite dei Padri (per es. Antonio, Pacomio, ecc.);

- Libri II-VII: Apoftegmi o Detti dei Padri del Deserto;

- Libri VIII-X: Storia dei monaci d'Egitto,

Storia Lausiaca di Palladio,

Collazioni (conferenze) scelte di Cassiano,

Prato spirituale di G.Mosco, ecc.

f) Le "Regulae Patrum"

Si tratta di un insieme di Regole che formano un "corpus" caratteristico nella legislazione monastica occidentale. Sono quattro Regole "gemelle":

- La Regola dei 4 Padri ("Regula IV Patrum");

- La Seconda Regola dei Padri ("II Regula Patrum");

- La Terza Regola dei Padri ("III Regula Patrum");

- La Regola di Macario ("Regula Macarii).

Si ritiene che siano resoconti di sinodi di abati della Gallia del V secolo. La Regula IV Patrum, da cui sono nate le altre tre, costituisce veramente un documento molto importante: si puo' affermare che e' il primo testo legislativo del monachesimo occidentale, il primo nucleo di regola che e' servita realmente a governare una comunita' in Occidente, i cui elementi sono stati di base per le regole posteriori. Contiene difatti tutti gli elementi essenziali di una regola: insistenza sulla vita comune, ruolo del superiore, obbedienza dei fratelli, accoglienza dei postulantigrande insistenza sullo spogliamento di se' (beni personali), condanna della mormorazione e correzione delle colpe; parla del digiuno, della lettura, del lavoro, del servizio vicendevole del cellerario, della cura degli attrezzi, dell'accoglienza dei monaci forestieri e percio' del rapporto con gli altri monasteri. Tutte cose che troviamo poi in maniera chiara nelle regole posteriori, soprattutto nella RM ("Regula Magistri") e nella RB. E' poi tutta intessuta (come le altre regole) di citazioni della S.Scrittura che fanno da fondamento alle prescrizioni.

La Regula IV Patrum concretizza il desiderio (e il pallino, quasi) di Cassiano di organizzare la vita cenobitica in un periodo in cui predominava una corrente ascetica ancora fortemente caratterizzata dall'eremitismo.

Cf. G.TURBESSI, o.c., pp.317-323 per l'introduzione e pp.324-334 per il testo. Cf.H.LEDOYEN, La Regle de Saint Benoit. Legislation monastique, in "Atti del 7.Congresso Internazionale di Studi sull'alto Medioevo", Spoleto 1982, pp.397-401. Ed.critica di De Vogue': SC 297-298.

g) La "Regula Magistri"

Per i rapporti particolari che presenta con la RB esige una speciale menzione e una trattazione a parte (vedi appresso, n.5 di questa Introd.Gen.).

Da qui in poi non si tratta propriamente di Fonti della RB, ma di regole e persone contemporanei di S.Benedetto.

h) San Cesario di Arles

Resta incerto se S.Benedetto abbia conosciuto l'opera del suo contemporaneo S.Cesario (470-542). Egli, fattosi monaco a Lerins fin dalla piu' tenera giovinezza, volle rimanere tale anche da vescovo (come S.Agostino che aveva preso a modello), cercando di unire i doveri pastorali con quelli di asceta; trasformo' il palazzo vescovile in monastero. Frutto dello speciale amore per la vita monastica, restano di lui la Regola per le Monache ("Regula sanctarum virginum"), abbastanza lunga e dettagliata, da cui deriva l'altra, la Regola per i Monaci ("Regula ad Monachos"), piu' breve e sunteggiata.

La Regula sanctarum virginum fu seguita non solo dalle monache di Arles, ma anche dagli altri monasteri femminili della Gallia; poi man mano fu sostituita dalla Regola di S.Benedetto.

Cf. G.TURBESSI, o.c., pp.335-341 per l'introduzione e pp.343-366 per il testo.

i) Regole Provenzali del VI secolo

Insieme alle regole di S.Cesario, accenniamo anche a queste altre tre:

- Regula Aureliani ("Regola di Aureliano"). Questi e' il successore di Cesario come vescovo di Arles (546-551).Scrisse una regola prima per i monaci, poi per le vergini, con caratteri di chiarezza ed equilibrio. Dipende dalla Regola di S.Cesario e da Cassiano, Basilio, Agostino, la II Regula Patrum, la Regola di Macario e dai sinodi gallicani.

- Regula Tarnantensis ("Regola di Tarnant"), scritta circa il 551-573. Anche questa e' contemporanea di S.Benedetto. Dipende dalla "Regula sanctarum virginum" di Cesario, probabilmente da quella di Aureliano, e dalla III Regula Patrum. Notiamo in essa l'orario diverso per la lettura secondo le stagioni (come in S.Benedetto).

- Regula Ferreoli ("Regola di S.Ferreolo"). Questi era vescovo di Uzes (553-581). Anche questa regola e' nata nell'ambiente monastico di Arles. Non si sa se Ferreolo abbia conosciuto la Regola di S.Benedetto. Sembra probabile, e cosi' questo potrebbe essere la prima testimonianza dell'influsso della RB sulle altre.

l) Cassiodoro

Un altro che probabilmente conobbe la RB e' Cassiodoro. Nato a Squillace in Calabria nel 485 da nobile famiglia, fu ministro di Teodorico alla corte di Ravenna e sali' fino al vertice della scala degli onori.

Disgustato della vita pubblica, la abbandono' nel 540, ritirandosi nelle sue terre, dove fondo' il celebre monastero di Vivarium di cui fu abate. Organizzo' sapientemente la vita nel monastero, divisa tra preghiera e studio (sacro e profano), trascrizione di codici (famosa era la biblioteca di Vivarium). L'opera principale di Cassiodoro e': Institutiones divinarum et saecularium litterarum ("Istituzioni delle lettere sacre e profane"). Mori' nel 583.

5. RELAZIONE CON LA "REGULA MAGISTRI"

Tra le varie regole monastiche occidentali, la cosiddetta Regola del Maestro ("Regula Magistri") occupa un posto distinto per le sue caratteristiche interne e specialmente per la sua notevole estensione. Non se ne conosce il nome dell'autore; l'attuale titolo non e' originario, venne chiamata "Regola del Maestro" da S.Benedetto di Aniano (sec.IX) dalla maniera di introdurre l'argomento dei capitoli:

- Interrogatio discipuli (Domanda del discepolo)

- Respondit Dominus per magistrum (Risponde il Signore per mezzo del maestro).

I manoscritti invece hanno come titolo Regula Sanctorum Patrum (Regola dei Santi Padri). Tre soli manoscritti ce l'hanno conservata integralmente. Tra i codici che ne riportano alcune parti, importantissimo e' il Par.Lat. 12634 (Parisiensis Latinus) che viene datato alla fine del secolo VI o inizi del VII, di origine italica, forse proprio del monastero di Cassiodoro, il su menzionato Vivarium.

Nessuna regola monastica dell'Oriente e dell'Occidente e' cosi' voluminosa, completa e particolareggiata come la RM. E' tre volte piu' lunga della RB, la quale pure viene considerata come una delle regole antiche piu' completa. La RM e' composta di un prologo e 95 capitoli.

La RM e la RB presentano una somiglianza tale che fa pensare necessariamente a rapporti reciproci. Le concordanze verbali sono piu' evidenti nel prologo e nei capp.1-7 RB = 1-10 RM, in cui le due regole riproducono quasi un identico testo; anche nel seguito pero' esistono parallelismi, somiglianze nelle norme o nelle consuetudini. Hanno in comune grosso modo il piano generale di composizione; la RM termina con il capitolo sui portinai del monastero, che corrisponde a RB 66 con cui finiva in origine la Regola di Benedetto. La RM si distingue dalla RB per la ampollosita', la descrizione bizzarra e la prolissita'.

Quale fu la patria, l'origine, l'autore, la data della RM e il suo rapporto con la RB? Era opinione comune che la RB fosse opera originale, documento autentico ed esclusivo del genio e della spiritualita' di S.Benedetto, il quale usava, si', svariate fonti patristiche e monastiche dei secoli precedenti, ma mai parola per parola, come invece si puo' notare confrontando la RM. Secondo questa opinione, la RM era un commento alla RB, risalente al sec.VIII. Altri dicevano che il "Maestro" era lo stesso S.Benedetto, che poi sunteggio' una prima stesura lunga della Regola; che forse la RM veniva usata prima a Subiaco, oppure a Vivarium; altri ancora pensavano che la RM fosse usata dopo la RB come un commento o istruzione.

Oggi pare quasi certa e accettata dalla maggior parte degli studiosi - anche se un'argomentazione veramente apodittica e perentoria non c'e' - l'ipotesi della priorita' della RM: cioe' che S.Benedetto uso' la RM come fonte letteraria. Questo puo' aiutare a capire lo schema della RB, modellato su quello della RM.

La RM e' divisa in due parti:

- I. Dottrina spirituale (Prol. e cc.1-10 = RB Prol. e cc.1-7);

- II. Ordo monasterii (cc.11-95 = RB cc.8-66).

Non deve sorprendere che S.Benedetto abbia trascritto lunghi tratti della RM (quasi alla lettera nei primi capitoli). Bisogna tener presente la mentalita' dei tempi: per gli antichi, uno scritto dottrinale era patrimonio comune e se ne prendeva liberamente il contenuto senza il bisogno di citarlo. Ma bisogna anche dire che S.Benedetto non trasferisce di peso la materia di quei capitoli: egli abbrevia, omette, aggiunge, corregge secondo un suo pensiero e un suo spirito particolari; sia nella sezione disciplinare come in quella dottrinale (RB cc.1-7) ci sono delle differenze molto interessanti ed importanti, che gli studiosi stanno approfondendo sempre piu'.

Per alcuni passi della RM, cf. G.TURBESSI, o.c., pp.372-395.

CONFRONTO TRA I PIANI DELLE DUE REGOLE

RB                    RM              |             RB             RM

Prologo            Thema          |

1-7                    1-10             |             39-42         26-30

8-18 (cod.liturgico)    33-46   |             43-47         54-55.73

19-20                 47-48           |             48             50

21-22                11                |             49 (Quaresima) 51-53

23                     12                |             55             81

24                     13                |             56-57        84-85

26-30                14                 |            58             87-90

31-33                16-17.82        |            59             91

34                     -                   |            63-64        92-93

35                    18-23.25        |            65             -

36                    69-70            |            66             95

37                    -                   |            67 (+52)     67-68

38                   24                 |            68-73         -

 

6. LINGUA E STILE DELLA RB

Il latino usato da S.Benedetto non e' classico, libresco o artificiale, come quello di Cassiodoro o di Boezio, ne' fiorito e ornato come quello di Cassiano, ma e' la lingua viva del sec.VI come si parlava in Italia, ricca di vitalita' e facile a capirsi da tutti, senza per altro essere una lingua veramente "volgare" (come, per es., nelle iscrizioni "volgari" dell'epoca).

L'educazione letteraria dell'autore appare nell'eleganza di molti periodi, nella proprieta' di vocabolario, con una lingua assai vicina a quella che si parlava nelle classi medie e superiori; sopratutto Benedetto si preoccupa della chiarezza.

La cultura spirituale dell'autore appare continuamente: il vocabolario, la sintassi, la grammatica, lo stile sono in comune con il latino monastico e sopratutto con il latino della Bibbia e della liturgia. Notiamo qui soltanto alcune particolarita':

- inclusione: quando un brano inizia e termina con la stessa parola o con la stessa frase (es. RB 21,1: 21,7; RB 41,1: 41,7);

- carattere vivace della latinita' e quindi dell'autore Benedetto, che si mostra uomo libero e appassionato (usa spesso espressioni popolari);

- ripetizioni: stesse parole o nozioni o frasi intere riappaiono spesso nella RB; ci dicono qualcosa che e' nel profondo del cuore dell'autore, a cui egli tiene molto.

La forma letteraria e' varia, a seconda della materia trattata; per es.: nel prologo abbiamo la forma omiletica, nel codice penale (RB 23-30 e 43-46) la forma giuridica. Molti capitoli in cui tratta un argomento nuovo, Benedetto li inizia con un principio generale e poi passa a sviluppare la dottrina come conseguenza (es.: RB 5; 19; 24; 30. 36; 42; 48; 72).

Ma ci si puo' domandare se la RB in quanto tale abbia una sua forma letteraria unitaria. Alcuni autori preferiscono parlare di forma letteraria sapienziale. Mi riferisco sopratutto al Wathen, dalle cui dispense (lezioni tenute all'Istituto Monastico a S.Anselmo) prendo alcune riflessioni.

 

7. MODELLO SAPIENZIALE

La "sapientia" (saggezza) e' un tipo di conoscenza che nasce dall'esperienza ordinaria (quindi capire le cose non in modo scientifico, astratta, impersonale, ma in modo intuitivo, personale) e ha lo scopo di guidare l'uomo dandogli un senso per la vita. La conoscenza sapienziale viene espressa in forma poetica (in senso largo, per es.: i detti, i proverbi dei nostri anziani).

Noi moderni forse abbiamo perduto le massime, i proverbi ecc., e cosi' abbiamo perduto anche la saggezza in essi contenuta.

Nei Libri sapienziali della S.Scrittura ci sono varie forme di questo genere: la piu' nota e' quella dell'insegnamento del maestro al discepolo (es. Sir. 2,1-18; Prov. 1,10; 2,1; 4,1 ecc.).

La stessa forma la ritroviamo nella tradizione monastica, ad esempio nella "Admonitio Sancti Basilii ad filium spiritualem", che e' la fonte piu' diretta del prologo di RM e RB; altro esempio classico si trova nel IV Libro delle Istituzioni di Cassiano, capp.31-43: l'esortazione dell'abate Pinufio ai novizi prima della professione (e nel cap.41 si ritrovano 10 indizi di umilta', la fonte di RM 10 e RB 7). Ora, nella RB, il prologo ha chiaramente il carattere di istruzione sapienziale. Ma anche la Regola intera in quanto tale ha punti di contatto con la tradizione sapienziale:

- atteggiamento comune riguardo allo scopo, che e' quello di comunicare sopratutto un sapere strettamente pratico, non teorico: Benedetto si interessa di piu' alla disciplina pratica;

- la preoccupazione primaria dei saggi era l'"ordo" - l'ordine sociale. In Benedetto troviamo la stessa preoccupazione; la parola "ordo" ricorre 27 volte: ordine nel coro, ordine nel refettorio, ecc.

- nella letteratura sapienziale ci sono delle parole specifiche (sapienza, via, cammino, disciplina, ammonizione, stare attento, meditare, insegnare...); ci sono vari generi letterari (dialogo, elenco...); anche lo stile e' particolare, ad es.: il parallelismo, cioe' dire la stessa cosa in due versetti. Tutto questo si trova nella RB;

- ci sono poi nella RB temi sapienziali specifici: la pazienza, il timor di Dio...

Da tutto cio' possiamo ritenere la RB come appartenente alla letteratura sapienziale. Quindi non si puo' interpretare con un eccessivo giuridismo; la RB insegna sopratutto a raggiungere la saggezza; le leggi mirano ad insegnare al monaco la via dell'amore. Ne consegue che la vita monastica e' in primo luogo una vita sapienziale, pero' non in modo teorico ma concreto ed esperienziale: il monaco impara a dare concretamente il suo contributo per la disciplina comunitaria e insieme per la crescita della persona.

 

8. L'USO DELLA BIBBIA NELLA REGOLA

Una parola a parte diciamo per l'uso che Benedetto fa della S.Scrittura: egli si nutri' della letteratura monastica di cui abbiamo parlato prima, ma sopratutto della Parola di Dio: "Quale pagina o quale parola di autorita' divina del Vecchio e Nuovo Testamento - osserva egli stesso - non e' norma sicura di condotta per la nostra vita?" (RB 73,3).

La spiritualita' benedettina e' eminentemente biblica e tutta la Regola e' come impregnata della S.Scrittura; si vede proprio l'uomo abituato a meditare e a "ruminare" la Parola di Dio. Difatti la conosce molto bene e puo' citarla quasi spontaneamente; la grande familiarita' che egli ha con i sacri testi lo porta spesso a citare a memoria, sicche' gli succede ogni tanto di riportare un medesimo testo con qualche variante. Sono piu' di 100 le citazioni esplicite e piu' di 170 le citazioni implicite o i richiami. Piu' utilizzati fra tutti sono i passi dottrinali, in particolare i salmi, i Proverbi, il Siracide, e del NT Matteo e le epistole paoline. Il linguaggio stresso e' quello biblico, con vocabolario, stile e certe particolari costruzioni della frase che sono comuni al latino della Scrittura e della Liturgia.

9. MANOSCRITTI DELLA REGOLA

Col propagarsi dei monasteri, si moltiplicarono anche le copie del testo della Regola. Esistono oggi molti manoscritti del testo della RB (solo nella biblioteca nazionale di Parigi ne esistono piu' di 30); il problema principale e' stabilire, secondo la datazione e l'analisi storica, quale si avvicini al testo originario.

Il manoscritto piu' antico che abbiamo e' il cosiddetto Codice O (i manoscritti sono indicati con una lettera del nome della biblioteca in cui sono conservati e dal numero d'ordine). Si trova nella biblioteca di Oxford e fu redatto nel sec.VIII in Inghilterra. Pero', secondo gli storici, contiene un testo interpolato, cioe' corretto dai copisti preoccupati di migliorarne il latino.

I numerosi manoscritti della RB vengono divisi in categorie secondo il latino usato. Abbiamo cosi' tre tipi o classi:

A. testo puro

B. testo interpolato o corretto secondo la grammatica classica

C. testo "recepto" (=accettato).

 

A. TESTO PURO

1. Codice (OMEGA)

Autografo di S.Benedetto scritto a Montecassino. Quando nel 577 i Longobardi distrussero l'abbazia il prezioso codice fu portato dai monaci a Roma nella biblioteca lateranense. Riedificato il monastero nel;; 740-742 dall'abate Petrobace, Papa Zaccaria restitui' l'autografo. Nell'833 i Saraceni devastarono Cassino e i monaci fuggirono nuovamente con l'autografo a Teano. Ma qui nell'896 il codice ando' perduto in un incendio.

2. Codice (PSI)

Nel 787 due monaci francesi avevano fatto una copia esatta dell'autografo, il codice omega (quando ancora si trovava a Montecassino), per ordine di Carlo Magno che voleva il testo esatto della Regola per introdurla nei monasteri del suo territorio. Il codice fu portato ad Aquisgrana. Disgraziatamente anche questo ando' perduto.

3. Codice A: Sangallensis 914.

Nell'817 due monaci svizzeri si recarono ad Aquisgrana per fare una copia della copia; questa va identificata con il famoso manoscritto, ancor oggi conservato, il Sangallensis 914, che rappresenterebbe cosi' il piu' fedele testimone dell'autografo. Avremmo cosi' un caso eccezionale nella storia della tradizione manoscritta dei testi antichi: un codice che disterebbe dall'autografo attraverso un solo intermediario. L'autorita' del codice A e' confermata anche dall'analisi interna del testo, che evidenzia un latino del VI secolo localizzabile nell'Italia meridionale. Il codice A e' chiamato "esemplare normale", ed e' quello oggi comunemente usato nelle edizioni della Regola.

Tra gli altri manoscritti derivati dal codice A, ricordiamo:

4. Codice B: Vindobonensis 2232 (Vienna), contemporaneo al codice A (secolo IX), ma meno corretto e accurato.

5. Codice C: Monacensis 28118, Monaco, secolo IX.

6. Codice T: Monacensis 19408, Monaco, secolo VIII.

7. Codice K: in Italia abbiamo i codici di tradizione cassinese, tutti indicati con la lettera "K" e conservati a Montecassino. Il piu' antico e' il K 175 (secolo X), concorda molto spesso con A ed e' uno dei piu' autorevoli. Ricordiamo ancora il "K 179" e il "K 442" (secolo XI). Singolare e' il Codice X (= K 499) del secolo XIII-XIV, portato a Montecassino non si sa quando e da dove, con un testo assai guasto e insieme con tante concordanze con A.

 

B. TESTO INTERPOLATO

Si tratta di una classe di codici che contengono un testo (assai diffuso in Italia, Gallia, Inghilterra e Germania) con aggiunte e modifiche dovute o a una difettosa intelligenza del testo o all'intenzione di adattarlo meglio alle regole grammaticali. L'archetipo (cioe' il primo di questo tipo da cui hanno avuto origine gli altri) si fa risalire fino al se.VI e viene indicato con la lettera (SIGMA): e' inesistente. Tra i codici di questa famiglia ricordiamo:

- Codice O: Oxoniensis Hatton 48, il piu' antico degli esistenti (secolo VIII);

- Codice V: Veronensis LII (secolo VIII);

- Codice S: Sangallensis 916 (secolo IX), notevole per la traduzione interlineare in tedesco antico.

 

C. TEXTUS RECEPTUS

C'e' una terza famiglia di testi, sorta dai continui tentativi degli amanuensi di correggere l'originale e forse anche i testi interpolati e che gia' si presenta sin dalla fine del secolo VIII. Tale tipo di testo, frequente gia' nel secolo X, invalse sempre piu' nell'uso comune perche' piu' facile a capirsi e piu' corretto grammaticalmente. E' quello ordinariamente conosciuto e stampato fin verso la fine del secolo scorso. E' stato chiamato Textus Receptus = TR (testo accettato).

Nell'archivio del monastero di S.Silvestro in Montefano si conservano due codici della Regola che seguono la tradizione cistercense: Codice 1 e Codice 2.(cf. articolo di L.SENA, Il testo della Regola di S.Benedetto contenuto nei due codici di Montefano, in "Inter Fratres", 39 (1989), pp.3-64. Il testo del Codice 2 e' pubblicato nel vol. 9 della "Bibliotheca Montisfani": Alle fonti della spiritualita' silvestrina. I Regola e Vita di S.Benedetto, testo latino e versione italiana, a cura di L.SENA e V.FATTORINI, Fabriano 1990.

NOTA IMPORTANTE

Nonostante tutti questi codici, il pensiero genuino di S.Benedetto e' stato conservato, perche' le varianti (che non siano mai interpolazioni) non toccano quasi mai il senso, sicche' abbiamo la sicurezza di conoscere il pensiero autentico del santo Patriarca. Le divergenze interessano specialmente lo studio filologico.

10. EDIZIONI DELLA REGOLA

Furono fatti vari tentativi nel 1600 di ricostruire un testo critico della Regola. Le edizioni piu' importanti si hanno pero' solo a partire dal secolo scorso. Ricordiamo:

Schmidt: nel 1880; poi nel 1892 piu' corretta della prima edizione; ha per base il Codice A.

Traube: famoso studio del 1898, in cui affronto' tutto il problema della trasmissione del testo dei vari codici ess., stabilendo saldamente il valore del codice A.

Butler: nel 1912, nel 1927 e nel 1935, sul Codice A.

Edizione del monastero di Cava dei Tirreni: nel 1913 e nel 1929: riporta alla lettera il testo del Codice A.

Linderbauer: nel 1922 e nel 1928, testo molto studiato e accurato sulla scorta di A e dei migliori codici.

Schmitz: nel 1946 e una seconda edizione nel 1955.

Negli ultimi anni si sono avuti studi notevoli sotto l'aspetto critico, che hanno portato ad opere di fondamentale valore. Ricordiamo:

G.Penco: nel 1958, riporta le varianti dei codici A (e anche "alfa" = annotazioni marginali del codice A e O e anche di due manoscritti della RM, con cui confronta sempre la RB; aggiunge un acuto e diligente commento.

R.Hanslik: nel 1960 e' uscita la tanto attesa edizione critica. L'illustre studioso ha consultato piu' di 300 codici sparsi nel mondo e riporta le varianti di piu' di 70. Utilissime sono l'introduzione e gli indici: quello della S.Scrittura e di tutti gli autori citati, quello delle parole, quello ortografico e quello grammaticale. Nel 1977 e' uscita la seconda edizione.

J.Neufville - A. de Vogue': Notevole lavoro uscito nel 1972 e anni seguenti. Al primo e' dovuta l'edizione critica del testo, al secondo l'introduzione, annotazioni e commento. L'opera e' inserita nella serie dei volumi del De Vogue' sulla Regola: 7 volumi di vastissima erudizione con commento abbondante ed eccellenti indici: delle parole, grammaticale, ortografico, ecc.

11. COMMENTI DELLA REGOLA

I commentari alla Regola risalgono alla piu' remota antichita' e si susseguono man mano lungo il corso dei secoli. Ricordiamo:

(a) Commentari antichi (dei secoli precedenti)

Paolo Diacono: scrisse il primo commento alla Regola, secondo un'opinione, a Montecassino nel 786.

Smaragdo: "Expositio Regulae S.Benedicti", verso l'820.

Card.Giovanni de Torquemada: "Expositio in Regulam S.Benedicti", nel 1441, stampato molte volte.

Ab.Giovanni Tritemio: scrisse il "Commentariu" agli inizi del 1500 sui soli primi sette capitoli; e' una eccellente esposizione della dottrina ascetica di S.Benedetto.

Martene: "Commentarium in Regulam S.Benedicti", nel 1690, opera egregia sotto l'aspetto storico (riportato nel Migne).

Calmet: eccellente commento con molta soda dottrina, nel 1732 (in francese, tradotto anche in italiano nel 1751).

NOTA. Dagli studi piu' recenti sembra ormai certo che i tre commenti di: Paolo Diacono, Ildemaro e del monaco Basilio, non sono altro che tre recensioni diverse del commento di Ildemaro, composto quasi certamente a Civate (Como). Quindi cade l'attribuzione a Paolo Diacono, e il primo commentario alla RB risulta quello di Smaragdo; segue a pochissimi anni quello di Ildemaro.

 

(b) Commentari recenti (di questo secolo, prima del 1980)

P.Delatte: abate di Solesmes, scrisse il "Commentario alla Regola di S.Benedetto" nel 1913 (tradotto in italiano nel 1951). La profonda dottrina teologica e l'amore delle tradizioni monastiche ne fanno un'opera eccellente per lo studio e la formazione dei monaci. Forse e' un po' troppo personale.

Butler: scrisse il "Benedictine Monachism". Espone i principi della Regola e il loro sviluppo nel corso della storia monastica.

Linderbauer: scrisse l'interessantissimo "Sancti Benedicti Regulae Commentarius", nel 1922. Lavoro ancora fondamentale per l'esegesi della Regola, per l'esatta comprensione del pensiero di S.Benedetto.

Card.Ildefonso Schuster: scrisse nel 1942 un commento, frutto della sua esperienza di governo (era abate di S.Paolo fuori le Mura a Roma) e dei suoi precedenti studi.

I.Herwegen: abate di Einsiedeln, scrisse nel 1944 un commento che da' rilievo alla natura carismatica della vita monastica: "Il senso e lo spirito della Regola benedettina". Ma non sempre le sue idee appaiono accettabili.

D.Anselmo Lentini: monaco cassinese, scrisse il commento nel 1947; e' stato il primo che ha diviso i capitoli della RB in versetti, secondo il ritmo della frase latina, divisione oggi accettata da tutti, anche dai piu' grandi studiosi, e usata oggi comunemente in tutte le nuove edizioni. Il commento del Lentini e' uscito in seconda edizione nel 1980.

B.Steidle: nel 1952, mette sopratutto in luce i rapporti della Regola col monachesimo antico.

A. de Vogue': ha scritto negli anni 1972-1977 La Regle de Saint Benoit (gia' citato sopra tra le edizioni critiche); per vastita', completezza, minuziosita' di ricerca e di esame, supera tutti i lavori moderni. L'insigne studioso esamina la Regola sotto tutti gli aspetti (ben 7 volumi); anche se in parecchi punti le sue opinioni possono essere discutibile, l'opera e' senza dubbio una miniera di osservazioni, di cui ormai nessuno studioso puo' fare a meno.

G.Colombas: spagnolo, monaco di Montserrat, ha scritto nel 1979 La Regla de San Benito, un commento sobrio, ma profondo.

(c) Commentari recentissimi (dal 1980 in poi)

Nel 1980, in occasione del XV Centenario della nascita di S.Benedetto, sono usciti numerosi commenti nuovi e studi sulla Regola o su aspetti di essa, e c'e' stato un nuovo fervore per l'approfondimento della vita e dello spirito di S.Benedetto. In genere, in quasi ogni nazione dove sono presenti i monaci, sono usciti nuovi commentari, alcuni molto interessanti. Ne segnaliamo i seguenti:

RB 1980 (Ed.T.Fry), Collegeville 1981. E' un importante lavoro fatto dai monaci degli Stati Uniti e vuole essere non un semplice commento, ma uno strumento di lavoro sulla Regola. Dopo una ricca bibliografia, la I.Parte comprende una lunga introduzione sulla storia del monachesimo; la II.Parte riporta il testo latino della Regola (dalla edizione di Neufville-DeVogue) con la traduzione inglese ben fatta e molto fedele; segue la III.Parte, la piu' lunga, con studi su tematiche particolari: la terminologia, l'abate, il codice liturgico, le misure disciplinari, la formazione, il ruolo della S.Scrittura nella RB, rapporti tra RB e RM. Sopratutto in questa terza parte si tiene molto conto degli studi del DeVogue. Una IV.Parte comprende una concordanza latina e gli indici: tematico, scritturistico, patristico e delle opere antiche; segue la lista dei monasteri benedettini in U.S.A.

Regle de Saint Benoit, testo e traduzione francese a cura di H.Rochais, introduzione e note di E.Manning, Edizioni Cistercensi, Rochefort 1980. E' interessante per l'introduzione di Manning, in particolare riguardo al problema della RM, e anche per le note che in alcuni casi sono degli "excursus" (sui capp.8-18, sul codice penitenziale, sul cap.65 che Manning pensa non appartenga alla redazione originale della RB, sul cap.72. Una curiosita': in questo libro manca l'indice! Si sono scordati?

S.Benedetto un maestro di tutti i tempi. Dialoghi e Regola, collana "scritti Monastici di Praglia, n.3, Padova 1981. Contiene la traduzione italiana del II.Libro dei Dialoghi e della Regola, traduzione fatta dalla benedettine dell'Isola di S.Giulio (Novara). La segnaliamo perche' sembra ben fatta (rispetto ad altre che spesso indeboliscono la forza delle espressioni di S.Benedetto), fedele al testo latino e che tiene conto degli studi e approfondimenti recenti sulla RB. All'inizio c'e' una buona introduzione di D.Pelagio Visentin.

A.M.Canopi: Mansuetudine: volto del monaco. Lettura spirituale e comunitaria della Regola di S.Benedetto in chiave di mansuetudine, edizioni "La Scala", Noci 1983. E' una interessante rilettura della RB alla luce della beatitudine del Vabgelo di Matteo sulla mansuetudine. Tutti i capitoli della RB sono confrontati con essa. Si tratta innanzitutto di una lettura spirituale della RB, frutto della lectio divina, e suppone come substrato la Lettura comunitaria, cioe' l'ambito vitale di una comunita' monastica che si confronta oggi con la RB, cercando di individuare i segni dei tempi e di essere attenta al soffio dello Spirito.




 

APPENDICE

Congregazioni Benedettine
(in ordine di fondazione)

1. Congregazione Camaldolese

Fondata da S.Romualdo (907-1027) con intento rigorista (eremo) verso il 980. L'eremo di Camaldoli (AR) e' del 1022. Monasteri principali: Camaldoli, Fonte Avellana, Monte Giove, S.Gregorio al Celio (Roma), Ss.Biagio e Romualdo (Fabriano). Nel corso dei secoli ci sono stati altri due rami:

- Camaldolesi di Montecorona: ebbe inizio nel 1520.

- Camaldolesi Cenobiti: nel 1616 ebbe luogo una scissione tra i Camaldolesi. I cenobiti si divisero dagli eremiti e si organizzarono in una vera Congregazione molto fiorente al principio (oggi estinta).

Oggi e' rimasta come Congregazione con il titolo di Monaci Eremiti Camaldolesi, che comprende eremi e cenobi.

2. Congregazione di Vallombrosa

Fondata da S.Giovanni Gualberto (985-1073) nell'anno 1039. Si distinse nella lotta contro la simonia. Monasteri principali: Vallombrosa, S.Maria di Montenero (LI), Ss.Trinita' di Firenze, S.Prassede in Roma. Fondazione in Brasile.

3. Congregazione Cistercense

Fondata da S.Roberto Abate nel 1098. E' divisa in tante altre congregazioni (21) secondo la nazionalita' (ricordiamo quella di Casamari, con la famosa abbazia presso Frosinone).

Da questa derivarono i: Trappisti (Cistercensi della stretta osservanza), fondati nel 1664 a Trappe (Francia) dal famoso Abbe' Rance'. Monasteri principali in Italia: Frattocchie (RM), Tre Fontane (RM).

4. Congregazione di Montevergine

Fondata da S.Guglielmo (1085-1142) nel 1124 con intento di austerita'. Abbazia-santuario a Montevergine (AV), Santuario S.Michele Arcangelo sul Monte Gargano. Oggi estinta come congregazione e associata alla Congregazione Sublacense.

5. Riforma di Pulsano (Monte Gargano)

Iniziata nel 1130 dal B.Giovanni da Matera (+1139). I monasteri pulsanesi abbracciarono la regola benedettina e si diffusero nell'Italia Meridionale e Centrale. Oggi estinta.

6. Congregazione Silvestrina

All'inizio detta: Ordine di S.Benedetto di Montefano. Fondata da S.Silvestro Guzzolini (1177-1267) a Fabriano nel 1231. Piu' larga trattazione sara' data nel corso dello studio sulla storia della Congregazione.

7. Congregazione Celestina

Fondata da Pietro Morrone (poi Papa Celestino V), eremita sui Monti della Maiella, nel 1240. Il Papa diede da osservare la Regola di S.Benedetto nel 1263. Dopo un periodo di grande floridezza, inizio' la decadenza che continuo' fino alla completa soppressione sotto Napoleone.

8. Congregazione di Monte Oliveto

Fondata dal B.Bernardo Tolomei nel 1319. Monasteri principali: Monte Oliveto Maggiore (SI), S.Miniato di Firenze, Settignano (FI), Seregno (MI), S.Anastasia in Roma, S.Maria Nova in Roma.

9. Congregazione Cassinese

Nel 1408 il monaco Ludovico Barbo inizio' un'azione che tendeva a unire varie abbazie per difenderle dalla peste della "commenda". Il movimento ebbe inizio a S.Giustina di Padova col nome "De unitate seu de Observantia Sanctae Justinae de Padua" (Unione o Osservanza di S.Giustina di Padova). Monasteri principali: Montecassino, S.Paolo fuori le Mura in Roma, Cesena, Cava dei Tirreni, Pontida, S.Martino delle Scale (PA), Farfa, S.Pietro di Perugia.

10. Congregazione Sublacense

Nel 1842 il monaco cassinese Pier Francesco Casaretto, dopo varie peripezie, vedendo la decadenza che regnava nelle abbazie della sua congregazione (fu colpito specialmente a Subiaco), ideo' una riforma nel senso di un ritorno integrale alla Regola. Di qui ebbe origine la Congregazione Sublacense nel 1851, chiamata prima Congregazione Cassinese della prima osservanza. Il suo tentativo si realizzo' in Liguria con l'appoggio di Carlo Alberto a Genova e a Finalpia. Poi questi monaci riformati furono chiamati dal Papa anche a Subiaco. Monasteri principali in Italia: Subiaco, Genova, Finalpia (SV), Parma, Praglia, Noci, S.Giustina di Padova, Montevergine, S.Giorgio Maggiore di Venezia, Novalesa (TO). La Congregazione e' divisa in provincie secondo le nazioni.

In altre nazioni i monasteri sono uniti in varie Federazioni o Congregazioni. Le trascriviamo in ordine di erezione come Congregazione: cio' non significa che i monasteri sono stati fondati dopo queste date; molti monasteri sono antichi e vivevano indipendenti; poi si sono uniti in Federazioni o Congregazioni:

1. Congregazione Inglese (1336)

2. Congregazione Ungherese (1514)

3. Congregazione Svizzera (1602)

4. Congregazione Bavarese (1684)

5. Congregazione Solesmense (1837) succede alla Congr.Cluniacense.

6. Federazione Americano-Cassinese (1855)

7. Congregazione Beuronese (1873)

8. Federazione Svizzero-Americana (1881)

9. Congregazione di S.Ottilia (1884)

10. Congregazione Austriaca (1889)

11. Congregazione dell'Annunciazione della B.V.M. (1920)

12. Congregazione Slava (1845)

13. Congregazione Olandese (1969): monasteri solesmensi in Olanda.

14. Congregazione del Cono-Sur (1973) in Argentina, Cile e Uruguay.

Ci sono poi dei monasteri singoli, non uniti in nessuna Congregazione. Tutte le Congregazioni sopra nominate (eccetto Cistercensi e Trappisti) sono unite nella CONFEDERAZIONE BENEDETTINA, eretta da Leone XIII nel 1893, che e' l'unione fraterna dei monaci che vivono sotto la stessa Regola, salva l'autonomia di ciascuna Congregazione o monastero. La Confederazione Benedettina e' presieduta dall'Abate Primate che risiede a Roma nel Collegio Internazionale di S.Anselmo sull'Aventino.

Anche le Monache benedettine sono unite in Congregazioni, Federazioni, Unioni.

Nel 1980 i monaci benedettini confederati erano 9.610 e le monache 11.925.

 




 

PROLOGO

Ascolta, o figlio.....

Obsculta, o fili.....

Alla Regola e' preposto un lungo Prologo di 50 vv. (quello della RM e' di 180 vv.), in cui S.B. prepara l'animo del monaco ad accogliere con cuore largo e docile gli insegnamenti in essa contenuti.

Il Prologo della RB - uno dei documenti piu' belli del monachesimo antico - e' una catechesi, una istruzione religiosa in cui si descrive la vocazione del monaco e le grandi prospettive del suo itinerario spirituale.

Ha una forma letteraria e un sapore marcatamente sapienziale, con i termini di padre e figlio, l'invito a seguire attentamente le esortazioni del maestro, l'uso dell'imperativo, il tema delle due strade, quello della morte e della vita.

L'uso dei verbi all'imperativo (ascolta, apri, accogli, chiedi al Signore.....) e' caratteristico del genere sapienziale; non e' un imperativo severo o proprio del giudice: S.B. appare un "ottimista" nei confronti di Dio, come i saggi dell'A.T., vede sopratutto la dolcezza della chiamata di Dio e la bellezza dell'ideale che mostra al discepolo (mentre nella RM prevale il "pessimismo" nei confronti di Dio, visto come giudice terrificante).

Tre persone compaiono nel Prologo: Cristo, l'autore, il candidato. Quest'ultimo ha solo il ruolo dell'ascolto; l'autore si eclissa presto per riapparire solo nel finale; e' CRISTO che appare come il vero protagonista, la sua persona domina tutto il discorso. Cristo e' l'autentico maestro che va scoprendo al discepolo il "cammino che conduce alla vita" in un dialogo bellissimo, del quale egli conserva l'iniziativa.

In tal modo la vocazione monastica appare come l'incontro con una persona, Gesu' Cristo, sempre vivo, sempre presente, e l'esistenza del monaco consiste in un dialogo con Lui: difatti Egli chiama il monaco, lo interroga personalmente, risponde alla sua preghiera.

 

Struttura

Il prologo ha una struttura abbastanza nitida: puo' essere diviso in una serie di pericopi o parti:

vv. 1-13: tema fondamentale: necessita' di ascoltare la parola di Dio e di obbedirgli:

1-3 enunciazione del tema

4-7 necessita' della preghiera e dell'obbedienza

8-13 invito a svegliarsi dal sonno e ad ascoltare;

vv. 14-34: che cosa ci dice il Signore, commento ai salmi 33 e 14:

14-21 Il Signore chiama il suo operaio;

salmo 33 ed esortazione a seguirlo

22-34 salmo 14: 22-27 il salmo

28-32 sviluppo scritturistico

33-34 ratifica mediante brano evangelico;

vv. 35-44: il Signore aspetta la nostra risposta:

Necessita' di rispondere con le buone opere.

vv. 44-50: la scuola del servizio divino. Risposta dei monaci all'invito

di Dio per partecipare alla passione e alla gloria di Cristo.

 


1. - I.PARTE: vv.1-13

1-3: Ascolta...

E' la prima parola della Regola ed e' uno dei temi principali della catechesi e della spiritualita' monastica: l'ascolto di Dio attraverso la sua Parola, mediata dal padre spirituale. L'affettuoso invito ne richiama di simili nella Scrittura, sopratutto nei Proverbi: "Ascolta, figlio mio, gli insegnamenti di tuo padre" (Prov.1-8); "Figlio mio, ascolta le mie parole e inclina l'orecchio a quel che dico" (Prov.4,20); "Ascolta, figlia, guarda, porgi l'orecchio" (Sal.44.11). I monaci antichi sentivano una certa predilezione per queste forme dirette che creano immediatamente un clima di intimita' tra maestro e discepolo, propizio al colloquio cuore a cuore.

Egli dice di essere maestro senza alcuna ostentazione: l'eta', l'esperienza, la dottrina, tanti insegnamenti per la via della vita, permettono a S.B. di presentarsi come maestro, ma non e' un maestro dispotico e severo, bensi' un padre affettuoso che sa comprendere le difficolta' e che ama; per cui c'e' l'invito "accogli volentieri" come il terreno buono della parabola evangelica, seguito da un ordine piu' preciso "e mettile efficacemente in pratica". Per quale scopo?

2: Per tornare a Dio.

Come per l'obbedienza di Cristo tutta l'umanita' ritorno' a Dio da cui l'aveva staccata la disobbedienza di Adamo (Rom.5,18-19), cosi' tutta la perfezione cristiana, e quindi anche quella monastica che e' un voler vivere piu' radicalmente il proprio battesimo, viene concepita come un ritorno a Dio, da cui ci aveva allontanato il peccato; vedi la parabola del "figliol prodigo" (lc 15,11-32).

Il tema del ritorno a Dio e' eminentemente biblico e comune nella tradizione monastica. La stessa frase di S.B, c'e', quasi uguale, in S.Cipriano e in S.Agostino.

3: Obbedienza - milizia.

Gia' e' apparsa la parola-chiave dell'ascetismo cenobitico: l'obbedienza. La Regola non nasconde la sua difficolta', ha parlato di fatica dell'obbedienza, ma ora lascia il termine "fatica" (che era molto caro ai monaci antichi per definire il loro genere di vita) e richiama ad uno dei temi spirituali piu' virili ed entusiasti che il monachesimo aveva ereditato dalla chiesa degli apostoli e dei martiri: la milizia cristiana.

Il monaco e' soldato di Cristo, allora la Regola gli offre le forti e gloriose armi dell'obbedienza: forti per l'efficacia che posseggono nel lavorio della perfezione; "lucide" o "gloriose" per la nobilta' che conferiscono all'anima davanti agli occhi di Dio: l'obbedienza assomma l'intera donazione di se' al Padre celeste in un perfetto atto di amore. S.B. ce la presenta fin dall'inizio con particolare accento di ammirazione e di gioia. Quindi, la vita monastica, vita di obbedienza, e' paragonata ad una nobile e volontaria milizia (cf.2Tim. 2,3-4: "lavora come un buon soldato di Cristo Gesu'. Nessuno che militi per Dio..."), milizia che ha nel cenobio non una caserma, ma una nobile palestra spirituale.

Chiunque tu sia.

Nel monastero c'e' posto per tutti, chiunque e' ammesso senza distinzione, purche' sia disposto a questa totale obbedienza e alla rinuncia alle proprie volonta'. Il termine al plurale e' molto significativo: non si tratta della volonta' in senso moderno, nel senso di energia, ne' nel senso di facolta' spirituale (dell'amore, della liberta' o del dono della propria persona). La Regola non vuole trasformare il monaco in un essere abulico, senza volonta' e senza personalita'. Si tratta qui delle volonta' nel senso di velleita', di impulsi peccaminosi, diremmo meglio in italiano "voglie" che impediscono di ricevere la grazia battesimale. Difatti l'espressione "rinunciare alle proprie volonta'" e' propria del linguaggio ecclesiastico e della liturgia del battesimo.

Cristo Signore, vero Re

Cosi' rinunciando e lottando, si milita nell'esercito di Cristo Signore, vero Re. Notiamo subito che S.B. non usa mai il nome umano "GESU'", ma sempre "CRISTO", contro l'eresia di Ario che negava la divinota' di Gesu' Cristo. Per S.B. Cristo e' "il Signore, il vero Re".

 

4-7: Innanzitutto...

Iniziando la sua opera di maestro e di legislatore, S.B. sente il dovere di ammonire il discepolo che nulla di buono si puo' cominciare ne' portare a termine nell'ordine soprannaturale senza l'aiuto della grazia, grazia che bisogna quindi chiedere al Signore con preghiera fervorosa ed insistente (questo e' il senso del superlativo latino "instantissima").

5: "divina filiazione" o "tristezza di Dio"

Senza la grazia divina e la nostra preghiera per procurarcela, l'opera della nostra santificazione iniziata in noi da Dio col battesimo quando ci ha resi suoi figli adottivi, rimarrebbe frustrata e affliggerebbe il cuore del Signore.

(Da questo versetto comincia la concordanza quasi letterale con RM).

6-7: Dobbiamo mettere a frutto i suoi doni

Allusione alla parabola dei talenti (Mt.25,14-30); nota il contrasto tra "padre corrucciato" e "padrone terribile".

8-13: Il resto della I.Parte del prologo contiene sviluppi delle idee precedenti con cinque citazioni esplicite della S.Scrittura, alcune di grande delicatezza, altre risuonanti di vigore e di energia. Cosi' l'invito a svegliarci dal sonno, uno dei moniti paolini che possiedono l'efficacia di un perenne sprone alle anime; la Chiesa ce lo fa leggere all'inizio della liturgia dell'Avvento, inizio dell'anno liturgico.

8: la Scrittura ci sveglia

E' la voce del Signore che ci chiama, e' la luce divina a cui dobbiamo aprire gli occhi dell'anima e ascoltare con orecchie attentissime. Nota il parallelo tra occhi e orecchi: qui S.B. ha in mente la scena degli apostoli che contemplano la gloria di Cristo trasfigurato e odono, come portati fuor di se', la voce del Padre.

9-11: adtonitis auribus - lumen vitae - currite

La parola latina adtonitis tradotta con "attente" dice di piu'; si puo' tradurre anche "stupefatto": vuole esprimere, oltre all'attenzione, anche la gioiosa trepidazione di chi attende la rivelazione del pensiero di Dio. La voce divina si individualizza: Cristo, la Parola di Dio incarnata che invita gli uomini ad aprire il cuore, ascoltare lo Spirito e correre mentre splende "la luce della vita".

La citazione di Giov.12,35 stimola alla corsa in considerazione della brevita' della vita. Il concetto della corsa e' caro a S.B. che vi insiste nel prologo; pur tenendo conto dei vari carismi e diversita' delle anime, egli desidera da tutti l'alacrita' nel fervore e nell'amore in chi si mette al servizio di Cristo.


2. - II.PARTE: vv.14-34

14-21: Quaerens Dominus operarium...

"Cercando il Signore il suo operaio tra la folla...". S.B. ha qui presente la parabola del padrone che va a chiamare gli operai per la sua vigna (Mt.20,1). Cercando: la vocazione alla vita monastica e' una ricerca che Dio fa dell'anima, cosi' come tutta l'ascesi monastica e' una ricerca che l'anima fa di Dio ("se veramente cerca Dio" di RB 58,7), e', cioe', la risposta affermativa data alla grazia; ma in tanto il monaco puo' cercare Dio, in quanto Dio prima ha cercato lui.

S.B. dice "operaio" perche' ama concepire il monastero come un'"officina" e il monaco come un "artigiano" intento all'esercizio dell'arte spirituale, e nel cap.4 gli presenta una lunga lista di "strumenti per le buone opere". Si noti la dolcezza di quel "suo operaio" e di quel "tra la folla": il monaco e' eletto tra molti, e' un privilegiato e ha la certezza e la gioia di appartenere pienamente a Dio, di essere particolare oggetto dell'amore di Lui.

15ss.: Salmo 33. Dialogo personale

"Se tu rispondi: 'io', il Signore ti dice...". Di nuovo appare la dottrina delle due vie e l'assioma fondamentale della conversione: "Sta lontano dal male e fa il bene". Tutto il passo e' un commento al salmo 33, citato letteralmente prima (v.17) e poi parafrasato (v.18) per mettere le parole sulla bocca stessa di Dio e rendere il tono piu' caldo e amorevole. Quindi abbiamo la citazione di Isaia: Eccomi. Tutto il brano della ricerca dell'operaio da parte di Dio e' un richiamo evidente al commento di S.Agostino allo stesso salmo 33.

Composta da testi biblici sapientemente legati, questa scena della chiamata divina pone in rilievo la gratuita' della vocazione: l'iniziativa appartiene interamente a Dio, a Cristo. La Scrittura ci esorta a svegliarci dal sonno, la luce splende, la voce chiama, il Signore cerca il suo operaio; all'uomo che apre gli occhi per vedere e gli orecchi del cuore per ascoltare e compie la volonta' di Dio e risponde generosamente, il Signore da la ricompensa avendo i suoi occhi sempre su di lui, ascoltando le sue preghiere, anzi prevenendo le sue invocazioni con una sollecitudine meravigliosa.

19: Che cosa c'e' di piu' dolce...

Emozionato da quanto ha scritto e contemplato, S.B. non e' capace di contenersi ed esclama: "C'e' forse per noi, fratelli carissimi, qualcosa di piu' soave di questa voce del Signore che ci invita?" (v.19).

21: Per ducatum evangelii - sotto la guida del Vangelo

Pero' torna subito ad essere l'uomo pratico che va alla conclusione: se il Signore stesso nella sua bonta' ci indica il cammino della vita, cingiamoci i fianchi con la fede e le buone opere e camminiamo sotto la guida del Vangelo. Questa espressione e' diventata proverbiale: la perfezione a cui tende la vita monastica non e', nella sua essenza, diversa da quella proposta al semplice cristiano in forza del battesimo, ma ne costituisce il primo sviluppo e coronamento.

prospettiva escatologica

"... per meritare di vedere colui che ci ha chiamati nel suo regno" (1Tess 2,12): la prospettiva escatologica domina la finale di questo brano sulla vocazione personale: siamo chiamati al regno definitivo, situato oltre i confini di questo mondo visibile.

22-34: Salmo 14

L'ultimo concetto del regno a cui Dio ci ha chiamati da lo spunto per il nuovo brano sulla tenda del regno di Dio. Nomade tra nomadi, Jahwe' aveva abitato in una tenda come i figli di Israele; cosi' si parla della tenda di Jahwe' come dimora del regno. "Abitare nella tenda del Signore" equivale a penetrare definitivamente nel regno escatologico. S.B. cita allora il salmo 14, considerato dalla tradizione patristica come espressione della vocazione monastica che contiene i concetti di: ricerca di Dio, cammino che conduce alla sua dimora, qualita' richieste a chi vuole abitare nella sua tenda, ecc...

22-27: Condizioni per abitare nel regno

Davide chiede al Signore chi sia degno di abitare nel santuario del monte Sion, dove abita lo stesso Dio; e nei versetti seguenti S.B. immagina che Dio stesso risponda, enumerando le doti dell'anima giusta.

28-32: sviluppo scritturistico del samo 14

S.B. continua l'elenco delle qualita' del giusto parlando della lotta contro il maligno (v.29) e contro le tentazioni di superbia, qualora si veda il bene nella propria vita, perche' si riconosce che tutto e' opera della grazia (nuova insistenza sulla necessita' della grazia, vv.30-32). L'idea del giusto che spezza le azioni del tentatore porta S.B. ad introdurre l'altra idea del giusto che stronca contro la pietra che e' Cristo (1Cor 10.4) i cattivi pensieri appena nati. E` l'interpretazione simbolica del salmo 136,9: "beato chi afferrera` i tuoi piccoli e li sbattera` contro la pietra" che troviamo in S.Agostino, S.Girolamo, S.Ambrogio ecc.

33-34: ratifica con brano evangelico

Le citazioni del salterio e dell'apostolo vengono concluse con quella del Vangelo: la parola di Cristo mette il suggello a quanto detto prima. E' la conclusione del discorso della montagna (Mt 7,24-25) che viene applicata alla vita monastica: il monaco, ascoltando la parola di Cristo e mettendola in pratica, si va costruendo giorno per giorno l'edificio della santita'; le pioggie, i fiumi, i venti sono tentazioni, ostacoli, dubbi, avvilimenti che sopravvengono a minacciare l'opera della santificazione monastica, ma non le nuoceranno perche' e` fondata sulla roccia, che e` in definitiva lo stesso Cristo Gesu` (1Cor 10,4).

 

3. - III.PARTE: vv.35-44

35: Il Signore aspetta la nostra risposta

Al termine delle sue parole, il Signore aspetta che rispondiamo alle sue esortazioni. La tregua di questa vita ci vien data per correggerci dalle nostre infedelta' (v.36); la pazienza di Dio ci chiama a conversione (vv.37-38); la vocazione a dimorare nella tenda di Dio richiede che pratichiamo le condizioni di chi voglia abitarvi (v.39); percio` dobbiamo disporre corpo e anima a militare sotto i precetti della santa obbedienza (v.40). Si ritorna al concetto iniziale del prologo: il monaco e` colui che dedica spirito e corpo totalmente al servizio di Dio, militando con le armi dell'obbedienza.

41: necessita' della grazia

S.B. ricorda la necessita' della grazia - si noti l'insistenza con cui insiste su questa idea, contro l'eresia dei pelagiani - e ricorda le due vie (inferno - vita eterna, v.42) a cui dobbiamo pensare mentre siamo in questo corpo, mediante questa vita nella luce (v.43). C'e' l'allusione al testo gia' citato di Gv. 12,35: "questa vita di luce", che e' dire lo stesso che "questa vita in cui abbiamo ancora la luce", prima cioe` che "ci colgano le tenebre della morte". Ma si pensi come, in senso piu` profondo e spirituale, la vita del monastero e` una vita di luce.

44: correre e operare

S.B. termina col vigoroso incitamento del currendum et agendum, che ci sprona all'alacrita` dell'azione. L'abbattimento, la sfiducia e l'inerzia che possono sorprendere la nostra debolezza svaniscono quando si ricordano queste parole, energiche e insieme paterne, del santo Patriarca.

 

4. - IV.PARTE: vv.45-50

45: schola dominici servitii

"Dobbiamo dunque istituire una "scuola del servizio del Signore". Abbiamo qui in concetto di monastero come scuola. La frase, identica nella RM, richiama la parola di Gesu` in Mt 11,29: "Imparate da me...", che la RM riporta e commenta in antecedenza. Nel monastero si e' discepoli dell'unico e vero Maestro che e` Cristo, come nella grande scuola che e` la Chiesa (parallelo tra monastero e Chiesa).

Ma il termine scuola ha un significato piu` ampio. La parola nel senso originario designava un luogo o una condizione di nobile agio e riposo, dove si praticava l'otium dei romani. Poi e' passata a significare una sala di riunione per diversi gruppi: soldati, studenti, operai, ecc., o ancora l'associazione stessa e le sue attivita`. Piu' in particolare, il termine stesso designa un corpo di militari o di funzionari al servizio dello stato o del re. Questo significato e` compreso nella frase "una scuola per il servizio del Signore"; in quanto alla milizia, abbiamo gia' visto la frase all'inizio del prologo (v.3). Quindi il termine "schola" comprende tutti e tre i significati delle tre cose, e cioe`: luogo

- dove si apprende e si imita;

- dove si serve il padrone;

- dove si milita sotto il sovrano

e qui si tratta di obbedire e di agire, quindi luogo di metodica e disciplinata esercitazione con incluso il concetto di liberta' da altre occupazioni.

Inoltre, il servizio del funzionario e soprattutto del soldato non avviene senza lotta, senza fatica, senza pericoli; militare implica non solamente l'azione ma anche la pena e la sofferenza, concetti che saranno espressi poco piu' avanti (v.50) come partecipazione alle sofferenze di Cristo per mezzo della pazienza. Questo tema della pazienza avra' poi uno sviluppo meraviglioso nei capitoli sull'obbedienza (RB 5) e sull'umilta` (RB 7).

Ricchezza del termine "schola"

Ci appare cosi` tutta la ricchezza del termine schola, che e` anche palestra e corpo militare e officina (RB 4) e ci richiama volta per volta:

- o la docilita` dell'allievo,

- o l'obbedienza del soldato,

- o l'attivita` e l'impegno dell'operario e del funzionario;

cosi` ci permette di avere sempre presente la persona di Cristo sotto tre aspetti complementari: il Maestro che insegna, il Sovrano che comanda, il Redentore sulla croce.

46-49: Incoraggiamento prima della conclusione

Questi versetti sono propri di S.B. e indicano la delicatezza e il tono paterno nel disporre l'animo all'accettazione del sacrificio e nel prevenirlo contro ogni tentazione di scoraggiamento. L'ordinamento del monastero - milizia, officina, scuola - comporta necessariamente prescrizioni e divieti; egli si affretta ad avvertire che spera di non dover fissare nulla di pesante o di aspro: e` il suo proverbiale senso umano e cristiano di comprensione e di condiscendenza verso le debolezze che troveremo sempre in tutta la Regola.

Ma e` chiaro che la vita di perfezione monastica richiede il lavorio interiore e quindi, "per correggere i vizi o per conservare la carita`", si potra` richiedere qualche prescrizione meno piacevole per la natura umana. Ma si veda con quanta cautela e delicatezza S.B. cerca di attenuare la durezza: "se per caso", ipotetico, "un pochino", diminutivo, "piu` duro", limitativo; tu - prosegue S.B. passando dal plurale al singolare, modo piu` diretto, cuore a cuore come all'inizio del prologo - tu non ti devi spaventare, non devi abbandonare "subito", al primo affacciarsi della sofferenza, la via della salvezza che all'inizio e` dura (v.48).

Abbiamo un nuovo motivo di confronto: le difficolta' si provano e si soffrono al principio; la rottura col mondo e con l'"uomo vecchio" e` necessariamente dolorosa. Ma coraggio, non sara` sempre cosi`. "Si puo` entrare solo per una porta stretta": e` chiara l'allusione al testo evangelico di Mt 7,14 ("com'e` angusta la porta e stretta la via"). S.B. insiste solo sulla strettezza della porta, eppure Gesu` non dice che, dopo, la strada si allarga! Ma non importa: cio` che si allarga, man mano che si va avanti, e' il cuore, come dice subito dopo nel bellissimo v.49, che richiama un'idea molto comune presso gli scrittori spirituali: l'amore, man mano che cresce, facilita il cammino verso Dio, e allora non solo si cammina, ma si corre per la via dei divini comandamenti, perche' il cuore si dilata. S.B. si richiama al salmo 118,32: "Corro per la via dei tuoi comandamenti perche' hai dilatato il mio cuore'. Quanta larghezza di respiro in questa breve espressione!

Tuttavia nel salmo il cuore allargato indica aumento di forza e di coraggio; nella nostra Regola invece e` attribuito all'amore; S.B. aggiunge: in una ineffabile dolcezza di amore, ponendo nella frase un accento mistico e soave di chi ha fatto esperienza personale di Dio e ne ha gustato la dolcezza. Quindi S.B. attribuisce la dilatazione del cuore all'intensita` dell'amore, quell'amore che secondo S.Paolo "e` stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci e` stato dato" (Rom 5,5). Il testo della Regola piu` simile a questo e` la bella finale del capitolo sull'umilta` (RB 7,67-70), in cui si attribuisce allo Spirito Santo la radicale trasformazione che esperimenta il monaco giunto alla sommita` della scala di Giacobbe, cioe` alla carita` perfetta.

49: Progredendo poi nella vita monastica... [conversatio]

Nel testo c'e` il termine conversatio che puo` derivare o dal verbo intransitivo "conversari" e significa "modo, tenore di vita, condotta"; oppure dal verbo transitivo "conversare" (da "convertire") nel senso di "rivoltare, rigirare", e allora equivale a "conversio". Come termine specifico monastico puo` quindi significare, oltre il semplice "modo di vivere", anche l'entrata o la dimora in monastero, l'appartenenza allo stato monastico, oppure, in senso piu` limitato, la "vita ascetica nello stato monastico"; infine, come equivalente a "conversio", significa la conversione, il mutamento di vita. Nella Regola incontriamo ora l'uno ora l'altro di questi significati. Qui S.B., come appare dal contesto, intende parlare dell'esercizio delle virtu` nello stato monastico.

... e nella fede

Si viene al monastero per un atto di fede e piu` si va avanti nella via di Dio, piu` la fede si radica nell'anima.

 

50: conclusione

La conclusione del prologo ha la forma di una doppia orazione finale con vari incisi. Appare per la prima volta la parola "monastero" non nel significato primitivo di "dimora di un solitario", ma nel senso che ha assunto abitualmente nel mondo latino di "dimora di una comunita' di monaci cenobiti"; e nel monastero - ci si dice - dobbiamo perseverare fino alla morte. La stabilita' e` considerata dal santo Patriarca come elemento essenziale della vita monastica che egli imposta; difatti la Regola e` scritta solo per i cenobiti, come dira` espressamente alla fine del capitolo primo. Quale debba essere la vita dei monaci nel monastero sara` il tema dei vari capitoli; qui solamente ci ricorda di non allontanarci mai dagli insegnamenti del Signore e di mantenerci saldi nella sua dottrina; e conclude affermando lo scopo della vita monastica, che e` poi lo stesso di tutta la vita cristiana: partecipare alle sofferenze di Cristo per partecipare anche al suo regno glorioso.

Mistero centrale: Cristo crocifisso e risorto

La perfezione monastica come ce la presenta il prologo, e' centrata sulla regalita` di Cristo: il monaco e` l'uomo che entra in monastero per militare nell'esercito di Cristo Signore, vero Re, impugnando le armi dell'obbedienza (v.3); prende questa decisione perche' Cristo stesso lo ha chiamato al suo servizio (v.21), e quindi egli desidera abitare nella sua tenda (v.22); se persevera nel servizio di Cristo partecipando alla sua passione per mezzo della pazienza (il tema della pazienza e' prettamente sapienziale e ritorna spesso nella RB), sara` ammesso nel suo regno glorioso (v.50).

 

5. - IL PROLOGO: sguardo d'insieme

L'esposizione appena terminata ha potuto mettere in luce il filo conduttore del discorso di Benedetto. Risaltano fortemente alcuni temi che evidenziamo brevemente:

a) Ascolto. E` presente ai vv.1 e 9-12; attraverso i termini "ascoltare", "udire", "orecchi" come atteggiamento del monaco nei confronti dell'appello di Dio che risuona nelle parole del maestro e della Scrittura. E' l'atteggiamento primo e fondante, ma anche richiesto in continuazione (cf.RB 4,55; 4,77; 5,6;.15; 6,6).

b) Obbedienza. L'ascolto pero`, in S.B., si traduce immediatamente in "obbedienza" (latino 'ob-audire'): Prol 2-3.6-7.40. E` richiesta la "fatica" dell'obbedienza (v.2); la vita monastica stessa e` un "servizio militare" che si attua con le armi dell'obbedienza (v.3) ed anzi al comando, per cosi` dire, dell'obbedienza stessa "ai precetti della santa obbedienza" (v,40). L'insistenza continua sull'obbedienza e` tipica di S.Benedetto.

c) Emendazione dei vizi. L'obbedienza, a sua volta, e` in vista dell'emendazione dei vizi (vv.33-47), per attuare le buone opere (vv.17. 21-22. 29. 35) prescritte dalla legge di Dio (vv.1. 39-40. 49). Questo e` un tema che verra` poi sviluppato nella sezione spirituale.

d) Dinamica di vita - necessita` della grazia. Queste linee principali dell'esistenza del monaco sono attuate in una continua dinamica di vita tipicamente biblica: scosso dalla voce di Dio, spinto dall'urgenza dell'ora (vv.8-10, con la citazione di Rom 13,11), il monaco corre (v.13, cf.vv.2.4.49) sulla via dei comandamenti (vv.1.49), desideroso di giungere ("pervenire", vv.22.4) al fine propostogli, che e` la vita eterna e l'eredita` del regno (vv.2. 7. 13. 21. 42. 50) e conosce gia` oggi la presenza e la vicinanza di Dio (la grazia). Sopratutto nella pericope finale, il motivo del progresso e del cammino e` molto sottolineato.

e) Carita`, 'dilectio' di e per Cristo. Notiamo ancora la caratteristica di SB nel porre l'accento sulla caritas o "dilectio", l'amore di Cristo, come termine dell'itinerario proposto. La nota di dolcezza e di indulgenza introdotta nei vv.46-49 alleggerisce e cambia notevolmente il senso dell'austero finale della RM, in cui l'accento e` posto sulla necessita` di soffrire e sopportare fino alla morte: questa esperienza e` resa possibile e alleggerita dall'ineffabile "dolcezza dell'amore".

 


 

STABILITA` e CORSA

(pensiero di S.Gregorio Nisseno)

Non si tratta soltanto di camminare faticosamente, ma e` possibile correre sulla via dei precetti divini. Come sottolinea Gregorio Nisseno, la stabilita' ("perseverando nel monastero fino alla morte"), e` strettamente connessa, per il crstiano, alla dinamicita` di vita:

""Il salire si attua restando fermi e c'e` una ragione: piu` uno rimane fermo e immobile nel bene, piu` corre verso la virtu`. Quando uno, come dice il salmo (39,3) ritrae i piedi dalla profondita` dell'abisso e li pone sulla roccia che e` Cristo (cf.1Cor 10,5), allora quanto piu` e` stabile nel bene, tanto piu` accelera la sua corsa. Come se, nella stabilita`, egli sia fornito di ali che sollevano al volo il suo cuore verso gli spazi celesti"".

(GREGORIO DI NISSA, Vita di Mose`, II,243-244. Nell'edizione francese di SC 1 (Parigi 1968), pp.273-275; nell'edizione italiana delle E.Paoline (Ancora 1966), pp.185-186).

Come commento spirituale al prologo, si puo` consultare:

D.BARSOTTI, Ascolta, o figlio... Commento spirituale al Prologo della Regola di S.Benedetto, Libreria Ed.Fiorentina, Einaudi 1965.

 

CAPITOLO 73

Che non tutte le norme per la perfezione sono contenute in questa Regola.

De hoc quod non omnis justitiae observatio in hac sit Regula constituta.

 

Premessa e contenuto

Trattiamo questo capitolo subito dopo il prologo, perche' esso costituisce l'epilogo della RB e corrisponde percio' al prologo, col quale presenta molte analogie.

Giunto alla fine della Regola, SB afferma che quanto ha stabilito costituisce soltanto un modesto inizio di vita monastica per principianti (v,1); che chi vorra' compiere ulteriori e piu` sicuri progressi nell'ascesi monastica non avra` che da rivolgersi agli insegnamenti spirituali contenuti nella S.Scrittura e nei Padri (vv.2-7); e termina con una esortazione ad osservare la Regola come base necessaria per arrivare, attraverso le opere indicate, alla conquista di mete spirituali piu` alte (vv.8-9).

Secondo l'opinione piu` comune, il c.73 seguiva immediatamente il c.66, ed era la conclusione della RB (difatti c'e` anche il richiamo nel testo, RB.66.8: "hanc autem Regulam..." e RB.73,1: "Ragulam autem hanc..."); in seguito, aggiunti i cc.67-72, esso sara' stato riportato di nuovo alla fine, nell'attuale collocazione come epilogo; perche' come conclusione perfetta e compendio di tutta la Regola, abbiamo gia` il c.72 che si conclude con una finale solenne molto comune nelle orazioni liturgiche: "ad vitam aeternam perducat - ci conduca tutti insieme alla vita eterna". Viene spontaneo aggiungere "Amen", come si trova, difatti, in alcuni manoscritti.

1: Abbiamo abbozzato...: natura e scopo della Regola

SB, completata la Regola, la presenta umilmente ai discepoli. Il tono di tutto il capitolo e` interpretato come espressione dell'umilta` e modestia di SB. La RM si presenta come ispirata da Dio e afferma "che fu dettata da Dio", e in genere l'autore si esprime con autosufficienza. In SB notiamo, al contrario, un eccesso di modestia, vedi sopratutto il v.8: "hanc minimam inchoationis Regulam - questa minima Regola per principianti". E` vero che tale modo di esprimersi e` un espediente retorico abbastanza comune nei secoli VI-VII, sia dal punto di vista letterario che pedagogico, ma cio` non toglie che SB sia sincero nell'esprimersi cosi`; d'altronde nessuno dei Padri che usano lo stesso modo di dire (Cassiano, Vitae Patrum, S.Agostino...) appare cosi` severo con se stesso.

Accenno alla vita eremitica (?)

In particolare e` stato osservato che il capitolo va inteso come un accenno alla vita eremitica a cui SB, se pur ha rinunciato nella sua vita e nella sua Regola (che e` fatta per i cenobiti), guarda sempre come all'ideale piu` elevato in fatto di vita monastica; o ancora va interpretato nel suo senso letterale e piu` ovvio come una esortazione ad una vita sempre piu` perfetta: "Diamo una qualche prova di buoni costumi e un inizio di vita monastica". Questi sono i modesti risultati dell'osservanza della sua Regola, secondo SB.

Honestas morum - onesta` di costumi

Secondo gli antichi romani, honestas morum - onesta` di costumi conteneva il concetto di bonmta`, di giustizia; qui, nel contesto monastico, come per Cassiano e gli altri Padri del monachesimo, il temine comprende quanto contenuto nella Regola: la vita religiosa, la preghiera continua, l'umilta`, l'obbedienza, ecc. Ma nonostante questa ricchezza di contenuto, rappresenta sempre "un inizio di vita monastica - initium conversationis" per coloro che vogliono arrivare alla cima della vita spirituale. (Del resto, la perfezione e' un dono che Dio concede e opera in ciascuno in modo personale e irripetibile).

2-7: perfectio conversationis, celsitudo perfectionis

Nel v.2 SB, come nel prologo, sprona anche qui all'alacrita` della corsa; nella vita dello Spirito egli non vuole solo il progresso, ma anche la lena generosa. La sua Regola vuole adattarsi alle debolezze e rendersi accessibile anche ai meno forti; ma insieme apre la via alle piu` eccelse vette della santita`. Nel v.1 ha detto: "initium conversationis - inizio di vita monastica"; qui dice: "ad perfectionem conversationis - la perfezione della vita monastica" e, per salire alla perfezione della vita religiosa, altre guide - egli dice - sono necessarie.

Altre fonti: i santi Padri....

Le altre guide sono: "gli insegnamenti dei santi Padri". SB si riferisce ai Padri della Chioesa che si sono distinti per solidita` di dottrina e santita` di vita.

3: ...la S.Scrittura...

Pero`, dopo questo primo accenno ai Padri, SB sente la necessita` di dire una nuova parola sulla S.Scrittura. Appare qui la sua venerazione e il suo amore per i libri sacri: sono la parola di Dio e il monaco, come ogni cristiano, non puo` certo trovare nutrimento piu` sano e piu` solido per la sua anima. SB rivela in tutto il corso della Regola come la Scrittura gli sia familiare, e i suoi figli lungo i secoli hanno fatto sempre di essa il pascolo preferito. E dobbiamo dire che tante deviazioni "nella devozione si sarebbero potute evitare se la parola della S.Scrittura fosse stata il continuo nutrimento dell'anima dei fedeli!" (A.Stolz). E ci sarebbe molto piu` di santita` e anche di pace e di giustizia sociale, se ci fosse nel mondo un po' piu` di Vangelo!

4-6: ...la Tradizione

Accanto alla Scrittura, ecco l'altra fonte: la Tradizione, di cui sono interpreti gli scritti dei Padri Cattolici ("cattolici": SB ha cura di sottolineare la santita` e la retta dottrina dei Padri che si meditano, in polemica contro gli ariani) e quelli specifici di dottrina monastica, di cui cita alcuni nomi. SB chiama S.Basilio "nostro santo padre" per la speciale dimostrazione di stima verso la Regola di lui, in quanto S.Basilio era giustamente considerato il piu` grande legislatore di monaci.

Quindi, tre categorie di fonti

Appare cosi` che le opere raccomandate appartengono a tre categorie: a) la S.Scrittura, b) gli scritti dei Padri, c) gli scritti di spiritualita` monastica. Le tre categorie sono state menzionate nel corso della Regola: nell'ufficio notturno debbono leggersi i libri dell'AT e del NT, cosi` come i commenti dei Padri cattolici ortodossi e di sicura fama (RB 9,8); prima di compieta, le Collationes di Cassiano, le Viate Patrum o qualche altra opera simile (RB 42,3). Nel monastero dunque, le tre serie di opere erano oggetto della lettura comune o in coro o in refettorio.

Si noti come in questo capitolo SB assegni a ciascuna categoria uno scopo determinato: la S.Scrittura e` "norma sicura di condotta per la nostra vita" (v.3); le opere dei Padri in generale conducono "al culmine della santita`" (v.2); quelle dei Padri della Chiesa ci insegnano "la via diritta per giungere al nostro Creatore" (v.4); gli autori monastici servono per formare "monaci fervorosi e obbedienti" (vv.5-6). Non e` superfluo quindi sottolineare l'eccezionale importanza che SB da alla lettura, tanto da unirla cosi` intimamente al progresso morale e spirituale del monaco; la lectio divina - Bibbia e Padri - offre al monaco le norme superiori e l'impulso per scalare la cima della perfezione.

7: Per noi invece...

Abbiamo il contrasto tra i precedenti monaci buoni e obbedienti, che ardono dalla brama di avanzare e attingono percio` a tutte le fonti indicate, e noi che ci trasciniamo nella pigrizia. E' un tema caro a S.Benedetto (cf.Rb 18,24;40,6;49,1) che ammira l'esempio dello straordinario fervore di preghiera e di mortificazione degli antichi monaci e, mentre con realismo ammette che non tutti di fatto sono imitabili al suo tempo e nel suo ambiente, calca la mano, qui specialmente, sulla distanza spirituale che separa lui e i suoi da quelli, per spronare all'alacrita' e all'ardore della virtu`.

8-9: esortazione finale

SB, lo sappiamo bene, non e` un idealista, ma un uomo pratico secondo Gesu` Cristo: indica le vette e mostra i mezzi per arrivarci. Pero` insiste che la cosa immediata da fare ora e` mettere in pratica "questa Regola cosi` modesta per principianti, appena delineata" (v.8). Anzitutto, cioe`, e` necessario "almeno dar prova di buoni costumi e di un inizio di vita monastica" (v.1); poi si potra` e si dovra` correre, senza fermarsi mai, con l'aiuto delle dottrine menzionate sopra. Tra il principio della vita monastica e la sua perfezione si estende uno spazione senza limite.

Prospettiva escatologica

L'epilogo termina presentando al monaco una prospettiva escatologica. In quest’ultima scena SB riappare come il maestro di sapienza, il "padre affettuoso" dell'inizio del prologo, che si rivolge personalmente a ciascuno dei suoi discepoli con il "tu" familiare e intimo. Nota il parallelo tra il "chiunque tu sia che ringraziando..." del v.3 del prologo e il "chiunque tu sia che ti affretti..." di questo v.8 del cap.73 (si noti anche il richiamo di parole nel testo latino tra prol4 e 73,8). SB ignora l'identita` del lettore: e` sempre qualcuno, qualunque persona che si affretta verso la patria celeste. Il monaco o l'aspirante alla vita monastica e` un pellegrino che ritorna anelante alla sua vera patria situata al di la` di questo mondo visibile.

Ritorno a Dio

Questa immagine del ritorno anelante che caratterizza il dinamismo della RB richiama spontaneamente il concetto del ritorno a Dio che spicca con tanto rilievo nella prima frase del prologo (v.2). Tuttavia le ultime parole si riferiscono con precisione non "alla patria celeste" ma alla anticipazione delle realta` escatologiche che si realizza, o almeno che si cerca di realizzare, nei monasteri. Le "eccelse vette di dottrine e di virtu` (v.9) in effetti si raggiungono in questo mondo presente. Per queste sante cime passa il cammino che conduce il monaco alla sua dimora eterna: la patria celeste. Fino a queste cime intanto si dirige come obiettivo immediato colui che si mette al servizio di Cristo Re sotto la Regola di S.Benedetto.

Adiuvante Christo - Deo protegente

Allora, metti in pratica "con l'aiuto di Cristo questa piccola Regola fatta per principianti - dice il santo Patriarca - e arriverai "con la protezione di Dio", alla perfezione della vita monastica. In questa ultima apparizione cosi` emozionata ed emozionante, l'affermazione di SB risulta singolarmente ferma e solenne. Due verbi risaltano nel testo: uno all'imperativo perfice (metti in pratica), alla fine del v.8, e un altro al futuro pervenies (giungerai), alla fine del v.9; metti in pratica la Regola e giungerai alle vette. "Pervenies - giungerai" e` alla fine del capitolo, quasi come un traguardo e aggiunge, a ratificare e a dare la certezza: Amen. Cosi` finisce la Regola di S.Benedetto.




CAPITOLO 1

Delle varie specie di monaci

De generibus monachorum

 

Preliminare: il fenomeno monastico

La vita monastica non e` un fatto particolare del cristianesimo, ma e` un fenomeno universale con caratteristiche simili in tutte le religioni e in tutti i tempi e luoghi. Nasce da alcune aspirazioni religiose e morali profondamente radicate nell'animo umano, aspirazioni a volte vaghe e deboli, ma che in alcuni individui riescono a superare gli istinti piu` forti della natura e a riempire tutta l'esistenza. Queste aspirazioni si possono ridurre a due:

a) ascetismo, che e` la tendenza dell'uomo alla purificazione continua dei suoi peccati e al dominio delle passioni;

b) misticismo, che e` il desiderio di realizzare in qualche maniera, gia` da questo mondo, l’unione con la divinati`.

1. Fuori del cristianesimo

Il monachesimo, in definitiva, non e` che la realizzazione pratica di queste aspirazioni o aneliti in uno stile di vita che permette di raggiungerli. In questo senso l'origine del fenomeno monastico si perde nella notte dei tempi. Le manifestazioni conosciute presentano una grande varieta`. L'India, paese profondamente sensibile ai problemi della religione, della santita`, della purificazione interiore, costituisce un esempio insigne: si conosce il monachesimo da tempo immemorabile, vere moltitudini di monaci di religione brahmanista o jainista o buddhista attraversano tutta la storia: il monachesimo hindu e buddhista e` fiorente in molti paesi dell'oriente.

2. Nell'Antico Testamento

Nell'AT si trovano dei precursori al monachesimo cristiano: le scoperte archeologiche a Qumran, vicino al Mar Morto, hanno suscitato nuovo interesse per la storia del monachesimo, rivelandoci qualcosa dei monaci esseni.

3. Presso i filosofi classici

Non mancano elementi "monastici" neppure nella vita e nella dottrina dei filosofi classici, in particolare i pitagorici.

4. Nel cristianesimo

L'apparizione del fenomeno monastico in seno al cristianesimo non e` cosi` facilmente databile. Sappiamo che la chiesa apostolica e quella dei martiri hanno avuto le loro vergini consacrate e i loro asceti, che si debbono considerare come autentici predecessori dei monaci: praticavano il celibato, conducevano vita povera e austera, si andavano raggruppando a poco a poco. Nella seconda meta` del secolo III alcuni, particolarmente in Egitto, si ritirarono nel deserto. S.Antonio Abate (Antonio il Grande), anche se non fu il primo a ritirarsi, e` considerato il padre dei monaci (250-356). Cosi` si formo` praticamente il monachesimo cristiano, man mano, senza che sia possibile assegnargli un fondatore, una data precisa, una culla determinata. Nacque un po' in tutte le parti come prodotto della santita` e della fecondita` delle diverse chiese locali.

5. Nel IV secolo

Nel IV secolo, terminata l'era delle persecuzioni, all'inizio della liberta` della chiesa, il movimento monastico assume uno sviluppo enorme, e cio` senza dubbio fu causato dall'ondata di profano e di mediocre che era penetrata nella chiesa. Infatti uno dei luoghi comuni del monachesimo primitivo era il richiamo continuo e l'entusiasmo ammirato verso la prima comunita` di Gerusalemme; e in realta` i monaci si considerarono come gli eredi e i continuatori di quella comunita` ideale. Cassiano lancio` la teoria che i cenobiti erano i discendenti in linea retta, per una successione ininterrotta, di quei primi credenti, i quali "stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprieta` e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno" (Atti 2,44-45) e "avevano un cuore solo e un'anima sola" (Atti 4,32).

In pieno secolo IV e V i nuovi asceti formavano un vero "maremagnum" variopinto e a volte un po' caotico; c'erano tutti i tipi r con le forme di vita le piu` varie; accanto a persone famose per virtu` e santita` non mancavano persone superbe che caddero nello scisma o nell'eresia, ne' i mediocri o i fanatici. A tutta questa schiera, dopo altri e diversi titoli, si comincio' a dare indistintamente il nome di monaci.

Il termine "monaco" presso i classici e i Padri Greci...

Il termine "monaco", di origine greca (monakos), deriva dall'aggettivo "monos", che vuol dire "solo", "unico"; presso gli scrittori classici significa "in un unico modo", "di un solo posto", "semplice", "unico nel suo genere", "solitario". Eusebio di Cesarea e Atanasio cominciarono ad usarlo per i nuovi asceti col significato tecnico di persona non sposata, celibe; ma per loro il monaco e` anzitutto un imitatore di Cristo e del suoi apostoli in un distacco che separa, ma nello stesso tempo unisce ("separato da tutti e unito a tutti", secondo l'espressione di Evagrio Pontico). Comunque, nella letteratura del IV secolo - l'epoca d'oro del monachesimo - il termine tecnico "monakos" significa "separato" e "celibe".

... presso i Latini...

Il termine greco "Monakos' fu latinizzato in "monachus" ed esprimeva essenzialmente la condizione del solitario, del separato dalla gente del mondo. Nello stesso tempo si parla anche dell'idea di unita` che il termine racchiude: unita` di pensiero, unita` di proposito, unita` di condotta. Cosi` gradualmente il significato di "monachus" si ando` allargando fino a comprendere praticamente tutte le classi di asceti. Il doppio concetto di "solo" e di "uno" era verificato nell'isolamento dal secolo e nell'unita` fisica o morale in cui si viveva; percio` si applico` anche a quelli che vivevano in comune. Il termine "monaco", assente dalle Regole madri (Pacomio, IV Padri, 2da dei Padri, Basilio, Agostino) che usano frater, predomina pero` negli scritti di Cassiano e appare gia' nella generazione seguente.

... in S.Benedetto...

S.Benedetto usa frequentemente il termine "monachus" - insieme a quello di "frater" - fin dal primo capitolo della Regola. Ormai il termine aveva acquistato una pienezza di significato ed era una specie di titolo di nobilta` spirituale. Lo avevano glorificato con la loro vita personaggi eminenti come Antonio e tanti altri e lo avevano esaltato con i loro scritti Atanasio, Girolamo, Palladio, Rufino, Agostino, Cassiano, ecc. Il monaco non era piu` solamente il "celibe", il "separato", il "solitario"; era anche il "saggio" per antonomasia, l'"atleta", il "soldato di Cristo", il nuovo "martire", il "compagno degli angeli", insomma il tipo dell'uomo nuovo come appare agli occhi della fede, l'uomo che aspira a ricopiare sempre piu` pienamente l'immagine di Cristo morto e risorto. In questo contesto il termine "monachus" nella RB ha delle esigenze, e' un titolo che obbliga, un programma di santita` e costituisce un rimprovero continuo per chi lo porta indegnamente.

...oggi.

Col sorgere di nuovi istituto religiosi nel medioevo e dopo, il termine "monaco" e` venuto a restringersi designando, in occidente, solo i figli di S.Benedetto e i certosini, per distinguerli dai "frati" (francescani, domenicani, agostiniani...) e dai membri degli ordini e congregazioni moderne (gesuiti, passionisti, redentoristi, salesiani, ecc.).

Per le origini del monachesimo, vedi il piccolo libro di G.TURBESSI, Ascetismo e monachesimo prebenedettino, Ed.Studium, Roma 1961.

 

IL PRIMO CAPITOLO DELLA RB

1: Le specie dei monaci

S.Benedetto da come cosa risaputa che le specie dei monaci sono quattro , contando anche quelle dei falsi. Usa cioe` un cliche` tradizionale gia` definito da oltre un secolo. S.Girolamo, parlando dei monaci egiziani, enumera tre specie" cenobiti, anacoreti e "remnuot" (sarabaiti); Cassiano ne enumera quattro: cenobiti, anacoreti, sarabaiti e falso anacoreti che erano usciti dai cenobi. SB e` d'accordo con ambedue riguardo alle prime tre categorie, ma unisce i falsi anacoreti (di Cassiano) alla terza categoria (i sarabaiti) e aggiunge la quarta dei girovaghi, meno sviluppata ai tempi di Girolamo e di Cassiano, ma ricordata da Agostino.

2: Prima specie: i cenobiti

La prima specie e` quella dei cenobiti, coloro che vivono in monastero, cioe` insieme. "Cenobita" - in Cassiano "cenobiota" - viene dal greco "koinos" = comune e "bios" = vita. E` la prima specia anche per Cassiano, non tanto forse nella valutazione (Cassiano, e anche SB, probabilmente, hanno una stima superiore della vita eremitica), ma sopratutto perche` ritenuta piu` adatta e piu` sicura per la maggioranza degli uomini; prima anche cronologicamente perche' - dice Cassiano - ebbe i suoi inizi nella comunita` apostolica di Gerusalemme. Quando la maggior parte dei monaci abbracciarono la vita comune, il termine "cenobita" e "cenobio" furono usati piu` raramente e furono sostituiti da "monaco" e "monastero".

Militando sotto la Regola e l'abate:

Per il verbo "militando", vedi il concetto della vita monastica come milizia nel commento al prologo (Prol 3,40, 45 incluso nel concetto di "schola").Il cenobitisno si basa su due colonne: la Regola e l'abate. La prima, la Regola, e` una legge scritta costituita da usanze tradizionali, la "disciplina coenobiorum" di cui parla Cassiano, tramandata oralmente e poi fissata nello scritto; ha il carattere di stabilita` e di autorita`; la mancanza di essa e` un pericolo per gli eremiti che non siano ben formati e la causa principale della cattiva condotta dei sarabaiti e girovaghi. La seconda colonna, l'abate, e` la regola vivente, una persona costituita in autorita` che interpreta la legge scritta.

3-5: Seconda specie: gli anacoreti o eremiti

La RB non distingue tra i due nomi. Essi formano, come per S.Girolamo e per Cassiano, la seconda specie. "Anacoreta" viene dal greco <ana>, che significa lontananza e <koreo>, che significa abitare e percio` significa "colui che vive in disparte"; "eremita" viene dal greco <eremos>, che significa luogo deserto. Praticamente i due termini sono sinonimi, anche se anacoreta si riserva per i grandi asceti del deserto. SB spiega chi sono questi eremiti. Vissuto da solo per tre anni nello speco sublacense, egli sa per esperienza i pericoli di quella vita che in se stessa e` di alta perfezione.

La vita eremitica

Tanto superiore al normale temperamento degli uomini, la vita eremitica esige particolarissima chiamata divina e formazione spirituale per non cadere in illusioni; percio` SB determina bene i requisite dei veri eremiti. Non si tratta di gente che e` al primo fervore della vita spirituale, ma di chi ha fatto un lungo tirocinio in monastero. Gia` S.Girolamo voleva lo stesso e cosi` Cassiano; l'idea che gli eremiti debbano prima formarsi nei cenobi era comunissima nell'antico monachesimo, tanto che a volte il cenobio era considerato quasi unicamente come scuola di solitari (non e` questo evidentemente il caso della RB). Figli legittimi dei cenobiti, gli eremiti costituiscono quasi un monachesimo di elite, un'aristocrazia monastica; hanno superato il livello comune e possono accedere al combattimento da soli nell'eremo.

L'idea della lotta, il tema della milizia cristiana domina in questo versetti: il monastero e considerato come una specie di accademia militare dove si debbono formare le unita` speciali degli anacoreti. La comunita` dei fratelli e` come un esercito in combattimento attivo e continuo contro il demonio; i cenobiti si aiutano l'un l'altro come buoni compagni d'armi. Gli eremiti escono dalle loro file ben addestrati o equipaggiati o armati (tali sono i significati attribuibili al termine "instructi") per il combattimento individuale nella vita del deserto. Quali nemici speciali dei solitari si citano i pensieri: e` noto quanto gli eremiti dell'oriente dovettero lottare contro i pensieri, ed e` chiaro che questo e` un pericolo molto piu` grave per un eremita privo com'e`, a differenza del cenobita, del sostegno dei fratelli e dei superiori. Allettamenti della carne: altro genere di lotta frequentissima presso i solitari; si ricordino le tentazioni di Antonio nel deserto e la lotta di SB a Subiaco (Dial.II, c.2).

Con l'aiuto di Dio

Dopo tanta insistenza sulla ormai acquisita sufficienza a combattere da soli, era necessaria questa aggiunta contro il pericolo di presunzione di sapore pelagiano; della necessita` della grazia SB e` convinto e la richiama ad ogni occasione.

6-9: Terza specie: i sarabaiti

Con i "sarabaiti" irrompono nella RB i falsi monaci, per la degenerazione dei costumi che li rende una caricatura dei veri monaci. Secondo Herwegen, i sarabaiti sarebbero la corruzione del monachesimo di citta', i girovaghi (quarta specie della RB) la corruzione del monachesimo di campagna. Il termine "sarabaita" deriva dall'egiziano <sar> = disperso e <abet> = monastero e significa "uno che vive per conto proprio". Dice Cassiano: "Dal fatto che si staccavano dalle comunita` dei cenobi e ognuno per conto suo badava ai propri bisogni, sono stati chiamati, con termine proprio della lingua egiziana, <sarabaiti>". Secondo altri, deriverebbe dall'aramaico <sarab> = ribelle.

come oro nella fornace

Concetto biblico comune: cf. Prov.27,21; Sap.3.6; Sir.2,5. "Mostrano di mentire a Dio", reminiscenza di Atti 5,3-4 "mentire allo Spirito Santo"; l'espressione ricorre anche nei salmi (17,46; 77,36; 80,16...).

con la tonsura

La tonsura, o taglio dei capelli, fu, fin dai primi secoli, un segno distintivo, benche` ancora non esclusivo, dei chierici e dei monaci. Da principio significava solo portare i capelli corti. Ma almeno fin dal sec.VI, e` in uso anche la "corona" di capelli lasciata sulla testa rasata; ma probabilmente i monaci usarono a lungo quella primitiva e a questa forse pensa SB. I preti diocesani usarono da molto tempo, fino a poco fa, la tonsura ridotta a un piccolo cerchio rasato al vertice del capo (volgarmente la "chierica" perche` con la prima tonsura si entrava a far parte del clero). Presso i monaci e gli altri religiosi sono state varie fino ai tempi recentile fogge della tonsura; presso i benedettini italiani, per es., essa consisteva in una sottile linea che incideva i capelli in senso orizzontale (la "corona"). La tonsura ha voluto sempre significare una speciale appartenenza a Dio e, specialmente per i monaci, la rinuncia alle vanita` del mondo. Cio` spiega ancor meglio l'espressione di SB.

Vivono a gruppi di due o tre

E' la frase di S.Girolamo e di Cassiano; gruppetti quindi molto esigui dove non si poteva svolgere una vita seriamente regolare e dove era facile mettersi d'accordo per seguire i propri comodi.

oppure da soli, senza pastore

E' il caso dei falsi eremiti che SB raggruppa qui, mentre Cassiano ne fa la quarta specie di monaci. Non solamente sono senza Regola, ma anche senza un capo, appunto l'opposto dei cenobiti, che "militano sotto una regola e un abate" (v.2).

SB, pur trattando male questo sarabaiti, usa pero` una certa moderazione nella sua critica e solo in questa ultima parte mostra il ridicolo del loro criterio di vita (v.9). S.Girolamo e Cassiano sono molto piu` duri e si dilungano nel bollare a fuoco e ridicolizzare questi monaci.

(Un po' di esagerazione?)

Tuttavia, sia detto tra parentesi, ci si potrebbe porre il dubbio se questa critica non sia esagerata o ingiusta, per lo meno nel generalizzare in un modo cosi` assoluto. Partendo dal cenobitismo ad oltranza, S.Girolamo e Cassiano mettono in ridicolo e criticano tutti quelli che non vivono secondo quelle leggi. Certamente, il monachesimo libero e vario che fioriva un po' dappertutto, poteva dar luogo ad abusi e sicuramente ne dava; certamente, molti di quei monaci erano ipocriti, Ma condannare in blocco tutta una maniera diversa di servire Dio nell'ascetismo, e` un'altra cosa.

In realta' pare che i sarabaiti non erano quelli che Cassiano (e SB) fanno apparire come cenobiti degenerati e rinnegati, ma la sopravvivenza, la naturale evoluzione dell'ascetismo premonastico, come e` provato da molti testi dei secoli IV e V. Non perche` il cenobitismo stretto offre maggiori garanzie di andare a Dio, almeno teoricamente, si debbono disprezzare, in modo generale e assoluto, le altre specie di monaci (Colombas).

10-11: Quarta specie: i girovaghi

Questa quarta specie e' considerata la peggiore da SB. "Girovaghi" viene dal greco <ghiros> = giro e dal latino <vagus> = vagare. S.Agostino li chiama "cicumcelliones", cioe` vaganti di cella in cella. SB bolla a fuoco questi vagabondi; l'intera vita la passano cosi`: sono la scrocconeria e la fannullaggine divenuta sistema, schiavi dei propri capricci (e` chiaro che non si sarebbero mai adattati a vivere sotto un abate!) e della propria golosita` (e` l'aspetto piu` degradante della loro vita). La RM indugia a lungo (ben 62 versetti) a descrivere i costumi e le arti degli ingordi girovaghi, ma con tono caricaturale e particolari esagerati, anche se pittoreschi, al cui confronto spicca la gravita` e la sobrieta` di SB.

(Un po' di esagerazione?)

E anche qui si potrebbe fare l'osservazione, almeno come dubbio, fatta sopra per i sarabaiti. In realta` questi monaci chiamati girovaghi hanno una tradizione degna di tutto rispetto: il cosiddetto monachesimo itinerante che risale alle origini stesse della Chiesa. Effettivamente esisteva nella Chiesa primitiva una categoria speciale di cristiani i quali, senza patria, senza casa, viaggiava di citta` in citta` compiendo l'ufficio di predicatori ambulanti. Man mano poi che le comunita` crstiane si consolidarono intorno ai vescovi stabili, questa classe di predicatori perse la sua ragion d'essere. Tuttavia alcuni continuarono questa vita errabonda non come predicatori del vangelo, ma per motivi ascetici. Questa pare l'origine dei girovaghi cosi` strapazzati in RM e RB, monaci che volevano prendere sul serio l'imitazione di Gesu` Cristo il quale "non aveva dove posare il capo" (Lc 9,58); soli o in piccoli gruppi praticavano la piu` stretta poverta`, vivevano di cio` che davano loro o dei frutti che trovavano nelle campagne, passavano la notte in rifugi di fortuna o all'addiaccio e ritenevano un titolo di gloria essere chiamati vagabondi o pazzi. La curiosa storia di uno di questi monaci antichi si puo` leggere nella "Storia Lausiaca" di Palladio, c.37. (Colombas).

 

12-13: Conclusione: la Regola e` scritta per i cenobiti

SB si ferma solo alla prima specie. E` chiaro che esclude la terza e la quarta. Ma che dire degli eremiti? Senza dubbia e` una categoria legittima; ma SB la considera superiore o inferiore ai cenobiti? La questione e` dibattuta. Certamente, ispirandosi come fa a Cassiano, SB dovrebbe ritenere l'opinione comune secondo cui la vita ancoretica rappresenta la realizzzazione piu` perfetta dello stato monastico; pero` non la ritiene la via piu` comune e sopratutto non adatta alla maggior parte degli uomini.

La fortissima specie dei cenobiti

"Fortissima specie" o "la specie migliore". SB e` preso dall'eccellenza di questa specie, anche di fronte agli eremiti, appunto perche` la virtu` che lo stato cenobitico da` modo di esercitare continuamente, sopratutto l'obbedienza, la carita` fraterna e la pazienza, lo rendono il piu` adatto di tutti, il piu` umano, il meno esposto alle illusioni.

"Valoroso" o "fortissimo" esprime la fortezza d'animo che questa categoria richiede, perche` la pratica quotidiana e perseverante delle virtu` monastiche, nella monotonia delle azioni e nella stabilita` di luogo e di confratelli, costituisce veramente una continua sofferenza (che fecero paragonare la vita monastica vissuta integralmente a un lento martirio).

Veniamo ad organizzare con l'aiuto di Dio

Iniziando la grande opera dell'organizzazione della vita del cenobio nei suoi elementi costitutivi, ascetici e disciplinari, SB si richiama all'aiuto do Dio, come ha raccomandato di fare al discepolo prima di iniziare qualunque opera buona (cf.Prol.4)




CAPITOLO 2

Quale debba essere l'abate.

Qualis debeat abbas esse.

 

Preliminari

Esclusi dalla sua prospettiva eremiti, sarabaiti e girovaghi, SB comincia ad organizzare il cenobio che, per sua definizione, e` una societa` con una legge che lo regola e un capo che ne costituisce l'anima e il fondamento. Ecco allora, all'inizio della RB, questo fondamentale capitolo che, dopo il 7^, e` il piu` lungo (a prate il prologo) e senza dubbio uno dei piu` gravi e solenni.

SB dedica all'abate e alla sua funzione due capitoli: il secondo, dove la figura del superiore e` esaminata in connessione con la dottrina spirituale che deve insegnare; e il 64.mo, che tratta dell'elezione dell'abate e in cui e` ripreso il tema dei compiti affidatigli. Per questo motivo esamineremo di seguito i due capitoli.

Tuttavia, dell'abate si parla in quasi tutta la Regola per l'importanza del ruolo come lo concepisce SB, sopratutto nella "sezione disciplinare". E` l'abate che sceglie il priore e il cellerario (RB 65,11; 31,1) e forse anche i decani (RB 21,1); che si prende cura degli scomunicati (RB 27-28) ed eventualmente puo` cacciare un monaco recalcitrante (RB 28,6). All'abate sono affidati la responsabilita` dell'amministrazione, gli uffici piu` importanti nella liturgia; egli puo` cambiare l'ordine dei posti e la misura dei cibi e delle bevande. A noi interessa sopratutto la figura dell'abate come SB la propone e come e` vista nella prospettiva di oggi.

 

Problemi attuali riguardo all'autorita`.

Dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II, la questione dell'abate e` stata molto discussa e studiata, specialmente a causa della crisi in cui si e` trovata la figura del superiore nelle comunita` religiose. Le cause sono varie:

- l'esigenza di una maggiore democraticita` nei confronti dei superiori troppo accentratori e dittatoriali;

- la necessita` di rendere piu` responsabili i membri della comunita`, evitando i rischi di infantilismo;

- infine la profonda revisione cui e` stata soggetta la comunita` religiosa.

Percio` si e` cercato di riscoprire attraverso molti studi le differenti figure del superiore nella tradizione monastica.

Le due immagini piu` note

Sono due, in particolare, le immagini piu` note:

- La figura dell'anziano di provata esperienza e dotato di carismi personali, capace di avviare il discepolo alla vita monastica e di dirigerlo personalmente. Questa immagine, ben conosciuta sopratutto dagli apoftegmi e dalle collazioni di Cassiano, vede l'anziano circondato da discepoli, ma il rapporto non e` stabile e l'obbedienza, pur ritenuta un valore importante, non e` una virtu` obbligante ne` stabile. Cio` che lega anziano e discepolo e` sopratutto la parola e l'esempio del maggiore; e` cosi` che il discepolo cresce e puo` diventare a sua volta maestro e padre di altri.

- La figura di superiore nella tradizione pacomiana. La comunita` e` stabile e numerosa, l'accento e` posto sopratutto sulla "koinonia" tra i membri di cui il superiore e` garante, colui che deve consolidarla e renderla fervente. La funzione abbaziale e` dunque un servizio reso alla comunita` dei fratelli.

Oltre a queste immagini piu` antiche che possono aver contribuito a formare la figura dell'abate nella RB, ce ne sono tante altre formatesi lungo i secoli, per esempio: l'abate-signorotto del medioevo, l'abate-garante dell'obbedienza in senso strettamente giuridico e l'abate-padre della famiglia monastica. Tutto questo ci aiuta ad approfondire il senso dei capitoli sull'abate.

Un proprio "genere letterario"

RB.2 e RB.64 presentano un proprio "genere letterario" che potremmo definire del pastore o della esortazione al buon governo e che si trova in numerosi altri scritti, ad esempio:

- le lettere pastorali di Paolo (a Timoteo e a Tito),

- la lettera a Policarpo di Ignazio di Antiochia,

- la lettera a Nepoziano di S.Girolamo,

- il "De officiis" di S.Ambrogio,

- il "Dialogo sul sacerdozio" di S.Giovanni Crisostomo,

- l'"Apologia sulla fuga" di S.Gregorio Nazianzeno,

- la "Regola pastorale" di S.Gregorio Magno.

Elementi caratteristici di questo genere letterario sono gli elenchi di qualita` e di virtu`; i numerosi imperativi e congiuntivi esortativi; e in particolare il forte richiamo alle responsabilita` del superiore.

 

1-3: l'abate fa le veci di Cristo

La prima parte del capitolo 2 attira tutta l'attenzione sul titolo di abate, di cui RB e RM vogliono dare tutto un programma di vita. Il nome, quando lo utilizzava SB, aveva ormai una storia lunga, monastica e premonastica.

1: il termine "abate"

"Abbas-abate" dall'aramaico <abba> = padre, nel NT si applica solo a Dio, Padre del Signore Nostro Gesu` Cristo e Padre nostro ed e' Gesu` che lo pronuncia e lo Spirito Santo lo pone sulle nostre labbra (Rom 8,15). Allora, come e` possibile applicarlo ad un uomo? Tanto piu` che Gesu` dice: "Non chiamate nessuno "padre" sulla terra, perche` uno solo e` il Padre vostro, quello del cielo" (Mt.23,9). S.Giroloamo si indignava che ci fossero nei monasteri quelli che chiamavano altri o si facevano chiamare con tale nome.

In realta`, l'unica giustificazione possibile per attribuire ad un uomo, sul piano religioso, il nome di "abba`" e` quella di rendere omaggio all'unica parternita` di Dio che tale uomo rappresenta.

Evoluzione del significato del termine di abate

Agli inzi del monachesimo si comincio` ad usare tra i monaci la parola abba` (in Egitto <apa`> in copto) senza alcun riferimento a potere di governo; si dava a monaci venerando non come puro titolo onorifico, ma come a veri padri spirituali, persone attraverso le quali si esercitava la parternita` di Dio nel deserto;

<apa-abba> non l'uomo che governava in monastero, ma solo il monaco che era arrivato alla perfezione ed era ripieno dello Spirito di Dio, che possedeva il discernimento degli spiriti, la scienza spirituale, era capace di pronunciare parole di salvezza ispirate dallo Spirito Santo, capace di generare figli secondo lo Spirito, fino a formare in loro monaci perfetti e futuri "padri spirituali". E` l'immagine piu` comune negli Apoftegmi e in Cassiano, come gia` detto sopra (nei preliminari di questo capitolo).

Pero`, come si sa, le parole si evolvono con l'uso e cambiano di senso; piano piano "abba" si trasforma in puro titolo onorifico o titolo di governo; il suo significato tecnico, caratteristico e pregnante di "padre spirituale", di "anziano" che guida le anime ando` man mano sfumando. In occidente il termine "abbas-abate" si impose sugli altri - "padre", "preposito", "maggiore" - con cui si designava il superiore di una comunita` monastica; nel secolo VI era la parola maggiormente usata e in tal senso la troviamo in RB e RM.

Responsabilita` dell'abate

SB vuole che l'abate stesso per primo sia consapevole di cio` che comporta il suo nome e sin dall'inizio si appella al suo senso di responsabilita`: "deve realizzare con i fatti il nome di superiore". Se dunque il termine di abate nella RB non richiama il concetto di uomo carismatico, anziano, che comunica lo Spirito ai monaci, tuttavia acquista un nuovo e profondo significato: l'abate fa in monastero le veci di Cristo, e di questo ne siamo convinti per fede. E` il grande principio fondamentale - non si tratta di una opinione, di una pia credenza, ma e` materia di fede - che e` divenuto nella RB la definizione dell'abate.

L'abate secondo la RM

Che cosa significa che l'abate fa le veci di Cristo nel monastero? La formula e` una sintesi della dottrina esposta a lungo nella RM e di cui restano solo poche tracce in SB. Il succo della RM e` questo: l'abate esercita una funzione analoga a quella del vescovo e appartiene come lui alla categoria dei "dottori", cioe` di quei ministri posti da Cristo a capo della Chiesa dopo gli "apostoli" e i "profeti" (1Cor.12,28); come il vescovo governa la Chiesa, cosi` l'abate governa solamente una "schola" di Cristo, cioe` il monastero; come il vescovo e` assistito da presbiteri, diaconi e chierici, cosi` l'abate si fa coadiuvare da "prepositi" (decani nella RB). Questo parallelo tra superiori ecclesiastici e monastici era comune nei testi del secolo VI (cosi` a proposito delle comunia` pacomiane, cosi` in Cassiano, ecc.) e si appoggiava sui medesimi testi scritturistici: "Pasci le mie pecorelle..." (Gv.21,17); "Chi ascolta voi, ascolta me" (Lc.10,16).

Il concetto di "dottore" successore degli apostoli da` modo poi alla RM di inserire l'abbaziato nella gerarchia cristiana a fianco all'episcopato. (Pare comunque che il successivo sviluppo dell'abate-pontefice rivestito delle insegne pontificali tragga origine non dal testo della RM ma dall'importanza temporale dei monasteri, dal peso cioe` da essi esercitato sulla societa` in campo giuridico, economico e culturale).

Abate-dottore

L'abate dunque e` successore degli apostoli, in quanto "dottore"; rappresentante di Cristo in quanto "abate-padre". Questi due aspetti sono uniti, dato che "apostoli" e "dottori" sono emissari del Signore. Ci agganciamo cosi` al concetto di monastero come "schola": la scuola di Cristo deve avere il suo "dottore" che fa le veci dell'unico Maestro. Quindi, non preoccupandosi dell'uso del termine "abate" presso i monaci di Egitto e di altre parti (vedi sopra), la RM va subito al NT e si riferisce direttamente a Cristo; cosi` abate non significa altro che "dottore": le due nozioni hanno lo stesso significato, di una autorita` derivante da Cristo.

Questa dunque la concezione dell'abate nella RM. SB, nella sua concisione, conserva la sostanza di questa dottrina, pur con modifiche e particolarita` proprie, frutto di una diretta e sofferta esperienza in questo campo. Ma torniamo al testo.

2: Poiche` e` chiamato con il suo stesso nome

SB, cioe`, prova che il superiore fa le veci di Cristo dal fatto che e` chiamato con il suo stesso nome: "abba-padre'. Al lettore moderno suona molto strano il fatto che Cristo e` chiamato "Padre"; e i commentatori hanno cercato di interpretare questo passo che e` uno dei piu` studiati di tutta la Regola (c'e` una bibliografia abbondantissima): grazie a questi numerosi contributi, si sono trovati molti testi di epoca patristica in cui Cristo viene designato come Padre; attraverso Giustino, Clemente Alessandrino, Origene, Atanasio, Agostino, Evagrio Pontico, Cesario di Arles e molti altri, abbiamo la certezza che la dottrina della paternita` di Cristo e` molto antica, piuttosto comune, tradizionale e ortodossa.

La dottrina della paternita` di Cristo

Si da` a Cristo il nome di Padre in quanto e` il nuovo Adamo (Rom.5,12-21); Sposo della Chiesa (Ef.5,23-33; 1Cor.6,16; Ap.21,9); Maestro dei cristiani (Mt.23,10 ecc.) e il maestro era generalmente considerato come il padre spirituale dei suoi discepoli. Cristo puo` chiamarsi Padre in quanto e` la manifestazione della paternita` di Dio: Egli e` infatti "irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza" (Eb.1,3). In che senso bisogna prendere la paternita` di Cristo di cui l'abate e` vicario secondo la RB? Si tratta anzitutto di una paternita` spirituale, e poi anche di una paternita` adottiva, secondo l'altra affermazione di Prol.3-7 in cui si dice che Egli (cioe` Cristo, secondo l'interpretazione piu` comune considerato il contesto e il parallelo con la RM) ci ha adottato come figli.

Notiamo che la RB e` piu` cauta che la RM (in cui nel prologo c'e` il lungo commento al "Padre Nostro" come preghiera diretta a Cristo), pero` anche qui appare Cristo come Padre adottivo dei monaci e questa paternita` fonda la sua autorita` su di loro, come quella dell'abate suo vicario.

3: Rom.8,15: dicente apostolo...

Tuttavia, l'applicazione del testo paolino di Rom.8,15 non e` molto appropriata in quanto la frase, nonostante i paralleli nella letteratura patristica, si riferisce per Paolo direttamente a Dio Padre, non al Figlio.

Potremmo dire che dando a Cristo il nome di Padre, SB vuole reagire contro la tendenza ariana di considerare il Figlio come inferiore al Padre. Nello sforzo di salvaguardare la divinita` del Signore Gesu`, troviamo la ragione per cui e` messa in ombra la considerazione di Cristo come "Fratello", per cui la cristologia di SB risulta un po` unilaterale, mentre si e` notata la sua devozione alla Trinita`: Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito sono chiaramente posti in evidenza nella Regola. Ricordiamo il riferimento esplicito all'opera dello Spirito Santo in un momento culminate della Regola: RB.7,70. E` senza dubbio come fratello, e non come Padre, che il NT presenta Gesu`. I testi sono chiari e numerosi: sono suoi fratelli tutti i poveri, gli abbandonati, gli afflitti (Mt.25,40); "andate a dire ai miei fratelli" (Mt.28,10); Gesu` parla di "Padre mio" e "Padre vostro" (Gv.20.17); "primogenito di una moltitudine di fratelli", dice Paolo (Rom.8,29)...

La unilateralita` cristologica della RB, se si preme un po', avrebbe delle grosse conseguenze con il suo presentare l'abate quale vicario non di Cristo-Fratello, ma di Cristo-Padre: eleva l'abate da un livello umano e fraterno - che Cristo adotto` nella sua vita mortale - a un piano superiore, eccelso, quasi divino. Certo, ci sono molti passi in cui SB (a differenza della RM) ricorda all'abate la sua condizione di uomo peccatore, di luogotenente, ecc., ma nella RB viene quasi canonizzata una distanza, un livello incolmabile tra l'abate e i monaci. E` difficile immaginare l'abate benedettino come un S.Pacomio che serve fraternamente la "koinonia" (= la comunita`) con una dedizione e una umilta` non solo interna ma esterna e visibile. Percio` quando alcuni autori (ad esempio Kleiner) dicono che l'abate paragonato al "paterfamilias" romano di potere assoluto, o al "signore feudale" spirituale e nello stesso tempo guerriero, o a un "principe-prelato" dell'epoca barocca, o al "padre-abate" idealizzato e romanticamente sopraelevato dalla restaurazione monastica, sono soltanto delle evoluzioni diverse, attraverso i tempi, della idea originale, si deve riconoscere che, si`, le trasformazioni si devono alle circostanze socio-politiche cambiate; pero` il fatto di vedere l'abate su un piano notevolmente superiore ai monaci, ha il suo fondamento stesso nella RB (e molto piu` nella RM).

4-10: Posizione dell'abate rispetto a Cristo

Posto il principio fondamentale - che l'abate e` il vicario di Cristo-Padre - il resto del capitolo contiene continue e isistenti esortazioni dirette all'abate stesso, perche` compia fedelmente il suo ufficio che si va definendo a poco a poco. In primo luogo appaiono due immagini, due analogie, corrispondenti a due attributi di Cristo attestati nel Vangelo e illustrati abbondantemente nella tradizione letteraria e dall'arte paleocristiana:

Cristo Maestro e Pastore: cosi` l'abate.

"Voi mi chiamate Maestro e Signore, e dite bene, perche` lo sono" (Giov.13,13), "Io sono il Buon Pastore" (Giov.10,14): sono parole di Gesu`. Rappresentante di Cristo in monastero, l'abate di conseguenza esercita l'ufficio di maestro e di pastore.

Abate - maestro

Come maestro, l'abate "insegna, stabilisce, comanda", allo stesso modo degli antichi maestri, solo che non insegna una dottrina propria; non impone una sua propria volonta`, la sua dottrina e` di Cristo, i suoi precetti debbono conformarsi costantemente alla volonta` di Cristo. Il governo e la dottrina di lui dovranno essere fermento di santita` nell'animo dei monaci; l'idea del fermento e` un'allusione alla parabola del Signore (Mt.3,33); si applica, naturalmente, sopratutto all'opera di formazione e di insegnamento, che costituisce un essenziale compito dell'abate e distingue il carattere di lui da quello comune e semplice di capo, di superiore (si ricordi quanto detto sopra dell'idea di abate quale uomo con il carisma di "dottore" secondo la letteratura monastica e sopratutto in RM).

Come maestro, l'abate dovra` render conto non solo della sua dottrina, ma anche della condotta dei discepoli. Il che evidentemente non esime costoro dal giudizio divino, come invece pretende la RM (per lo meno in tre passi: RM1,87.90-92; 2,35-38; 7,53-56: con questo ragionamento i monaci non debbono fare altro che obbedire all'abate e su quest'ultimo ricade tutta la responsabilita` dei loro atti). Nella RB non c'e` riferimento alcuno a questa strana teoria che fa dei monaci degli "irresponsabili" eterni "minorenni". Tuttavia l'abate e` responsabile dei monaci.

L'abate - pastore

Come pastore, si imputeranno all'abate le deficienze del gregge, qualora esse dipendano dalla negligenza del pastore. Il "paterfamilias", il capo della casa, ha affidato a lui pastore la custodia e l'incremento del gregge; come i servi della parabola evangelica, l'abate dovra` render conto del frutto e sara` ritenuto responsabile di ogni mancanza dovuta alla sua incuria. Si noti la forza con cui SB accentua questa cura pastorale: "tutto lo zelo" [per le anime turbolenti], "con ogni diligenza" [ogni rimedio per le loro infermita`]. Solo allora. se il gregge si mostra ostinatamente ribelle, sara` responsabile in proprio della sua rovina e l'abate sara` assolto nel giudizio divino.

11-15: duplice insegnamento: con la parola e con l'esempio

SB ricorda poi un principio di somma importanza che i monaci antichi non cessavano di inculcare: la dottrina del maestro deve essere duplice, cioe` teorica e pratica, l'abate deve insegnare piu` con l'esempio che con la parola (ricordare che di Gesu` Luca dice: "coepit facere et docere - fece ed insegno`" (Atti 1,1). E subito aggiunge un chiarimento: per i piu` intelligenti ed evoluti basteranno anche le sole parole, ma per i piu` duri e incolti occorre anzitutto l'esempio:

- discepoli capaci: sono quelli che per innata o acquisita finezza di intelletto e di cuore e per l'energia di volonta` sanno comprendere e seguire presto l'insegnamento del maestro.

- duri di cuore: frase biblica (Is.46,12 ecc.) che qui significa "quelli che stentano a capire e ad eseguire".

- anime semplici: con paterna delicatezza SB allude ai piu` rozzi e incolti, privi di finezza. Si pensi che nella sua stessa comunita`, accanto ai nobili Mauro e Placido, c'era anche il "goto" che S.Gregorio dice "pauper spiritu - povero di spirito" (Dial.II,6).

13: coerenza dell'abate tra quanto insegna e quanto fa

"Affinche` mentre predica agli altri, non sia trovato riprovevole proprio lui": applicazione del testo paolino di 1Cor.9,27. SB, che concede all'abate tanto potere, non esita a ricordargli gravemente che anche lui e` soggetto alla legge di Dio e alla Regola, e la discordanza tra l'insegnamento e la vita sarebbe molto grave, e lo renderebbe oggetto di un piu` severo giudizio da parte di Dio, come dice nei versetti seguenti con due citazioni scritturistiche, una del VT (salmo 49,16-17) e una del Vangelo (Mt.7,3).

16-40: Governo dell'abate:

Dopo gli avvisi sull'insegnamento abbiamo quelli sul governo.

16-22: a) imparzialita`...

L'abate non deve, nei confronti dei suoi monaci, avere o mostrare preferenze personali, basate sulla nascita, sulla posizione sociale, sulla naturale simpatia, sulla parentela o su altri motivi umani, perche` in Cristo tutti siamo uguali (Gal.3,28) e non vi e` preferenza di persone presso Dio (ef.6,8). L'unico criterio per le preferenze di Dio e` la maggiore bonta` e la maggiore umilta`; e solo di questo genere e` l'eccezione che puo` fare l'abate (v.17), non commette ingiustizia preferendo i piu` obbedienti.

Si veda il caso di Marco, discepolo dell'abate Silvano negli "Apophtegmata Patrum - Detti dei Padri" (Cf. I Padri del Deserto. Detti, Citta` Nuova Ed. 1972, pp.254-255). Le raccomandazioni contro il pericolo del favoritismo, che sarebbe disastroso, erano comuni nella tradizione monastica. (Cf. ad esempio: S.CESARIO: Lettera di esortazione alle vergini, citata in LENTINI, p.68).

23-29: b) ... la correzione ...

SB intende trattare di un aspetto molto difficile nell'opera di governo: il dovere di correggere. Il tema e` diviso in due parti: il primo (vv.23-25) ha il parallelo in RM; il secondo (vv.26-29) di una notevole durezza, e` proprio di SB.

23-25: adattamento ai vari caratteri

Il primo insiste sulla necessita` di adattarsi, per la correzione, ai vari caratteri: gli uomini non sono tutti uguali, le circostanze sono diverse, non si puo` quindi agire con i singoli allo stesso modo. SB si rifa` alla sentenza paolina di 2Tim.4,2 (v.23), che poi sviluppa nei vv.24-25):

- ammonisci, vale per gli indisciplinati e gli irrequieti, i caratteri facilmente mobili, agitati;

- esorta, vale per gli obbedienti, i miti, i pazienti, i monaci docili ai quali basta una leggera parola di approvazione o di conforto perche` proseguano nella virtu`;

- rimprovera, vale per i negligenti e gli abituali trasgressori, o che dimostrano aperto disprezzo per la Regola o per gli ordini dei superiori. Si noti la bella espressione del v.24 in cui si consiglia all'abate di mostrarsi esigente come un maestro e tenero come un padre, secondo le circostanze.

26-29: c) ... correzione tempestiva ed efficace

L'altra parte di questo tema precisa con piu` esattezza il modo della correzione: questa deve essere immediata ed effettiva; l'abate non deve chiudere gli occhi sulle mancanze abituali e sugli abusi dei monaci inosservanti: correrebbe il rischio di cadere nello sdegno di Dio come avvenne a Heli sacerdote di Silo (1Sam.2-4 passim) il quale rimproverava i figli Cofni e Pincas che davano scandalo, ma non li correggeva efficacemente: Dio puni` tutti e tre con la morte. Per questo, ai piu` delicati e comprensivi, bastera` l'ammonizione a parole, una o piu` volte, ma agli ostinati si applichera` subito il castigo corporale.

Qualche lettore di oggi potrebbe rimanere colpito da questo ricorso alle battiture. Ma si pensi che sono passati 14 secoli e i costumi sono cambiati. A quel tempo la pratica delle battiture era comune anche per i monaci e chierici, si ricorreva ad essa o per colpe molto gravi o quando l'eta` e la rozzezza rendevano inefficaci le pene spirituali. Inoltre SB pensava anche ai fanciulli che vivevano nel cenobio: per loro - e per qualche adulto da considerare come un grosso bambino - egli riteneva, secondo la Scrittura e la tradizione romana e monastica, che l'educazione severa comprendente anche sanzioni corporali, fosse necessaria a temperare caratteri forti.

30-32 Regere animas - governare anime

Tutta la rimanente parte del capitolo e` dominata da questa idea: il governo dell'abate e` un governo di anime, e SB gli ricorda la grande responsabilita`: "ricordi quel che e` e come viene chiamato" e poi un riferimento alla frase del Vangelo: "a chiunque fu dato molto, molto sara` richiesto; a chi fu affidato molto, sara` richiesto molto di piu`" (Lc.12,48).

Regere animas, governare anime: tre volte (v.31, 34, 37) appare l'espressione per ricordare che cio` costituisce senza dubbio l'incarico essenziale, il piu` delicato e il piu` arduo; "guidare le anime" significa "adattarsi a temperamenti molto diversi", che nel testo latino e` "multorum servire moribus" (v.31): e` nel concetto vero e cristiano dell'autorita` che essa e` fatta per il bene degli altri, E` un servizio.

Autorita` come servizio: oggi sopratutto, nella Chiesa, su questo si insiste molto. L'abate deve donarsi tutto a vantaggio della comunita`, allora si conformera` alla varia indole dei suoi monaci; questa disponibilita` non solo gli evitera` la perdita di qualche pecorella (fu anche la preoccupazione di Gesu`, cf.Giov.17,12), ma gli dara` la soddisfazione di vedere crescere in merito e in numero il proprio gregge.

33-36: Primato delle anime sugli affari temporali

Pastore di anime, l'abate dedichera` ad esse il meglio delle sue energie e delle sue qualita` e non si preoccupera` troppo delle cose transitorie, terrene e caduche (v.33): si noti l'accumularsi di epiteti per indicare l'inconsistenza e la provvisorieta` degli interessi materiali, in confronte del bene delle anime che deve essere al centro dei pensieri dell'abate (v.34). Che cosa importa la eventuale scarsezza di beni materiali? Abbia fede nella Provvidenza: vengono addotte due citazioni, una del Vangelo (Mt.6,33, "cercate prima...", la notissima sentenza di Gesu` che e' valida per tutti i cristiani, tanto piu` lo e` per i monaci che cercano esclusivamente il Regno di Dio), e una del Salmo 33,11: "nulla manca a chi teme Dio".

37-40: Osservazione escatologica conclusiva

SB termina il capitolo secondo con espressioni - uguali nella RM - che insistono ancora una volta sul rendiconto che l'abate dara` a Dio di tutte e singole le anime affidate alla sua cura, oltre, naturalmente, alla propria. Questo pensiero gli infondera` un salutare timor di Dio che servira` anche alla vigilanza su se stesso; e mentre procurera` che i fratelli si correggano dei loro difetti, si andra` anche lui correggendo dei propri.




CAPITOLO 64

L'elezione dell'abate.

De ordinando abbate.

 

Preliminari

Nulla aveva detto il capitolo 2^ sulla elezione dell'abate. Se ne parla in questo capitolo 64, il cui titolo corrisponde solo alla prima parte del testo (vv.1-6), mentre la seconda parte, molto piu` lunga (vv.7-22) contiene un nuovo direttorio abbaziale sulle qualita` e caratteristiche dell'abate, in parte simili, in parte diversi dal capitolo 2^.

Non e` facile interpretare i vari termini che compaiono nel testo. I verbi-chiave sono: ordinare, constituere e eligere, che si possono rendere in italiano con: scegliere, eleggere, designare, elevare, costituire. La RB non spiega il senso preciso di queste parole, ne' come si realizzava cio` che esse significano. Si puo` dire che per SB l'elezione di un abate e` un avvenimento sopratutto spirituale che viene dall'alto, non tanto giuridico; quindi non vuole imporre a Dio delle regole fisse. Cio` che importa e` che si nomini una persona degna. Inoltre, si ritiene oggi che quando un legislatore monastico non e` molto esplicito e chiaro nel definire qualche punto, lo fa perche` da` la cosa come scontata, ben conosciuta e rimanda alla norma comune.

Nel secolo VI i modi di designazione erano diversi, se ne conoscevano almeno sei: il nuovo abate poteva essere nominato dal predecessore, dagli abati della regione, dal vescovo locale, dal vescovo metropolita o dal patriarca, dal signore del luogo (feudatario, conte, duca...) o, a volte, da un gruppo di persone particolarmente qualificate. In questi casi l'elezione da parte di tutta la comunita` poteva significare solo l'accettazione di una designazione gia` fatta da una autorita`. Passiamo al testo.

 

PRIMA PARTE: vv.1-6.

1-6: Procedura per l'elezione dell'abate

Secondo la RM, era l'abate prossimo alla morte che sceglieva il successore. SB accetta invece un modo che rimontava alle origini del cenobitismo: la comunita` di comune accordo sceglie un nuovo capo (questa prassi era prevista e approvata dalle leggi ecclesiastiche e civili); ma comune accordo "secondo il timore di Dio", cioe` seguendo il criterio unicamente valido per il superiore (v.2), il quale deve essere persona degna e con tutte quelle qualita` elencate nel capitolo 2 e nel capitolo 64,7-22.

Importanza del vescovo nell'elezione

SB non offre particolari sul meccanismo elettorale. Nel caso in cui nessuno dei monaci riceva un suffragio unanime, cioe` nel caso di una comunita` divisa, l'intenzione di SB e` che sia preferito il candidato scelto dalla parte piu` sana e spirituale della comunita`, per quanto piccola di numero possa essere. Ma come si fa a stabilire qual'e` questa "parte piu sana"? Potevano essere senza dubbio quelli che avevano condiviso parte di responsabilita` con l'abate precedente: i superiori subalterni, i decani o i seniori spirituali. Nel caso anche qui di dubbio (o di discordia), si deve supporre, come appare in maniera evidente dal contesto seguente, che era il vescovo, abitualmente o occasionalmente coadiuvato dagli abati vicini, che doveva giudicare quale fosse la parte piu` stimabile della comunita` e preferire il suo candidato.

Due garanzie: vita santa e soda dottrina

Quello che importa per SB e` che l'eletto offra garanzia di una vita irreprensibile e di una dottrina sicura, anche se fosse l'ultimo nell'ordine della comunita` (v.2); una clausola, questa, molto originale per le consuetudini del tempo in cui le elezioni tenevano conto, e` vero, del merito personale, ma anche (e a volte sopratutto!) del rango del candidato. In ogni caso ne' il vescovo diocesano, negli abati della regione, ne' i cristiani del luogo dovevano permettere che si designasse un abate indegno, complice dei vizi dei monaci, anche se fosse stato eletto all'unanimita` (si pensi ai monaci di Vicovaro, Dial.II,2).

E` notevole l'energia di SB in questo passo (vv.3-6): non ha paura dell'ingerenza di estranei al monastero, anzi la sollecita; da qui possiamo capire che il monastero di allora non era fuori dal contesto e dall'organizzazione della Chiesa locale: l'ultima parola, appare chiaro, spettava al vescovo della diocesi; anche nel caso della scelta unanime della comunita` essa non costituiva definitivamente il candidato nel suo ufficio, equivaleva ad una "presentazione" che poi veniva ratificata dalla competente autorita` ecclesiastica; il vescovo, cioe`, decideva se l'eletto era degno di governare "la casa di Dio" (v.5).

In tutto il capitolo il termine "ordinare" significa l'atto legale con cui uno viene di fatto immesso in un ufficio. Dalla RM e da alcune lettere di S.Gregorio, si puo` arguire che l'atto ufficiale con cui il nuovo abate veniva insediato dal vescovo nel suo nuovo ufficio, si compiva in maniera solenne e probabilmente durante la celebrazione dell'Eucarestia. Non si tratta ovviamente di una ordinazione sacramentale, ma solo di una benedizione abbaziale che e` come un sacramentale; ma non si sa bene in che cosa consistesse; forse in orazioni da parte del vescovo sopra il nuovo eletto. Il documento liturgico piu` antico che offre un formulario di ordinazione o benedizione dell'abate e` il Sacramentario Gregoriano (sec.VI): consta di una sola orazione, chiaramente ispirata al capitolo 2^ della RB.

L'elezione dell'abate nel corso dei secoli

Nel corso dei secoli, come si sa, non sono mancati gravi abusi nell'elezione dell'abate, come all'infelice tempo della commenda (Cf.DIP <Dizionario degli Istituti di Perfezione>, I,26-27: voce "abbas",3) o della intromissione di principi o di altri laici. Le reazioni a questi abusi portarono a una dottrina canonica in cui sono precisati dal diritto generale e particolare (dalle Costituzioni delle singole congregazioni) le norme per l'elezione, la procedura, la durata in carica, ecc. (Cf. studio delle nostre Costituzioni).

Durata dell'ufficio abbaziale

Secondo la RB e` chiaro che l'abate e` a vita e, essendo ogni monastero autonomo, viene eletto nell'ambito della propria comunita`. Con il raggruppamento di monasteri in congregazioni o per motivi storici o per la nascita di famiglie monastiche con una organizzazione centralizzata (come la nostra congregazione Silvestrina), qualcosa e cambiato. Anche nei grandi monasteri "sui iuris" non sempre l'abate e` tratto dalla stessa comunita` (ma anche da altri monasteri delle stessa congregazione o federazione); inoltre, con il cambiamento della mentalita` e anche per volonta` della Chiesa (che invita i vescovi a dimettersi a 75 anni d'eta`) molte congregazioni monastiche prevedono ora, in occasione della visita canonica, una procedura che invita l'abate a dimettersi; altre congregazioni preferiscono un abbaziato temporaneo o superiori nominati per un tempo breve. Anche le grandi abbazie che conservano ancora l'abate a vita si pongono oggi il problema.

Tutto questo, naturalmente, ha mutato la figura tradizionale dell'abate come e` nella Regola di S.Benedetto. (Per la posizione giuridica dei superiori dei singoli monasteri, del Priore Conventuale e dell'Abate Generale nella nostra Congregazione, cf. lo studio delle nostre Costituzioni).


SECONDA PARTE: vv.7-22. Nuovo direttorio abbaziale

I vv.7-22 contengono un'esortazione al nuovo abate che entra nel suo ifficio, non solo riguardo ai suoi obblighi, ma anche riguardo a cio` che deve essere - o cerca di essere - egli stesso. Per la RM l'unico criterio per l'elezione di un abate era la perfezione personale che uno aveva raggiunto: a chi deve insegnare l'arte spirituale si richiede che la sappia praticare meglio di tutti. Invece la RB in questa nuova esortazione parla all'abate delle qualita` umane, del carisma della direzione delle anime, delle doti del pastore. Abbiamo cosi' un nuovo direttorio abbaziale, che e` un completamento, una aggiunta, una ratifica anche, con il suo accento piu` affettuoso e paterno, con il tono di maggiore discrezione e benignita`, frutto senz'altro di esperienza personale. E' una stupenda pagina di letteratura cristiana in cui si armonizza la saggezza di un profondo conoscitore delle anime e l'ispirazione soprannaturale di prudenza e carita`; vi aleggia lo stile delle lettere pastorali di S.Paolo e quello delle esortazioni liturgiche agli ordinandi.

 

SCHEMA del cap.64

Lo schema e` abbastanza lineare: alla introduzione (v.7) corrisponde la conclusione (vv.21-22) che trattano di uno stesso tema: rendiconto a Dio, prospettiva escatologica; alla breve raccomandazione di quattro qualita` positive (v.9) corrisponde l'avvertenza contro le sue qualita` negative (v.16).

Si noti che nella RM non si parla mai di eventuali difetti dell'abate, il quale deve essere piu` avanti di tutti nella perfezione. Al relativamente lungo commento sulla correzione dei difetti (vv.12-15) corrisponde il commento sul modo di governare (vv.17-19); la raccomandazione di far osservare la Regola (v.20) e' la conseguenza di tutto quanto precede e annuncia la conclusione. E` quindi una costruzione ben combinata. Vediamo il contenuto.

7-8: Coscienza della sua responsabilita`

SB insiste, con la ripetizione di parole simili (pensi, si ricordi, sappia), sulla coscienza della sua responsabilita` che l'abate deve avere. E` un tema gia` molto sviluppato nel primo direttorio abbaziale (vedi RB.2,6-7; 2,34; 2,37-38). Sappia che deve giovare piu` che dominare <prodesse magis quam praeesse>: una bella massima con efficace giuoco di parole prese da S.Agostino (Discorso 340,1 e altrove) che forse era di uso comune ai tempi di SB.

9-10: Qualita` positive

Delle quattro qualita` positive elencate in questo passo (dottrina, intemeratezza, sobrieta`, misericordia), la prima e la quarta sono seguite da un piccolo commento.

9: Sia dotto nella legge divina.... L'abate sia istruito nella legge di Dio, perche` il primo elemento della sua opera di bene e` l'insegnamento delle cose divine. SB ha gia` insistito nel capitolo 2 su tale compito dell'abate, la cui dottrina deve infondere nel cuore dei discepoli un fermento di giustizia divina (RB.2,5; cf. anche RB.2,11-15); "... perche` sappia da dove trarre insegnamenti nuovi e antichi" (l'espressione latina "nova et vetera" e` una citazione di Mt.13,52): sono gli insegnamentoi che non mutano e le applicazioni che cambiano ogni giorno, le regole che sono eterne e gli ammonimenti che si adattano a ciascun individuo.

Sia casto, sobrio, misericordioso: richiamo all'elenco delle qualita` del vescovo in S.Paolo (cf. per es. 1Tim.3,2). L'ultima qualita`, la misericordia, e` seguita da un commento. SB raccomanda all'abate di preferire la misericordia alla giustizia (citazione di Giac.2,13), "affinche` egli stesso possa ottenere un trattamento simile" (chiarissima allusione a due passi del Vangelo: Mt.5,7; Mt.7,2).

11-15: Indulgenza e amore nella correzione

Nella medesima linea della misericordia, abbiamo un'altra sentenza lapidaria frequente in S.Agostino (Discorso 49,5 e altrove), con l'invito a non cessare di amare i fratelli mentre detesta i vizi: oderit vitia, diligat fratres (detesti i vizi, ami i fratelli).

12: ne quid nimis

La massima precedente "oderit vitia, diligat fratres" conduce SB a trattare del modo di agire nella correzione, che e` uno dei temi capitali del codice monastico, con l'insistenza sulla moderazione: Ne quid nimis (senza eccedere). La sentenza classica (era attribuita a uno dei sette sapienti) ispira il senso del giusto mezzo e della discrezione. Forse SB la ricordava dalla scuola giovanile; pero` in seguito il ricorso alla Scrittura (Is.42,3: che "non si deve spezzare la canna gia` incrinata" del v.13) eleva la massima dal semplice piano naturale alla imitazione di Gesu` stesso (cf.Mt.12,20 dove la citazione di Isaia e` applicata a Gesu`).

In nessun altro testo appare, come qui, il carattere di ritrattazione o di rettifica del capitolo 64 rispetto al capitolo 2. Abbiamo visto come nel primo direttorio abbaziale SB invita l'abate a estirpare dalle radici, appena cominciano a spuntare, i difetti dei fratelli (RB.2,26); se coloro che trasgrediscono sono individui "testardi, superbi e ribelli", dice di non perdere tempo ad ammonirli, ma di punirli subito con castighi corporali (RB.2,26-29). Qui raccomanda, si`, di stroncare i vizi, ma il tono e` interamente diverso: "usi prudenza e carita`, adattandosi al temperamento di ciascuno" (v.14). Con tutto il contesto in cui si inculca con insistenza la misericordia e l'amore, la norma sulla correzione finisce col perdere l'eccessiva durezza, in un certo contrasto con il capitolo 2.

15: Studeat plus amari quam timeri

(= Miri ad essere amato piuttosto che temuto): altra bellissima sentenza tratta direttamente dalla Regola di S.Agostino (cap.15) e sapiente programma di governo. La norma, in realta`, si trova anche in altri testi, cristiani, monastici e classici; si puo` dire che queste brevi ma sostanziose parole convergono la sapienza del deserto, quella cristiana e quella politica classica. "Miri ad essere amato piuttosto che temuto" e` in fondo una variante di "giovare piuttosto che dominare" del v.8. In ambedue le sentenze appaiono due gruppi di elementi: autorita`, onore, timore da una parte; servizio, misericordia, amore dall'altra. Trovare l'equilibrio tra le due cose sarebbe l'ideale, ma in realta` - e la RB e` realista - risulta impossibile mantenere sempre tale equilibrio tra i due piatti della bilancia.

16-19: Difetti da evitare. Discrezione dell'abate

Nel v.16 abbiamo un elenco di qualita` negative da evitare. Nulla di piu` dannoso per la tranquillita` dispirito delle tensioni di un abate turbolento, inquieto, vittima del sospetto e della gelosia.

- Apprensivo <anxius> significa: in affanno ed eccessiva angustia di spirito.

- Esagerato <nimius>. Si intende di uno che, sia pur con le migliori intenzioni, si rende fastidioso con l'insistere, col pretendere, col soverchio correggere, con la troppa cura delle minuzie.

- Ostinato <obstinatus>: deve pur essere convinto che gli altri possano talvolta pensarla meglio di lui.

- Troppo sospettoso <nimis suspiciosus>: e' il difetto di chi vede ad ogni passo pericoli, cattive intenzioni, malignita`: un abate simile non avra` mai pace!

E' stato notato che il non sia turbolento dell'inizio del v.16 evoca la figura del Servo di Yahwe (Is.42,4), applicata a Cristo in Mt.12,18-21): "Non contendera`, ne' gridera`, ne' si udra` sulle piazze la sua voce"; gia` prima, nel v.13, SB ha ricordato l'altra caratteristica "non spezzera` la canna incrinata": la mansuetudine di Cristo deve essere un modello e uno specchio per il suo vicario.

17-19: La discrezione, madre delle virtu`

Per quanto riguarda il governo, SB raccomanda la previsione, la riflessione, il discernimento e l'equilibrio (v.17). Alla fine appare l'equilibrio, la moderazione, la discrezione (v.19) che domina tutto il direttorio abbaziale: e` quel sapiente giusto mezzo che e` frutto di grande equilibrio spirituale e che rende la virtu` tanto piu` amabile e accessibile.

La discrezione era tanto stimata presso i monaci antichi. Anche Cassiano usa l'espressione: "la discrezione, madre di tutte le virtu`" come al v.19 (Cf.Collazioni 2,4). E` noto che S.Gregorio Magno la colse come una caratteristica della RB, definendola appunto "mirabile per la discrezione" <discretione praecipuam> (Dial.II,36).

La parola "discrezione" va presa anzitutto nel suo senso preciso e originario da discernere, cioe` "distinguere" bene i mezzi e le circostanze per raggiungere un fine e ordinare gli atti corrispondenti senza eccesso ne' difetto.

19: ut...fortes quod cupiant et infirmi non refugiant

La discrezione sara` che l'abate disponga tutte le cose - tanto le spirituali che le temporali (v.17) - in modo che "i monaci forti desiderino di fare di piu` e i deboli non si scoraggino" <non refugiant> (v.19). L'espressione ci ricorda quella di Prol.48: "non refugias", "non abbandonare subito la via della salvezza". In ambedue i casi SB considera la stessa situazione umana: quella del monaco pusillanime e di poca forza che di fronte a un'osservanza troppo rigorosa si sentirebbe tentato di lasciare il monastero. Nel prologo SB si rivolge a questo monaco spaventato esortandolo alla perseveranza; qui chiede all'abate che tenga conto di tale debolezza. Nel prologo promette al fratello tentennante che non si stabilira` nulla di troppo duro e penoso, qui esige dalla "discrezione" dell'abate che mantenga la promessa abbreviando piuttosto che aumentando il peso della Regola che, per altro, deve far osservare in tutto (v.20).

20-22: Conclusione: osservanza della Regola e premio eterno

Il primo direttorio abbaziale termina facendo appello al giudizio di Dio e alla correzione delle colpe proprie dell'abate (RB.2,39-40). Questa nota di timore e di severita` e` sostituita in questo secondo direttorio abbaziale da una nota di gioiosa speranza: SB, per sollevare il duro lavoro e l'incessante peso dell'abate, gli ricorda il premio preparato al servo fedele quando verra` il Signore (Mt.24,47).

Ritratto del pastore ideale, immagine di Cristo

E' stato detto che appare nel capitolo 64 una omogeneita` di pensiero, una unica visuale ispira l'autore: quella del pastore ideale, del servitore umile, mansueto e paziente che e` Cristo. Spirito di servizio, misericordia, amore, prudenza, pace, ecc., sono tutti aspetti di una identica attitudine fondamentale.

"Il Servo di Yahwe di Isaia, il Cristo di S.Matteo, il Pastore di S.Paolo, l'Anziano misericordioso e "discreto" di Cassiano, tutte queste immagini ideali del capo cristiano vengono a fondersi senza sforzo in un ritratto dell'abate che e` profondamente semplice" (De Vogue').

Questo ritratto dell'abate del capitolo 64 differisce in alcuni punti non solo dalla RM, ma anche da quanto detto nel capitolo 2 della stessa RB. SB ha corretto se stesso in eta` avanzata alla luce dell'esperienza? Oppure il capitolo 64 e` dovuto a una mano diversa da quella del capitolo 2? Tutte le ipotesi sono permesse. Comunque, negli ultimi capitoli della Regola, che sono propri di SB (di cui si riconosce sempre piu` l'originalita`) ci si presenta l'abate piuttosto che come un maestro severo, teso ed inquieto per il peso della responsabilita`, come un uomo servizievole e misericordioso.




CAPITOLO 3

La convocazione dei fratelli a consiglio.

De adhibendis ad consilium fratribus.

 

Preliminari

Questo capitolo finisce di determinare la costituzione organica della comunita`, stabilendo il ruolo che spetta a ciascun membro nel governo del monastero. Nella RM e` un tutt'uno col capitolo 2 sull'abate e difatti e` strettamente collegato con esso. Tuttavia SB se ne distacca e ne fa un capitolo a se' in cui, pur dipendendo dalla RM, notiamo una sua originalita`. Si tratta praticamente dei rapporti tra abate e comunita`, su cui ha scritto uno studio esauriente e fondamentale A.DeVOGUE, La communaute' et l'abbe' dans la Regle de Saint Benoit <La comunita` e l'abate nella Regola di S.Benedetto> Paris 1961.

Precedenti nella tradizione monastica

E` merito del DeVogue', tra l'altro, aver indicato i precedenti storici del consiglio degli anziani nella tradizione monastica; ricorda le assemblee degli anacoreti di Scete, parla delle "Vite" copte di S.Pacomio, secondo cui il superiore generale riunisce i "grandi" o "anziani" della "koinonia"; cosi` ancora riferisce che le Regole di S.Basilio presentano un parallelo perfetto con le disposizioni della RB. Tuttavia in questi passi si tratta sempre di un consiglio ridotto scelto, composto di uomini "capaci di giudicare" e sembra che essi non si limitano ad esporre il loro parere, ma danno un voto abbastanza decisivo. In SB c'e` una impostazione diversa del cenobio e quindi dei rapporti tra abate e comunita`.

Quanto alla convocazione del consiglio, il capitolo 3 di RB prevede nel monastero due casi:

1). trattazione di affari di particolare importanza <praecipua>;

2). trattazione di affari di minore importanza <minora>.

Schema del capitolo 3:

a) convocazione di tutta la comunita` (vv.1-3);

b) comportamento dei monaci e dell'abate nel consiglio (vv.4-6);

c) autorita` della Regola (vv.7-11);

d) consiglio degli anziani (vv.12-13).

1-3: Convocazione di tutta la comunita` (per cose di maggiore importanza).

Quando si tratta di affari di grande importanza, deve essere convocata tutta la comunita`. Si tratta proprio di un consiglio generale. Esso ha le seguenti caratteristiche:

- lo convoca l'abate,

- espone il problema lo stesso abate,

- l'abate infine, udito il parere di tutti, riflette sulla cosa

e decide quanto ritiene opportuno.

Si tratta percio' di un consiglio puramente consultivo. Quindi la convocazione dei fratelli a consiglio non significa una restrizione dei poteri abbaziali o un voler dare una forma "democratica" alla direzione del monastero. Per SB l'autorita` dell'abate e` intangibile e non ammette opposizione alcuna. Tutto questo appare chiaro e senza alcun dubbio dal testo della RB: l'abate non perde assolutamente nulla della sua autorita`. Bisogna pure notare, pero`, che queste riunioni non possono fare a meno di stimolare l'interesse di tutti per l'andamento del monastero: sono una vera partecipazione al governo del cenobio, anche se la dicisione rimane dell'abate.

Dialogo e spirito di famiglia

I monaci cessano di essere dei minorenni a cui si presenta tutto gia` stabilito e definitivo; sono persone adulte che pensano con la loro testa, hanno idee e convinzioni proprie che l'autorita` deve soppesare e apprezzare. Si instaura cosi` un dialogo generale in cui i monaci si manifestano, si conoscono, formano realmente una comunita`. Quindi questa disposizione di Benedetto di convocare tutti senza eccezione ha un'importanza decisiva per l'instaurazione di autentiche relazioni tra monaci e monaci, e tra monaci e abate, per la formazione di quello spirito di famiglia, caratteristico dei cenobi benedettini.

3: Motivazione spirituale di fede

Il motivo ultimo di questa determinazione e` spirituale. SB non si rifa` a una legge esteriore, come sembra fare la RM (nella RM il consiglio si riferisce solo ai beni materiali e si basa sul principio della proprieta` corporativa: "le sostanze del monastero sono di tutti e di nessuno" (RM.2,48); ma ad una profonda convinzione basata sulla fede: "spesso e` al piu` giovane che il Signore rivela la soluzione migliore" (v.3). SB qui allude certamente al passo di Mt.11,25: "... hai tenute nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli" e pensa a Samuele e a Daniele che giudicarono gli anziani (cf.!Sam.3 e Dan.13), come dira` espressamente in un altro capitolo (RB.63,6). Principio spirituale quindi, ma anche - a pensarci bene - molto umano e psicologico; si tratta di sapere cio` che chiede il Signore a una comunita` in una data situazione e il Signore lo puo` rivelare a uno dei membri meno qualificati (principio spirituale); ma SB sa pure che i monaci giovani in genere hanno maggiore entusiasmo e generosita` e sono liberi da pregiudizi e da interessi personali (principio umano).

4-6: Comportamento dei monaci e dell'abate

Seguono alcune norme pratiche - ed eccellenti - sulla maniera di manifestare il proprio parere: e` il galateo monastico delle riunioni di famiglia. Se SB vuole che l'abate consulti i fratelli, cio` non dispensa questi ultimi dai doveri di umilta` e di rispetto; essi sono chiamati ad esporre il proprio parere e non a farlo prevalere a tutti i costi; quindi sottomissione, umilta`, obbedienza a cio` che l'abate decide alla fine. Troviamo espressioni che richiamano l'atteggiamento da tenersi nell'ufficio divino (RB.20,1) e che si rifanno al vocabolario dell'obbedienza; quella dell'obbedienza e della sottomissione e` in ogni circostanza la strada maestra per i monaci che hanno scelto di "militare sotto la Regola e un abate" (RB.1,2).

Ci si potrebbe chiedere: la RB proibisce di "sostenere ostinatamente" il proprio parere; ma se uno insiste sulla sua idea senza petulanza, con calma e semplicita`, e` lecito o no secondo SB? E` impossibile rispondere con sicurezza> Senza dubbio, l'abate deve tener conto dei consigli che gli si danno; la convocazione dei fratelli non puo` ridursi a una pura commedia; certo, la decisione ultima spetta a lui, ma questa non puo` essere dettata da arbitrarieta`; SB chiede che egli penda dalla parte piu` conveniente, piu` opportuna (v.5) e aggiunge, in una frase solenne, che "se e` doveroso per i discepoli obbedire, altrettanto doveroso e` per il maestro decidere con prudenza e giustizia" (v.6). Abbiamo percio` una botta di qua e una di la`, come appare molto di piu` nel brano seguente.

7-11: Autorita` della Regola

Si enuncia ora un principio assoluto e di portata generale: "In ogni cosa tutti seguano la Regola come maestra e nessuno ardisca temerariamente allontanarsene" (v.7). Qual'e` il significato esatto di un principio cosi` categorico?

Che esso valga sia per i monaci che per l'abate e` indiscutibile. Percio` - ci si domanda - allontanarsi talvolta dal contenuto letterale o anche dal senso della Regola implica necessariamente temerarieta` e bisogna quindi evitarlo ad ogni costo? O non piuttosto a volte si puo` - e talvolta si deve - date le circostanze, prescindere dai precetti della Regola?

In tutti i modi, sembra certo che questa frase, grave e maestosa, piu` che per i monaci (anche per loro, certamente) e` scritta per porre rimedio ad eventuali capricci dell'abate, il quale con ogni probabilita` va considerato incluso in quel "nessuno" del versetto seguente: "nessuno in monastero segua i capricci del proprio cuore" (v.8). In compenso, segue nei vv.9-10 una frase per salvaguardare l'autorita` dell'abate: non discutere insolentemente o altercare sfacciatamente con lui (ma naturalmente in riunione con umilta` e delicatezza si puo` contraddirlo). Poi (v.11) di nuovo un richiamo per l'abate. Come si vede, e` quasi un tira e molla tra i due poli del cenobio: comunita` e abate.

I correttivi dell'autorita` abbaziale sono dunque due: il timore del giudizio divino (rendiconto a Dio, cf. RB.2 e RB.64 piu` di una volta) e la Regola cui anche lui deve sottomettersi.

12-13: Consiglio degli anziani (per cose di minore importanza).

Quando si tratta di minora - "affari di minore importanza, contrapposto a "praecipua" del v.1), l'abate si limita a consultare gli anziani. Per "anziani" non si intende una categoria sociale (cioe` in rapporto all'eta`, anche se essa poteva avere una certa importanza), ma una categoria spirituale; nella RB se ne parla come di coloro che, essendo piu` maturi spiritualmente, piu` formati nella vita monastica, disimpegnano i vari uffici: decani, maestro dei novizi, portinai...; SB conclude con una citazione esplicita della Scrittura (l'unica del capitolo) che in realta` e` composta di due citazioni: Prov.31,3 e Sir.32,34 (ricordiamo l'uso libero che SB fa della Bibbia come uno che ne ha grande familiarita` e cita a memoria): "Fa ogni cosa con il consiglio...", un principio di saggezza umana corroborata dalla Parola di Dio; cosi` il "padre del monastero" utilizza la prudenza e l'esperienza dei fratelli prima di prendere una decisione, in modo che tutti collaborino alla ricerca della volonta` di Dio, che e` l'unica cosa che importa.

 

Conclusione:

In questo capitolo terzo SB riconosce che l'abate ha - come diremmo oggi - un carisma particolare come superiore; ma questo carisma non puo` essere visto al di fuori del contesto di una comunita` viva e di una Regola. In SB notiamo l'insistenza tra diritti e doveri dell'abate (abbiamo visto quasi un tira e molla): non vuole assolutamente limitare il potere dell'abate, che anzi appare nel capitolo piuttosto rinforzato; quanto ai doveri, li propone con una forza nuova; non consistono solo (come per RM) nell'ascoltare tutti, ma l'abate e` invitato a "disporre ogni cosa con prudenza e giustizia" (v.6), ad "agire sempre con timor di Dio e rispetto della Regola" (v.11), pensando al giudizio divino. Queste raccomandazioni denotano un senso nuovo della fallibilita` del superiore. SB cerca di equilibrare e sintetizzare questi tre elementi"

- il carisma abbaziale di guida e maestro;

- il dono del discernimento che ha la comunita`;

- la sapienza accumulata dalla tradizione e codificata nella Regola.

Tutti sono sotto la Regola

Quest'ultimo e` un punto importante: tutti, abate e monaci, sono sotto la Regola; per SB essa e` norma suprema. Senza dubbio il ricorso alla Regola e` in relazione alle difficolta` del momento; pero` c'e` un elemento permanente: in tutti i tempi, e sopratutto in periodi di rilassamento, la comunita` e l'abate non possono avere salvaguardia che il rispetto religioso di una Regola intangibile; un abate non e` niente senza una Regola.

Oggi la materia e` regolata dalle norme canoniche della Chiesa

Per SB il consiglio dei fratelli e` consultivo. Pur conservando questo spirito della costituzione benedettina del monastero, la Chiesa e` intervenuta nel corso dei secoli per eliminare o prevenire abusi e ha limitato in qualche punto e in certe circostanze i poteri abbaziali; cosi` pure per determinati casi ha imposto e reso deliberativo il voto dei monaci. Oggi il Codice di Diritto Canonico e le Costituzioni delle singole Congregazioni fissano delle norme precise per il capitolo di famiglia.


APPENDICE AI CAPITOLI 2, 3, 64:

Excursus sulla figura dell'abate come appare nella RB, e sua applicazione al superiore dei nostri giorni in rapporto alla comunita`.

(Questo "excursus" e` stato rifuso e pubblicato in Inter Fratres 35 (1985) 1-29: L.SENA, La figura dell'abate nella RB e problemi attuali. Applicazione ai superiori delle comunita` silvestrine

 




Introduzione ai

CAPITOLI 4-7: Sezione ascetica

La Regola non e` un trattato di teologia ascetico-mistica e quindi in essa non si possono cercare grandi disquisizioni sulle virtu`, sui vizi, sulla preghiera e la contemplazione. S.Benedetto per queste cose rimanda a:

1. Sacra Scrittura

2. Padri della Chiesa

3. Scrittori monastici (RB.73,2-6)

Pero` un "corpus ascetico" propriamente detto, considerato dalla tradizione come base e fondamento della spiritualita` benedettina, lo forma un gruppo di quattro capitoli dedicati interamente a esporre una serie di linee ascetiche e una dottrina sopra alcune virtu` considerate come fondamentali per la vita del monaco:

a) Cap. 4: Gli strumenti delle buone opere;

b) Cap. 5: L'obbedienza;

c) Cap. 6: L'amore al silenzio;

d) Cap. 7: L'umilta`.

Il capitolo 4 e` un lungo elenco di massime morali molto brevi; a un esame anche superficiale appare che buona parte, sia dei termini che del contenuto dottrinale, si ritrova nei capitoli 5-6-7, con i quali forma una unita` letteraria, li prepara e in un certo senso ne anticipa la dottrina.

Si e` parlato giustamente di "trilogia benedettina", cioe`: Obbedienza, Taciturnita`, Umilta`. Ma sarebbe errato considerare queste tre virtu` basilari dell'ascetismo monastico su uno stesso piano. "L'umilta` - ha scritto DeVogue` - e` la madre dell'obbedienza e della taciturnita`; obbedienza e taciturnita` sono due modalita` di uno stesso comportamento di sottomissione; nei due casi il superiore e` considerato sotto due aspetti differenti: l'obbedienza rende omaggio ai suoi ordini, la taciturnita` ai suoi insegnamenti. Legando insieme obbedienza e taciturnita` in forza dell'ascolto che il loro momento comune, ritroviamo l'idea della loro filiazione dell'umilta` (idea che e` propria di Cassiano): significa dare prova di umilta` mortificare la propria volonta` e sottomettersi all'anziano, trattenere la lingua e moderare la voce."

E difatti nel capitolo 7 della RB, nella scala dell'umilta`, l'obbedienza e` il tema piu` rilevante dei quattro primi gradini, mentre la taciturnita`, gia` presente nel quarto gradino, e` materia propria dei gradini 9, 10 e 11. Possiamo dunque dire che l'obbedienza e` l'umilta` nell'agire, la taciturnita` e` l'umilta` nel parlare: l'una e` pronta ad agire, l'altra lenta a parlare.

Abbiamo dunque la trilogia propriamente monastica: Obbedienza - Taciturnita` - Umilta` (capitoli 5-6-7). dopo il capitolo 4 sulle buone opere, che ha un carattere piu` universale.

 


CAPITOLO 4

Quali sono gli strumenti delle buone opere.

Quae sunt instrumenta bonorum operum.

 

Preliminari

Il capitolo ha una fisionomia particolare: e` tutta una serie di precetti brevi, quasi sempre formulati secondo il medesimo schema, che i monaci potevano imparare a memoria (procedimento usato anche per i catecumeni quando si preparavano al battesimo, fino ai nostri catechismi di qualche anno fa). Questo genere di insegnamento sotto forma di proverbi fu molto amato dai cristiani e dai monaci antichi. Si ricordino: i "Monita" dell'abate Porcario, le "Sentenze' di Evagrio Pontico, talche` alcuni credono che SB abbia preso un elenco che andava in giro per i monasteri e lo abbia tramandato nella Regola.

Dipendenza dalla RM

La fonte piu` immediata e` dunque la RM (il DeVogue` ha individuato una fonte comune per RM e RB: la Passio Juliani, un documento del VI secolo o forse anche del IV-V). La RM tratta della "ars sancta" <arte santa> nei capitoli 3-6 che fanno da collegamento tra il capitolo 2 sull'abate e i capitoli 7-10 sulle grandi virtu` monastiche dell'obbedienza, della taciturnita` e dell'umilta`.

Il capitolo 3 viene presentato come un vademecum personale dell'abate nell'istruire i suoi discepoli, e contiene un elenco di strumenti tratti dalla morale cristiana senza alcun elemento prettamente monastico. RM.4 contiene una lista di virtu`, RM.5 una lista di vizi, RM.6 descrive l'officina e il modo di impiegare gli strumenti. La RB consacra un solo capitolo - RB.4 - alla "arte spirituale" al posto dei quattro della RM, praticamente riproduce il capitolo 3 e 6 della RM.

Il titolo del capitolo 4 di RB

SB non parla di "ars sancta", ma di Instrumenta bonorum operum <Strumenti delle buone opere>, dando a "instrumenta" il significato comune di arnese, strumento di lavoro, naturalmente con valore metaforico per l'arte spirituale che esercita i monaci nella perfezione. Questi "arnesi" non sono altro che delle sentenze che indicano le buone opere da compiere per raggiungere la perfezione della vita cristiana o, se si vuole, sono le stesse opere buone imposte o consigliate. Alla fine del capitolo (v.75) sono chiamati con piu` precisione instrumenta artis spiritalis <utensili per l'arte spirituale>, arte che deve intendersi nel giusto senso di un metodico e specializzato complesso di lavoro e di esercizi per conquistare la carita` perfetta (come e` detto nella scala dell'umilta` RB.7,67), cui seguira` la ricompensa escatologica, qui espressamente richiamata (vv.76-77).

Differenze tra RB e RM

Le differenze tra RB e RM, a prima vista non sono molte. Tuttavia S.Benedetto mostra una certa tendenza ad abbreviare (gli strumenti sono 77 in RM, 74 in RB; i versetti totali del capitolo sono 95 in RM, 78 in RB). Le aggiunte di SB sono poche e per questo molto significative; alcune rappresentano una sottolineatura di preoccupazioni tipiche di SB, cosi` per il 40mo contro la calunnia e il 69mo sull'importanza dell'umilta`; cosi` alcuni aggiunti sull'obbedienza. SB ha poi la tendenza a radicalizzare certi precetti e a rendere piu` "monastici" certi precetti che in RM hanno un carattere piu` "laico". Inoltre SB si mostra sensibile al tema dei rapporti reciproci (vv.70-73) sottolineando la "dilectio" e l'"amor" come atteggiamenti da tenere sia reciprocamente sia nei confronti di Dio. Molto importante e` notare che in RM tutto il capitolo e` compreso in una inclusione principale:

v. 1: "Primo: credere, confessare e temere Dio;

v.83: "... che e` preparato ai santi e a coloro che temono Dio".

RB sostituisce cosi`:

v. 1: "Primo: amare Dio..."

v.77: "... che Dio ha preparato a coloro che lo amano.

Ne risulta quindi che la "ars" in SB non trova piu` la sua sintesi e il suo significato fondamentale nel timore verso Dio, ma nell'amore. Questo era il

pensiero di SB, sopratutto se si tiene presente l'altra importante modifica introdotta al termine del trattato sull'umilta`: la carita` perfetta come fine dell'ascesi monastica.

 

Struttura del capitolo

Il capitolo consta di tre parti, molto asimmetriche:

- contiene anzitutto un catalogo di 74 "strumenti delle buone opere" che, senza alcun preambolo, inizia con il primo precetto della carita` e termina con quello di non disperare mai della misericordia di Dio (vv.1-74);

- segue, a mo' di conseguenza, la presentazione della "paga" (ricompensa) che ricevera' chi avra` adoperato tali strumenti incessantemente, "giorno e notte" (vv.75-77);

- e infine, con una sola frase, si indica in quale "officina" si debbano adoperare questi "arnesi" (v.78).

Fonti

Moltissimi dei precetti appartengono alla vita morale comune di tutti i cristiani, perche` la perfezione cercata attraverso i consigli evangelici suppone quella comune dei precetti. La maggior parte delle sentenze sono prese dalla S.Scrittura; altre dagli scritti dei Padri della Chiesa; altre dagli Autori monastici; altri ancora dalla Passio Juliani (citata sopra) e qualcuna da autori profani.

Valore diverso

Il valore di queste massime e` il piu` vario, andando da cose essenziali (amore di Dio e amore del prossimo), ad altri aspetti piu` secondari della vita spirituale (es. non essere dormiglione). Tra le piu` alte e le inferiori, c'e` tutta una gamma di valori intermedi.

E` difficile stabilire un ordine logico: in realta` non esiste alcun ordine. E` possibile raggrupparle in vari gruppi secondo uno stesso argomento o una stessa ispirazione biblica. Vediamo le suddivisioni, che sono comunque approssimative.

 

PRIMA PARTE: vv.1-74. Gli strumenti.

1-9: il decalogo

Iniziano la lista i due grandi comandamenti: amare Dio e amare il prossimo (vv.1-2). Seguono gli altri precetti del decalogo con una importante variante (v.8): invece di "onorare il padre e la madre", per i monaci che hanno lasciato i parenti abbiamo: "onorare tutti gli uomini, ispirata a 1Piet.2,17 che e` un precetto di ospitalita` richiamato da SB nel capitolo sull'accoglienza degli ospiti (RB.53,2). Questa prima sezione si chiude con la regola d'oro ("non fare ad altri..." del v.9) la cui formulazione, in forma positiva, e` nel Vangelo (Mt.7,12; Lc.6,31), mentre in forma negativa e` in Tobia 4,16.

10-19: Rinunzia a se stesso e opere di misericordia

Con il 10mo strumento siamo in pieno Vangelo: la rinunzia a tutto per seguire Gesu` (Mt.16,24; Lc.9,23); forse il richiamo di tale sentenza dopo il decalogo e` dovuto al passo di Mt.19,16ss: "va`, vendi ... e seguimi". Poi, dopo l'esplicitazione della mortificazione corporale (vv.11-13), si passa alle opere di misericordia, collegamento molto naturale per gli antichi, dato che il digiuno era sempre legato all'elemosina: "ama il prossimo" implica necessariamente "ristorare i poveri".

20-21: Odiare il mondo, amare Cristo

Questi due versetti (con richiamo al v.10) riassumono tutto il lavoro di ascesi proposto al monaco: la vita monastica come sequela di Cristo; quindi estraniarsi in un certo senso dalle altre cose per mettere Cristo al primo posto. Nel v.20 possiamo vedere un'allusione a Giac.1,27 o forse anche a Rom.12,2. Che cosa sono questi acta saeculi <costumi del mondo>? Forse i gesti contrari ai comandamenti divini ("mondo" in Giovanni e` tutto un complesso di uomini, cose, mentalita` che si oppone a Dio) o, forse, tutto cio` che non e` secondo l'umilta` e l'obbedienza monastica: l'amore per gli onori, il mettersi in mostra, il parlare troppo, ecc.

Il v.21 e` molto importante, in quanto ripreso in RB.72,11 (tipico di SB) e a proposito dell'ufficio divino in RB.43,3 (pure proprio di SB. Cf anche RB.5,2): e` il giudizio di valore che il monaco e` tenuto a dare, in base al quale conformare la propria esistenza concreta: nulla vale di piu` dell'amore di Cristo e del suo servizio, percio` nulla puo` essergli anteposto.

22-23: Mansuetudine e sincerita`

Abbiamo una serie di massime riguardanti la convivenza fraterna per il mantenimento delle buone relazioni e sopratutto perche` il monaco conservi la puritas cordis, la pace, mortificando il proprio appetito irascibile; sono tradizionali nella dottrina spirituale monastica. I vv.22-23 significano: "non mettere in esecuzione quanto si desidera fare al momento dell'ira". S.Girolamo avvertiva: "Adirarsi e` dell'uomo, non dare sfogo all'ira e` del cristiano" (Epistola 79,9) e anche: "Adirarsi e` dell'uomo, porre fine all'iracondia e` del cristiano" (Epistola 130,1).

34-40: Vizi da evitare

Abbiamo una serie di sette sentenze negative ispirate - eccetto il v.37 "non essere sonnolento" - agli ammonimenti di S.Paolo in 1Tim.3,3ss, e Tito 1,7ss (cf.Rom.12,11).

41-43: Retto giudizio di se'

Questi strumenti esprimono sopratutto la capacita` di giudizio su di se' e sul valore delle proprie opere. Il monaco deve essere tanto intelligente da saper attribuire a Dio il merito delle proprie opere buone, con chiarezza e semplicita`: e` una anticipazione del giudizio escatologico di cui nei versetti seguenti. La fonte e` S.Agostino (Discorso 96,2).

44-47: Novissimi

Il programma ascetico si realizza ell'esercizio del timor di Dio. Il giudizio divino (v.44), l'inferno (v.45), la vita eterna (v.46), la morte (v.47) sono realta`, verita` eterne che bisognava aver costantemente di fronte agli occhi. Per cui il monaco deve esercitare continuamente la vigilanza su se stesso.

48-54: Custodia di se'

La presenza di Dio che ci guarda "in ogni luogo" (v.49) fara` si` che "in ogni momento" custodiamo la nostra vita (v.48), che spezziamo contro la roccia che e` Cristo i cattivi pensieri e li manifestiamo al padre spirituale (v.50). In tal modo la vita del monaco acquista una serieta` e una gravita` per cui non solo si evitano "le parole cattive e scorrette" (v.51), ma si cerca di "non parlare molto" (v.52), di non dire buffonerie (v.53), di ridere smodatamente (v.54). Troveremo tutto questo sopratutto nel 1^ gradino dell'umilta` (RB.7).

50: i cattivi pensieri...: questo versetto, che richiama l'espressione di Prol.28, riassume magistralmente tutta l'essenza del metodo del combattimento interiore o "guerra invisibile" dei Padri del Deserto. Il "padre spirituale" non e` qui necessariamente l'abate; nel monastero ci possono essere altri anziani spirituali adatti e disposti ad aiutare i fratelli (cf.RB.46,5).

55-58: spirito di preghiera e di compunzione

Contro la dissipazione, per la custodia di se`, giova sommamente l'amore alla preghiera (v.56) - si intende qui quella privata (Lc.18,1; 1Tess.5,17: "pregate senza interruzione") - le letture sante (v.55), il costante ricordo dei propri peccati con lacrime e gemiti (v.57) con l'impegno di emendarsi (v.58) (cf. Cassiano, Collazioni 9,36; 20,6-7).

La compunzione del cuore, il sentimento della propria indegnita` di peccatore e` inculcato da SB come disposizione abituale del monaco: e` il 12mo grado di umilta` del capitolo 7.

59-64: Sottomissione della carne e dello spirito

Dopo una citazione di Gal.5,16 che richiama la lotta della carne contro lo spirito ("desideri della carne" sono tutte le tendenze disordinate, v.59), si torna ad insistere sulla necessita` di "odiare la propria volonta`" (v.60) per obbedire in tutto ai precetti dell'abate, uomo virtuoso senza dubbio, ma sempre uomo e soggetto lui pure alla legge del peccato, per cui potrebbe essere che la sua vita non corrisponda alla sua dottrina; in tal caso bisogna obbedire lo stesso, ricordando la parola del Signore a proposito degli scribi e dei farisei (v.61).

Pero` la coerenza tra il dire e il fare non vale solo per l'abate, ma per tutti: ecco allora il curioso aforisma del v.62 ("non voler essere ritenuto santo prima di esserlo, ma prima esserlo perche`...", tratto dalla Passio Juliani 46) per avvertire che non diventiamo noi ipocriti come i farisei. La coerenza richiama ancora la necessita` dei fatti, delle opere nell'adempimento dei comandamenti di Dio (v.63). Chiude la serie quel sobrio e modesto Amare la castita` (v.64), unico luogo dove SB fa esplicita menzione di tale virtu`; ma questa allusione discreta e` tutto un poema in quell'amare la castita`.

65-73: Amore fraterno

Si torna ad insistere sull'amore fraterno con cinque precetti negativi (vv.65-69) e quattro positivi (vv.70-73). Tra questi ricordiamo il 70 e il 71, raccomandazioni piene di umanita` che ritroveremo di nuovo in RB.63,10 sui rapporti tra le varie generazioni che convivono in monastero. Il v.73 dipende chiaramente da Efes.4,26: "non tramonti il sole sopra la vostra ira".

74: Fiducia nella misericordia del Signore

Il lungo catalogo termina con un atto di fede illimitata nella bonta` divina: solo nella consapevolezza e speranza della misericordia di Dio e` possibile intraprendere il "lavoro" delle buone opere; se il monaco esprimente le difficolta` e forse l'impossibilita` di questo lavoro deve essere pero` certo dell'aiuto di Dio. E` notevole il fatto che mentre RM ha "e non disperare di Dio", Benedetto preferisce "e della misericordia di Dio non disperare mai", sottolineando cosi` che l'aiuto viene dall'amore di Dio.

 

II.PARTE: vv.75-77:

75-77: la "paga" per l'uso degli strumenti

Dopo aver, senza alcun preambolo, enumerati tutti gli strumenti, SB conclude offrendoli come utensili di un'arte: devono essere maneggiati, usati, adoperati assiduamente, "notte e giorno": si noti con qual vigore si indica la continuita` del lavoro ascetico; e` un lavoro che non ammette riposo ne` ferie, solo la morte temporale vi pone fine. E allora il monaco, da bravo operaio (Prol.14; RB.7,70), riconsegna gli strumenti e riceve il dovuto salario per il lavoro eseguito. E qual'e` la paga? In realta` non la conosciamo esattamente, ne` possiamo conoscerla. La RM, secondo il suo stile eccessivo e un po' barocco, indugia a questo punto su un'ampollosa descrizione delle delizie del paradiso (terra risplendente, acque abbondanti, rive ricoperte di fiori e frutti, suoni e canti, ecc...), ispirandosi alla apocrifa "Visio Pauli" (RM.3,84-94). Con sobrieta`, SB si limita a citare il testo paolino di 1Cor.2,9: la ricompensa e` al di sopra di quanto possiamo concepire ed immaginare.

 

III.PARTE: v.78

78: la "officina" per l'uso degli strumenti

Al termine del capitolo SB ci dice qual'e` l'"officina" in cui lavorare. La definizione dell'officina contiene due elementi: il recinto del monastero e la stabilita` nella famiglia monastica.

Claustra monasterii non significa qui "chiostri" nel senso architettonico, ma "recinto", "clausura" del monastero, cioe` tutto lo spazio della proprieta` del monastero, indica quindi l'ambito materiale dove si esercita l'arte spirituale. Invece "l'ambito, il clima umano e religioso, e` dato dall'altra espressione "stabilitas in congregatione" <stabilita` nella famiglia monastica>, cioe` l'appartenenza ad una comunita`, la permanenza e la perseveranza in essa. Si sa quanto SB tenga alla "stabilita`" (contro sarabaiti e girovaghi, cf. capitolo 1).

Questa caratteristica del monastero nella concezione di SB fu colta con precisione da Dante che nella Divina Commedia fa dire al santo Patriarca (Paradiso 22,50-51):

""qui son li frati miei che dentro ai chiostri

fermar li piedi e tennero il cor saldo.""

Nella nostra Congregatione, tuttavia (come per altre, sorte nel medioevo), il concetto di stabilita` e` piu` ampio, anche se si cerca di conservare stabili le singole comunita`.

CONCLUSIONE: visione della vita monastica

Ecco la visione della vita monastica come appare dal "catechismo" in forma di massime che e` il capitolo 4 della RB: il monaco e` l'operaio di Dio (Prol.14; RB.7,49.70) che, nell'officina del monastero, in compagnia e in comunione con gli altri operai che formano la sua famiglia religiosa, fatica notte e giorno in un lavoro interamente spirituale - <l'arte spirituale> del v.75 - maneggiando strumenti spirituali che sono le virtu`, sperando e fidando della grazia e della misericordia del suo Signore che, nel giorno benedetto in cui riconsegnera` gli attrezzi, possa ricevere la ricompensa delle sue fatiche: "Cio` che occhio non ha mai visto, ne` orecchio mai udito, ne` mai entrato in cuore di uomo: questo, Dio ha preparato per coloro che lo amano" (1Cor.2,9).




CAPITOLO 5

L'obbedienza.

De oboedientia.

 

Preliminari

In tutte le lingue il concetto di obbedienza deriva da "audire" e significa sempre la "disposizione ad ascoltare l'altro e a fare la sua volonta`": ascoltare e obbedire derivano dalla stessa radice etimologica. In latino abbiamo ob-audire <ascoltare> e ob-oedire <obbedire>: vocaboli vicinissimi che nella letteratura cristiana sono in relazione con la radice ebraica "shema`", il cui significato e` primariamente "ascoltare" e in secondo luogo "obbedire".

La tradizione biblica: nel VT...

La religione ebraica si riassume essenzialmente in questo concetto di obbedienza: ascoltare Dio e compiere i suoi desideri. Era la religione dell'obbedienza alla rivelazione di Dio; il culto di Dio consisteva essenzialmente nell'obbedienza (cf. ad esempio !Sam.15-22) e l'essenza del peccato nella disobbedienza alla volonta` di Dio manifestata nei comandamenti, nella Legge e nei Profeti.

...e nel NT

Nel NT appare con grande evidenza il valore essenziale dell'obbedienza. La vita di Gesu`, come la presentano i Sinottici e come la interpretano S.Giovanni e S.Paolo, non e` altro che la storia di un'obbedienza totale alla volonta` del Padre attraverso il cammino della passione, della croce, della morte ignominiosa: Gesu` accetta tutto pienamente per pura obbedienza al Padre. L'intera esistenza di Gesu` si riduce ad una totale conformita` alla volonta` del Padre: "Mio cibo e` fare la volonta` di colui che mi ha mandato" (Giov.4,34); Gesu` non e` venuto per fare la sua volonta`, ma quella del Padre (Giov.6,38); Egli non parla per iniziativa propria, ma il Padre parla in lui (Giov.3,44); per questo chi vede lui vede il Padre (Giov.14,9-10).

Per il cristiano non basta in effetti accogliere il messaggio di Gesu`, bisogna conformarsi alla volonta` del Padre, come Gesu` la manifesta "non chiunque mi dice: Signore, Signore..., ma chi fa la volonta`..." (Mt.7,21): il vero discepolo di Gesu` compie la volonta` del Padre. Il valore cristiano dell'obbedienza e` posto in rilievo sopratutto da S.Paolo: tutta l'opera salvifica di Gesu` si riassume, secondo Filippesi 2, nella sua morte come atto di obbedienza al Padre, in contrapposizione alla disobbedienza di Adamo. L'obbedienza di Gesu` e`, per S.Paolo, il fondamento della salvezza (Rom.1,19); la fede e` l'obbedienza alla predicazione del messaggio di salvezza (Rom.10,16; 2Cor.7,15; 2Tess.1,8); il cristiano e` l'uomo che obbedisce al Vangelo di Nostro Signore Gesu` Cristo (2Tess.1,18).

La tradizione dei Padri e degli scrittori monastici

L'obbedienza occupa quindi, senza dubbio, una posizione-chiave nella storia divina della salvezza. I Padri della Chiesa non cessarono di segnalarlo con grande insistenza. Ma questa idea incontro` un'eco straordinaria soprattutto tra i monaci a cominciare dalle prime generazioni. In effetti i Padri del Deserto, ammaestrati dalla loro esperienza, erano giunti a due conclusioni: primo, che senza il rinnegamento di se` non si giunge a una vera adesione alla volonta` di Dio; secondo, che il rinnegamento consiste essenzialmente nella rinuncia alla propria volonta`, "muro di bronzo - a dire dell'abate Poimene - che separa l'uomo da Dio" (Apophtegmata, Poimene 54). I testi monastici trattano di continuo questo tema sotto tutti gli aspetti:

- obbedire a Dio;
- obbedire alla Scrittura;
- obbedire ai Padri del monachesimo;

- obbedire ai fratelli e, in particolare,
- obbedire al proprio anziano spirituale, se si vive come anacoreta, o
- obbedire al superiore e alla regola, se si vive come cenobita.

In tal modo si ando` elaborando a poco a poco una teoria e in pratica il concetto dell'obbedienza religiosa. Si suole distinguere un'obbedienza ascetica o educativa (piu` specifica degli eremiti) e un'obbedienza funzionale o sociale al servizio della comunita` (propria dei cenobiti). In realta` i due aspetti sono complementari: l'obbedienza ascetica e` necessaria per realizzare l'obbedienza funzionale nella maniera piu` perfetta possibile; l'obbedienza sociale, poi, ha sempre un aspetto ascetico ed educativo. In ogni caso, i legislatori monastici del cenobitismo (Pacomio, Basilio, ecc.) non si mostrano meno esigenti, riguardo all'obbedienza, dei Padri spirituali degli eremiti. S.Basilio richiede un'obbedienza universale e senza condizioni.

L'obbedienza nella RB

Quanto detto sopra e` il fondo biblico e monastico in cui situare il concetto di obbedienza nella RB. SB ne parla nell'ambito della dottrina ascetica, la dottrina dell'obbedienza viene cioe` riportata alla scala dell'umilta` nel contesto dell'itinerario ascetico proposto ai monaci. Nel capitolo 5 si tratta in senso proprio dell’obbedienza al superiore; ci sono poi altri due capitoli che trattano specificamente dell'obbedienza: RB.68 (L'obbedienza nelle cose impossibili) e RB.71 (L'obbedienza reciproca). Ma dell'obbedienza se ne parla con frequenza, dal principio del prologo all'epilogo; ricordiamo che per SB l'obbedienza e` il cammino attraverso cui si ritorna a Dio (Prol.2). Incontestabilmente nella RB l'obbedienza costituisce l'asse dell'itinerario monastico.

STRUTTURA del capitolo 5

Il capitolo 5 della RB riassume molto il lungo capitolo 7 della RM, ma non lascia alcuna delle tre parti costitutive:

- obbedienza pronta e sue motivazioni: RB.5,1-10 (RM.7,1-21);

- descrizione dell'obbedienza e motivazione biblica principale (la "via stretta" con l'esempio di Cristo): RB.5,10-13 (RM.22-66);

- qualita`, sopratutto interiori, dell'obbedienza: RB.5,14-19 (RM.7,67-74).

1-6: Obbedienza pronta e sue motivazioni

Il v.1 sembrerebbe in contraddizione con il capitolo 7. Ma qui non si parla di gradino nel senso di una serie come nel capitolo 7, "primo" qui significa "il principale" o piu` perfetto, o ancora - come spiega DeVogue` - "primo nel tempo", "fondamentale" dal punto di vista della pedagogia monastica. Quindi la frase "primus humilitatis gradus" del v.1 si puo` tradurre: "Il principio dell'umilta`", "la manifestazione piu` evidente dell'umilta`" e simili. Questa nozione del primato (nel senso spiegato) dell'obbedienza nella formazione cenobitica e` unanime nella tradizione monastica.

obbedienza senza indugio <sine mora>

E' il carattere piu` evidente della vera obbedienza e SB vi insiste per tutta la prima parte del capitolo.

2: motivo fondamentale: l'amore di Cristo

L'amore di Cristo balza evidentemente come il motivo fondamentale e il piu` nobile per obbedire. L'idea non e` nuova: il monaco impugna le gloriose armi dell'obbedienza per militare sotto Gesu` Cristo vero Re (Prol.3). Si ricordino anche gli strumenti 10 e 21 del capitolo 4. Evidente anche il richiamo nella struttura grammaticale al "Niente anteporre all'amore di Cristo" di RB.4,21 e al "Nulla assolutamente antepongano a Cristo" di RB.72,11.

2-3: altri motivi...

Possono pero` esserci altri motivi meno elevati anche se validi e la RB li enumera: il servizio santo a cui si sono consacrati, il timore dell'inferno, il desiderio della vita eterna; ma in tutti e tre questi motivi e` sempre supposto e incluso il primo, quello dell'amore integrale a Cristo, da cui il monaco non puo` prescindere.

4-9: prontezza, rapidita`, simultaneita`...

SB descrive, accumulando molte espressioni, l'atteggiamento fedele del monaco e la prima caratteristica dell'obbedienza: prontezza come dinanzi a un comando di Dio, rapidita', quasi simultaneita` tra l'ordine del superiore e l'esecuzione del discepolo. "Lasciando incompiuto...". Cassiano avverte che al segnale dell'orazione e del lavoro si interrompeva anche una lettera dell'alfabeto gia` iniziata (Inst.4,12).

10-13: descrizione dell'obbedienza cenobitica

Bello il v.10: quibus ad vitam aeternam gradiendi amor incumbit: tanta perfezione d'obbedienza e` un bisogno e una gioia dell'anima perche' incombe, incalza (questo e` il senso del verbo latino) l'amore per la vita eterna di cui si diceva negli strumenti delle buone opere "desiderarla con tutto l'ardore spirituale" (RB.4,46).

Segue una descrizione breve ma abbastanza completa e precisa dell'obbedienza cenobitica. La Regola viene paragonata alla "strada stretta" (v.11) di cui si parla nel discorso della montagna (Mt.7,14); poi si definisce l'obbedienza prima al negativo, poi al positivo. Negativamente e` rinunciare alla volonta` propria: "non vivono secondo il proprio capriccio personale" e "non obbediscono ai desideri e gusti propri" (v,12). Le espressioni richiamano due strumenti delle buone opere: RB.4,59 e 60. Positivamente l'obbedienza e`:

- camminare secondo il giudizio e la volonta` di un altro;

- passare la vita in monastero;

- desiderare di essere sottomessi a un abate;

- si imita in tal modo il Signore che disse di se stesso: "Non sono venuto a fare la mia volonta`, ma la volonta` di colui che mi ha mandato (Giov.6,38).

Il primo elemento corrisponde al 61mo strumento delle buone opere e, insieme al secondo (stabilita` in monastero, RB4,78), caratterizza i cenobiti che "vivono in monastero militando sotto una Regola e un abate" (RB.1,2).

Il terzo elemento vuole indicare il carattere libero e volontario dell'obbedienza su cui si insistera` in seguito; la Regola dice altrove che l'obbedienza e` un bene (RB.71,1) e pertanto desiderabile (ma qui SB dice che "desiderano essere sottomessi"!). Tutto cio` proviene dal quarto elemento messo sopra, che riassume, concludendola, questa parte del capitolo: l'imitazione di Cristo.

14-19: altre disposizioni dell'obbedienza

La Regola insiste sulle qualita` che deve avere l'obbedienza cenobitica per essere veramente gradita a Dio e "dolce agli uomini". Quest'ultima espressione e` un tocco sapiente e amorevole di umanita` e finezza psicologica del santo Patriarca. Anche per il superiore dare un ordine non e` sempre facile: riesce percio` di conforto per lui incontrare un'obbedienza sollecita e sorridente. Dunque si obbedisca senza esitazione o ritardo - si raccomanda ancora la celerita` - o svogliatezza oppure con mormorazioni o proteste (v.14), ma volentieri e serenamente, perche` "Dio ama chi dona con gioia' (v.16).

Di buon animo: parole importanti che devono penetrare nell'animo del monaco. "Dio guarda nel profondo del cuore" (v.18); obbedire esteriormente non basta, se l'atto non e` accompagnato dalla buona volonta` profonda e sincera di chi obbedisce: l'obbedienza si deve interiorizzare.

17-19: la mormorazione

Tra tutti i difetti che annullano il valore dell'obbedienza, il peggiore e` il vizio della mormorazione. SB ne ha un'avversione particolare, sia essa esteriore o solo interiore, e dice che i mormoratori incorreranno nella pena prevista (v.19). Certo, questa nota finale, redatta sullo stile del codice penale, suona un po' strana in questo capitolo di pura spiritualita`; perche` e` chiaro che qui non si parla del giudizio di Dio, ma della disciplina regolare contro la mormorazione. Senza dubbio la clausola stona. Ma SB era un "uomo pratico secondo Gesu` Cristo".




CONCLUSIONE

Possiamo individuare nel capitolo due motivazioni principali per l'obbedienza monastica:

- motivazione ascetica (rinunzia a se stesso, alla propria volonta`, ai propri gusti);

- motivazione sopratutto teologica (obbedire per amore di Cristo).

Dai testi biblici del capitolo 5 appare la figura di Cristo:

* come colui al quale si obbedisce (Lc.10.16 citato nel v.6 e nel v.15)

* e come colui che si imita nell'obbedire (Giov.6,38 citato nel v.13).

In altre parole: Cristo e` rappresentato

- una volta nell'abate che ordina

- e una volta nel monaco che obbedisce.

Ecco i due aspetti che risultano dai due testi evangelici:

* obbedire come Cristo e

* obbedire come a Cristo.

Ambedue gli aspetti dell'obbedienza - comandare e obbedire - hanno il fondamento ultimo in Gesu` Cristo.

L'abate non potrebbe esigere un'obbedienza assoluta senza essere autorizzato da Gesu' (di cui fa le veci in monastero, RB.2,2); e d'altra parte l'obbedienza e` cristologica in quanto ispirata dall'amore a Cristo (RB.5,13)

""Cristo, di conseguenza, appare sia come Maestro che come discepolo, poiche` di fatto egli e` nel medesimo tempo, inseparabilmente, il Verbo che legifera e il Servo che si umilia. Cosi` in questa relazione monastica fondamentale, Cristo e` rappresentato nella sua esistenza drammatica e nelle sue dimensioni totali: la sua sovranita` divina e la sua umiliazione fino all'estremo..., una cosa non esiste senza l'altra. E la gloria e la genuinita` sublime del monachesimo e della sua teologia viva sta proprio in questa rappresentazione drammatica, o meglio sacramentale, della Persona e della vita di Cristo.""

(H.U. Von Balthasar)




CAPITOLO 68

Se a un fratello vengono comandate cose impossibili.

Si fratri impossibilia iniungantur.

 

Preliminari

Questo capitolo, uno dei piu` belli di tutta la Regola, fa parte della serie degli ultimi capitoli (67-73) propri di SB, i quali - secondo Delatte - possono considerarsi il testamento spirituale del santo Patriarca e sono interamente immersi nella luce di Dio e impregnati della sua dolcezza; e - secondo De Vogue`, di altra generazione e di altra scuola - il capitolo 68 uno dei passi piu` caratteristici e piu` preziosi della RB; dopo tanti commenti conviene fermarsi ad ammirare la sua dottrina tanto ferma e insieme tanto armoniosa, tanto soprannaturale e insieme tanto umana.

SB torna ad occuparsi dell'obbedienza sino alla fine della sua Regola. Non si tratta di una ritrattazione o rettifica di certe cose, come potrebbe dirsi in qualche modo del capitolo 64 rispetto al capitolo 2 per quanto riguarda l'abate (cf.sopra, relativo commento); si tratta invece di una appendice, di una precisazione molto interessante.

Diversita` dal capitolo 5

Ci troviamo di fronte a una caso estremo di obbedienza: come deve reagire in situazioni difficilissime il monaco desideroso di obbedire? A risolvere la questione ci si presenta un autore con un linguaggio e una mentalita` certamente diversi da; capitolo 5; o non e` la stessa persona o e` talmente maturata in eta`, esperienza, saggezza da non sembrare la stessa. Si puo` dire, giustamente, che nel capitolo 5 l'obbedienza e` messa a fuoco dal punto di vista dell'abate, mentre nel capitolo 68 dal punto di vista del discepolo. Tuttavia cio` non e` sufficiente ad eliminare la distanza tra i due capitoli: nel primo una dottrina austera, esigente, teorica; nel secondo un insegnamento altrettanto soprannaturale e in fondo anche piu` esigente, pero` nello stesso tempo pieno di umanita`, di comprensione, di finezza psicologica. E` veramente una perla tra le piu` fini della RB, un capitolo meraviglioso non solo sotto l'aspetto dottrinale, ma anche letterario.

Fonti

Non si trovano paralleli del capitolo 68 in quanto tale; niente del sapere e della mentalita` del capitolo nella RM secondo la quale l'obiezione del fratello ad accettare ed eseguire immediatamente un ordine, merita subito la scomunica e la pena (RM.57,14-16). Si possono tuttavia considerare i seguenti testi: la Regola di S.Basilio 69; Pseudo-Basilio: Ammonizione al figlio spirituale 6; S.Cesario di Arles: Discorso 233,7; e sopratutto Cassiano: Istituzioni 4,10. Quest'ultimo, a proposito di monaci obbediente, aggiunge che essi "non solo ricevono con fede e devozione comandi umanamente impossibili, ma si sforzano anche di adempierli senza alcuna esitazione del cuore, non misurando l'impossibilita` per riverenza e sottomissione al loro seniore". Probabilmente questo passo, con il richiamo alle cose impossibili, avra` ispirato SB; ma in esso manca completamente il processo psicologico-pedagogico, meravigliosamente descritto nel capitolo 68 della RB.

 

STRUTTURA di RB.68

Il capitolo non presenta difficolta` d'interpretazione; basta leggerlo e seguirlo parola per parola. E` come un piccolo dramma, piccolo per durata ma grande per intensita` e profondita`, in tre atti:

I. - il monaco riceve un ordine estremamente difficile e lo accetta con perfetta docilita` e sottomissione (v.1);

II. - se, soppesato il tutto, vede che sembra superare le sue forze, il monaco e` autorizzato a presentare le ragioni della sua impossibilita` (vv.2-3);

III. - se il superiore non cambia parere, il monaco sappia che gli conviene obbedire e obbedisca (vv.4-5)

 

1: Il caso difficile

Nonostante la prudenza e la discrezione raccomandata da SB all'abate (specie nel capitolo 64), nonostante la retta intenzione del superiore di dare ordini ragionevoli, puo` anche avvenire che il comando appaia insopportabile.

gravia aut impossibilia: significa qualcosa di difficile o addirittura di impossibile.

difficile: significa "troppo pesante per le proprie forze".

impossibile: non nel senso in cui allude Cassiano nel testo citato sopra (Ist.4,10), cioe` di cose che il superiore stesso conosce impossibili e comanda solo per provare il monaco e distruggere ogni attaccamento alla propria volonta`, ma nel senso che paiono impossibili a chi li riceve. Si puo` notare inoltre che spesso una cosa sembra impossibile solo finche` non la si fa. SB vuole che all'inizio, anche in casi cosi` ardui per la debolezza umana, si riceva l'ordine con perfetta docilita` e sottomissione.

2-3: dialogo filiale con il superiore

Il monaco soppesa l'ordine ricevuto e conclude che veramente e` superiore alle sue forze. Ed ecco allora il tocco paterno di SB e la larghezza del suo spirito: non si irrigidisce subito sulla esecuzione del comando, ma permette che il monaco suggerat <faccia presente> la sua difficolta`; la voce del monaco puo` illuminare anche il superiore e indurlo a modificare o a ritirare il comando. Pero` SB insiste: "con sottomissione e a tempo opportuno" - due qualita` positive - "senza arroganza, puntiglio od opposizione - tre note negative -. E` l'atteggiamento proprio dell'umilta`; anche il verbo "suggerat" indica il parlare sommesso e umile di chi accenna appena, fa presente con calma.

4-5: Obbedienza eroica per amore

Ma anche dopo l'esposizione delle difficolta`, il superiore puo` avere ancora le sue valide ragioni per persistere nell'ordine dato. E' il momento in cui viene messo alla prova tutto il fondo soprannaturale che ispira l'obbedienza, e` il momento della fede di Abramo, dell'obbedienza eroica.

"Sappia..." Con questo verbo SB introduce un'ammonizione di grave importanza. Ricordi bene il monaco che, nonostante tutto, gli conviene abbracciare la via dell'obbedienza: la mente si ribella, il cuore sanguina, ma Dio puo` chiedere questa testimonianza d'amore.

5: Bello il v.5, anche letterariamente, pare quasi ritmato a tre cadenze:

et ex caritate - confidens de adiutorio Dei - oboediat.

"e per amore" - "confidando nell'aiuto di Dio" - "obbedisca".

per amore: l'amore rende possibile e meritorio tutto. SB ha gia` detto nel capitolo 5 che l'obbedienza e` propria di quelli che non hanno nulla piu` caro di Cristo, e che sono incalzati dall'amore per la vita eterna.

confidando nell'aiuto di Dio: allo scoraggiamento viene in soccorso la fiducia che Dio e` vicino per sorreggere e aiutare.

obbedisca: bellissimo questo "obbedisca", alla fine: sembra un grido di vittoria.

 

CONCLUSIONE

Senza togliere nulla alla dottrina dell'obbedienza, SB in questo capitolo l'ha umanizzata e posta al livello del cuore del discepolo. Un momento nuovo - il suggerat <faccia presente> - si e` introdotto nello schema dell'obbedienza e conferisce a questa un valore piu` alto, quello dell'atto compiuto in piena luce in cui il superiore e il suddito agiscono ormai ambedue in piena conoscenza di causa. La considerazione della persona del monaco e della impossibilita` soggettiva da lui sperimentata approfondisce e arricchisce il tema dell'obbedienza, da` luogo a un approfondimento psicologico, a uno sforzo educativo che prende come punto di partenza la ripugnanza interiore e la trasforma in profitto spirituale per il monaco (De Vogue`).

E` facile osservare quanto la prospettiva di SB sia conforme agli insegnamenti del Vaticano II. Non si nomia Cristo in tutto il capitolo. Pero` sappiamo che l'obbedienza perfetta che insegna la RB non vuole essere una prodezza ascetica; tutta la sua forza proviene dall'esempio di Cristo.

H.U. Von Balthasar fa notare la presenza, invisibile ma certa, di Gesu` Cristo in questo luogo. "Solo l'esempio di Cristo - ha scritto - giustifica il mirabile capitolo 68 di SB. Dato che il Padre chiese al Figlio cose impossibili - che prendesse su di se` tutto cio` che presso Dio e` impossibile, esecrabile, cioe` il peccato - il Figlio muore sulla croce. Pero` prima il Figlio espose al Padre le ragioni della sua impossibilita` ad obbedire: 'Padre mio, se e` possibile, passi da me questo calice. Pero` non come voglio io, ma come vuoi tu' (Mt,26,39). Se il monaco, secondo la Regola, presenta al superiore umilmente, senza atteggiamento di contraddizione, i motivi della sua ripugnanza all'ordine ricevuto, non fa altro che seguire l'esempio di Cristo nel Getsemani; e se, nonostante l'abate mantiene il suo ordine, il monaco obbediente seguira` Cristo fino alla croce".

(H.U. Von Balthasar)




CAPITOLO 6

L'amore al silenzio.

De taciturnitate.

Preliminari

Non c'e` nella Bibbia una vera e propria dottrina sul silenzio, ne` si puo` parlare del silenzio come virtu` o valore raccomandato; la Scrittura e` piena di testi che si riferiscono a entrambe le cose: "C'e` un tempo per tacere e un tempo per parlare (Qoelet 3,7b). La lingua e` un dono di Dio, attraverso cui gli uomini comunicano fra di loro ed esprimono a Dio i sentimenti del loro cuore. A volte e` importante tenerla a freno, mentre a volte sarebbe vigliaccheria e mancanza di fedelta` tacere. Nei libri sapienziali, sopratutto i Proverbi, si insiste sul retto uso della lingua.

Antico Testamento

Nell'AT l'atteggiamento del silenzio e` espressione di vari stati d'animo: lutto o dolore, atteggiamento di attesa e di ascolto, sconfitta o confusione, attesa dell'intervento di Dio. Spesso le azioni salvifiche di Dio sono accompagnate dal silenzio: si veda il famoso brano di Sap.18,14-15: "Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte era a meta` del suo corso, la tua parola onnipotente dal cielo...", oggetto di riflessione da parte dei Padri e di tante generazioni di monaci che videro in essa l'annuncio dell'Incarnazione e della Nascita di Cristo (vedi anche nella liturgia: introito della II domenica dopo Natale); o ancora l'altro celebre passo della teofania sull'Oreb di fronte ad Elia in 1Re 19,11-13.

Piu` recentemente si tende ad associare il silenzio con il deserto, che pero` nella Bibbia significa sopratutto luogo desolato e selvaggio. Certo la solitudine e` caratteristica del deserto, cosi` Israele puo` ripensare alla durezza e alla fatica dell'Esodo (Deut.8,15) e specialmente alla continua assistenza di Dio (Deut.29,4-5).L'esperienza del deserto diventa oggetto di nostalgia da parte di Dio e viene riproposta dai profeti come mezzo per guarire l'infedelta` di Israele (Osea 2,16; Ezech.20,35). Tuttavia non si tratta tanto di silenzio, quanto piuttosto di esperienza di solitudine, di separazione dal mondo abitato che rende piu` vicini a Dio.

Nuovo Testamento

Nel NT ugualmente l'accento e` posto piu` sulla lode di Dio, sull'annuncio del Regno, sui doni delle lingue e della profezia in S.Paolo. Il silenzio e` invece l'atmosfera nella quale si custodisce e si rivela il mistero (Rom.16,25) o che accompagna l'operarsi del giudizio divino (Apoc.8,1).

Questa nota biblica potrebbe sembrare lontana dall'insegnamento della RB, tutto incentrato sul silenzio come forma di umilta` e di mortificazione; pero`, anche la dottrina della taciturnitas non puo` essere rettamente compresa al di fuori di questo concetto biblico e cristiano. Per il cristiano il silenzio e` sempre anche contemplazione e lode di Dio che si manifesta.

La tradizione monastica

Abbiamo detto sopra che i libri sapienziali non cessano di inculcare il buon uso della lingua. Il saggio, a differenza dello stolto, sa meditare e pesare le sue parole. Discepoli e coltivatori di tale saggezza, i monaci cristiani fin dalla piu` remota antichita` praticarono e insegnarono la moderazione nell'uso della parola. Tutta la tradizione (Apoftegmi, storie monastiche, regole cenobitiche, trattati spirituali, ecc...) lo testimonia; ma nessuno parla di silenzio assoluto, perche` tacere sempre non e` umano, pero` e` necessario moderarsi, perche` la lingua facilmente passa il limite e arriva a mormorazioni, calunnie, detrazioni, conversazioni peccaminose: parlare molto, cioe`, equivale ad esporsi di piu` al peccato. Si tratta quindi di un silenzio ascetico.

Il silenzio poi ha grande importanza per la vita del monaco, in quanto e` in funzione della quiete in Dio <la "hesychia">, la tranquillita`; l'accento veniva posto sopratutto sulla ritiratezza, sul rimanere in cella, "tacendo e sedendo" dice S.Girolamo. Anche per Cassiano, che pure dedica al silenzio tre dei suoi indizi di umilta`, esso e` in funzione della preghiera, aiuta il monaco a raggiungere la "preghiera di fuoco" ed e` il segno della raggiunta unita` della persona in Dio. Cosi` si proibiva ai monaci di parlare fuori delle celle e di ritrovarsi a parlare in refettorio; molti monasteri erano famosi per il silenzio che vi regnava, ma sembra piu` un titolo di gloria che una parte della dottrina di ascesi.

La "taciturnitas"

La nozione di equilibrio fra tacere e parlare, con evidente inclinazione a favore del silenzio, la lingua latina dei monaci la espresse con il termine taciturnitas (che non corrisponde al nostro italiano "taciturnita`", la quale puo` comportare anche quell'aria di musoneria che diviene cosi` pesante e fastidiosa nei contatti col prossimo). Silere e silentium significano astenersi totalmente dal parlare; taciturnitas significa l'abitudine a far caso al silenzio, il volontario e virtuoso amore al silenzio, frutto di umilta` e di raccoglimento, che concede la facolta` di esprimersi con moderazione, soltanto se necessario, discretamente. Percio` si potrebbe tradurre anche "amore al silenzio" con tutto il significato spiegato sopra (cioe` anche modo di parlare).

Il silenzio nella RM

Con la RM il silenzio assume un'importanza enorme: se ne parla in due lunghi capitoli (RM 8 e 9), se ne fa menzione nelle buone opere (RM.3,57-60) e vi sono dedicati tre gradini della scala dell'umilta` (RM.10,75-81). Ecco la struttura dei capitoli 8 e 9:

RM.8,1-25: espone la teoria del corpo come prigione dell'anima gli occhi sono le finestre e la bocca la porta; mediante lo sguardo e la parola l'anima guarda fuori e ha occasione di peccato.

RM8,26-30: enumera i tre settori da sorvegliare accuratamente: il pensiero (la "cogitatio"), la parola e lo sguardo.

RM.8,31-37: l'ultima parte del capitolo (quella utilizzata da RB.6) parla del silenzio con il commento al salmo 38. In seguito distingue due specie di taciturnita`: quella che si guarda dai peccati della lingua e quella che si astiene dalle parole buone per umilta`.

RM.9,1-26: esposizione della regola del "benedicite", che consiste in questo: quando l'abate e` presente, non gli si puo` rivolgere la parola senza aver ottenuto il permesso; la richiesta si fa con l'inchino e pronunziando la parola "benedicite". Se l'abate non risponde, bisogna ripetere la domanda; se continua a non rispondere, e` inutile insistere: non si puo` parlare.

RM.9.27-51: regolamentazione della parola: contiene una motivazione dottrinale (vv.27-40) e una casistica (vv.41-51) che distingue: se i discepoli sono perfetti o no (ai perfetti non sara` permesso di parlare per niente senza essere interrogati, diversamente dagli imperfetti); se c'e` o no l'abate; se si tratta di discorsi sacri o profani.

Quali sono le motivazioni per il silenzio nella RM? Ne potremmo indicare tre: (a) il silenzio e` da raccomandare per evitare il peccato, e` la motivazione piu` comune e ripetuta; (b) il silenzio e` in vista dell'umilta`; (c) il silenzio aiuta a mantenere la memoria occupata in Dio e a fuggire la dimenticanza.

Il silenzio nella RB

SB tratta della taciturnita` molto piu` brevemente, in un solo capitolo di soli 8 vv., contro i complessivi 88 della RM, e riproduce solo alcune parti di RM.8 e 9:

- RB.6,1-3 = RM.8,31-33

- RB.6,4-5 = RM.8,35b-36

- RB.6,6 = RM.8,37

- RB.6,7 = RM.9,1-50

- RB.6,8 = RM.9,51.

La citazione del salmo 38,2-3, che in RM si deve dire in segreto quando si e` tentati da collera, per RB diventa un esempio di taciturnita` da seguire. Il v.7 non riprende la casistica della RM sulla domanda da fare all'abate ma, secondo il capitolo 3 sul consiglio dei fratelli, combatte l'indipendenza di giudizio del discepolo. Quindi RB e` piu` preoccupata di evitare divergenze insanabili tra l'abate e il discepolo, che di proibire a questi di porre liberamente domande.

Nel capitolo 6 SB si mostra a volte piu` severo di RM ("esclusione delle battiture"), a volte piu` accondiscendente (c'e` piu` liberta` di rivolgersi all'abate). Inoltre, mentre RM scende a una casistica spicciola, RB rimane sui principi, dandoci un capitolo piu` omogeneo, coerente, anche se molto breve.

Abbiamo nella RB 4 volte la parola taciturnitas e 4 volte la parola silentium. "Silentium" indica un aspetto disciplinare, funzionale (silenzio a tavola, RB.38,5; silenzio notturno, RB.42,1; silenzio durante la siesta, RB48,5; silenzio nell'oratorio, RB.52,2) e significa silenzio in senso stretto, cioe` astensione totale dal parlare. "Taciturnitas" (RB.6 titolo; 6,2-3; 7,56; 42,9) denota, come detto sopra, moderazione, sobrieta`, discrezione nell'uso della parola e, come si usa tradurre, amore al silenzio. Alla "taciturnitas", non al "silentium" SB dedica un capitolo della sua sezione ascetica.

 

STRUTTURA del capitolo 6

Comincia all'improvviso con una citazione dal salterio brevemente commentata, rafforzata da altre due citazioni dei Proverbi (vv.1-5); passa all'uso della parola nei rapporti con i superiori (vv.6-7), condanna solennemente le parole sconvenienti (v.8). Vediamo il testo:

1-5: Uso della parola in genere

SB parte da una citazione scritturistica che serve di base e di principio al suo insegnamento: mettiamo in pratica cio` che dice il salmista. Nel salmo 38 citato, il salmista oppresso dai dolori si propone di tacere assolutamente per non dare all'empio occasione di bestemmiare (quindi notiamo che il contesto del salmo e` diverso da come viene applicato in RB e in RM). Il v.3 del salmo nella nuova traduzione suona cosi`: "sono rimasto quieto, in silenzio, tacevo privo di bene"; invece nella Volgata era: "silui a bonis" che RB (e RM prima) ha inteso: "mi sono astenuto anche dal dire cose buone", da cui l'argomentazione derivante.

L'atteggiamento del salmista viene indicato come generale disposizione d'animo del monaco. "Anche dai buoni discorsi ci si deve "a volte" <interdum> astenere per amore al silenzio", tanto piu` dalle parole cattive! E nel v.3 SB insiste: "E` tanta l'importanza del silenzio - cioe`: tale e` la gravita` e la serieta` di questa dimensione nella vita monastica - che ecc..."

Come si deve interpretare la frase: perfectis discipulis <ai discepoli perfetti>? Si deve intendere che a questi soltanto si deve dare raramente licenza di parlare, lasciando piu` liberta` ai meno perfetti? Si, se si considera il parallelo con la RM la quale distingue tra la categoria dei "perfetti" e quella dei "tiepidi, imperfetti e meno solleciti" (RM.9,48); secondo altri, invece, qui si intende semplicemente i monaci in quanto tali e in quanto devono sforzarsi di essere, dovendo essi per il loro stesso stato mirare alla perfezione.

4-5: frenare la lingua per evitare il peccato

Alla citazione del salmo 38 SB aggiunge altri due testi scritturistici del genere sapienziale, brevi e incisivi: Prov.10,19 e Prov.18,21. In tutti e tre i testi biblici citati, la ragione addotta per frenare la lingua e` quella di evitare il peccato, questo e` nella generale tradizione ascetica del monachesimo primitivo.

6-7: Uso della parola nelle relazioni con i superiori

I monaci, da perfetti discepoli, devono parlare assai poco, giacche` parlare e` funzione del maestro, mentre al discepolo tocca ascoltare. Si torna al concetto dell'abate come "dottore"; si tace per ascoltare la voce del maestro che e` l'abate e, attraverso l'abate, il Maestro per antonomasia: Cristo. E` interessante notare l'importanza dei vv.6-7 per la relazione del silenzio con l'obbedienza (capitolo 5) e con l'umilta` (capitolo 7). Il discepolo ascolta per mettere in pratica cio` che gli si comanda e in tal modo torna a Dio attraverso il cammino dell'obbedienza (Prol.1-2).

Il monaco poi tace per umilta` (v.1: "mi sono umiliato") e parla con umilta` (v.7); tanto il parlare (il modo di parlare) che il tacere sono in rapporto con l'umilta`. Si veda l'evidente parallelismo nella struttura della frase tra:

- RB.6,6 e RB.3,6 =

= atteggiamento in capitolo di famiglia.

- RB.6,7 e RB.3-4 =

Si tratta di rispondere all'abate quando domanda un parere o si tratti di chiedergli qualcosa, i fratelli debbono mantenersi sempre entro i limiti dell'umilta`, docilita` e riverenza.

8: parole sconvenienti

Infine, con accento severo ed energico, SB condanna i discorsi non convenienti alla dignita` di monaco, non solo le trivialita` - il che pare ovvio - ma anche le parole giocose e non necessarie. Questo ultimo versetto contribuisce a dare un aspetto ancora piu` rigoroso e molto forte al capitolo che senza dubbio e` in una linea rigida e severa. Ma...

 

CONCLUSIONE

... per fortuna, altri passi della RB che si riferiscono alla "taciturnitas" (=amore al silenzio e uso corretto, monastico, della parola) mitigano e umanizzano l'aspetto serio e un po` duro del capitolo 6. A giudicare dal v.6, il silenzio regna come norma generale nel monastero e per parlare ci vuole un permesso speciale che si accorda solo raramente. Ma da altri testi si deduce che la proibizione di parlare non era cosi` assoluta: i monaci non erano soggetti ad una legge che li obbligava a convivere senza comunicare tra loro. Il silenzio assoluto si osservava in certi luoghi e in certe ore: durante i pasti (RB.38,5); in dormitorio, tanto durante il riposo notturno (RB.42,1) quanto durante la siesta (RB.48,5). In altri luoghi era molto meno rigoroso (o veniva trasgredito spesso); in RB.26,1-2 si proibisce di parlare con lo scomunicato; in RB.67,5-6 si ordina di non parlare di cio` che si e` visto fuori del monastero. I monaci quindi parlavano e ridevano pure! Tra le mortificazioni suggerite in quaresima (RB.49,7) si dice di togliere qualcosa alla loquacita` e... alle buffonerie (=scurrilitate", lo stesso vocabolo che nel capitolo 6 e` condannato assolutamente, "aeterna clausura in omnibus locis damnamus"! (v.8)

Nel capitolo 6, dato che si tratta della sezione spirituale, a SB interessa enunciare il principio e presentare il valore del silenzio, facendone vedere l'aspetto austero, essenzialmente ascetico. La dimensione mistica della taciturnita` i monaci la scopriranno a poco a poco, avanzando nel cammino dell'unione con Dio, man mano che si familiarizzano con la S.Scrittura e gli altri testi della tradizione patristica e monastica che SB prescrive (RB73,2-6). Cassiano, per esempio, dice che e` impossibile arrivare all'"orazione pura" se lo spirito e` disturbato dal ricordo di conversazioni recenti (Coll.9,13), che l'"orazione di fuoco" consiste in un gemito inenarrabile che trascende la parola (Coll.9,25), che l'anima giunta alla vetta della contemplazione penetra in una meditazione e concentrazione cosi` assoluta che non si puo` esprimere (Coll.9,27). Pero` SB si mantiene nei limiti della "vita pratica", che non va oltre l'estirpazione dei vizi e l'acquisto delle virtu`; la sua "taciturnitas" e` puramente ascetica. Il capitolo 6 e` un commento e ampliamento di 4 strumenti delle buone opere:

- 51^: custodire la propria lingua da parole cattive o disoneste;

- 52^: non amare il parlare molto;

- 53^: non dire parole inutili o eccitanti al riso;

- 54^: non amare di ridere molto o in maniera smodata (RB.51-54).

Si noti anche la finalita` educativa e di carita` della RB. A proposito dell'uso della parola abbiamo tre volte questa espressione: rationabiliter cum humilitate <ragionevolmente con umilta`> in:

- RB.31,7 a proposito del cellerario;

- RB.61,4 a proposito dell'ospite;

- RB.65,4 a proposito del priore.

E nel capitolo 7,60 sostituisce "dire poche parole e sante" di RM con: "dire parole poche e ragionevoli (sensate)". A SB interessa di meno che le conversazioni siano edificanti (come nella RM), quanto piuttosto che abbiano senso, che avvengano nella ragionevolezza e nella calma. Cosi` in RB.31,7.13-14: come deve rispondere il cellerario a chi gli chiede qualcosa fuori luogo o quando non puo` concedere qualcosa. Cosi` RB.66,2-4 a proposito del portinaio: che risponda subito, rivolga parole di benvenuto, con tutta la mansuetudine e umilta`, con fervore di carita`. La pedagogia di SB tende sopratutto a promuovere il buon uso della parola nelle relazioni concrete; siamo indirizzati dunque sul terreno delle relazioni fraterne, un argomento di cui RM non si occupa mai, ma che per SB e` di capitale importanza.

Percio` la tradizione monastica ha assegnato pure un tempo per la ricreazione comune: parteciparvi e portarvi il proprio contributo di pensiero, di amore e di gioia e` un atto di obbedienza e di carita`.


APPENDICE

La riscoperta del silenzio oggi.

Lo stile e le motivazioni di RB.6 ( e a maggior ragione di RM.8-9) sembrano lontani dalla sensibilita` di oggi. E di fatto quanto di quel silenzio viene ancora praticato oggi?

Eppure negli ultimi tempi e` stato riscoperto, e proprio dai "laici", il valore del silenzio. Cio` e` dovuto alle condizioni attuali della vita moderna: si sente il bisogno di pace (la "quies" latina, la "hesychia" greca dei Padri) per poter ascoltare veramente la Parola di Dio come unica, capace di significato, capace di suscitare vita nuova.

E' anche una reazione alla teologia dotta, legata troppo a sistemi filosofici e separata dalla vita liturgica e spirituale> Forse proprio perche` i cristiani hanno saputo mostrare troppo poco questa unita` di parola e di silenzio, del vuoto dell'uomo e della pienezza di Dio che e` scoppiata la corsa verso le religioni asiatiche. Con tutto il rispetto per esse, e riconoscendo che c'e` stata negli ultimi anni una riscoperta reciproca senz'altro positiva, pero` e` indubbio che e` stata una reazione contro la Chiesa e il cristianesimo dimentichi della loro tradizione spirituale.

E allora, qual'e` la nostra risposta di monaci? La Regola e il suo discorso sul silenzio possono aiutarci? La dottrina della RB sul silenzio, abbiamo visto, non ha connotazioni mistiche, ma fa parte delle pratiche ascetiche insieme all'obbedienza, all'umilta`, alle buone opere, ecc. Quindi c'e` da riprendere tutto il discorso sulla mortificazione, perche` un discorso sul silenzio solo mistico rischia di essere poco realistico e... poco monastico.

(Riassunto da: M.B.BOGGERO: Appunti sulla Regola di S.Benedetto, o.c., capitoli 4-7, pp.70-75)

""Il silenzio e` prima di tutto privazione della propria parola, distacco dalla propria volonta` e dal proprio modo di percepire le cose, deserto fatto in se stessi, perche` la parola di Dio possa risuonare. Questo aspetto di contraddizione, di vuoto, di aridita` (ecco il deserto biblico) e` il primo e sempre ripetuto passo verso l'incontro con Dio, come ci mostrano tutte le teologie monastiche. Troppo spesso il tema del silenzio viene sentito come una nostalgia dell'ineffabile, senza prendere coscienza che e` questa esperienza quotidiana di negazione di se` che ci viene proposta continuamente dalla vita in monastero.

Ed e` il silenzio fatto da Dio, dalla sua azione in noi, come si manifesta nella vita quotidiana concreta, nella liturgia, nella Parola, nei rapporti fraterni. C'e` il rischio di considerare il silenzio del monaco un po' come tecnica (affine alle tecniche di meditazione e di preghiera orientali (yoga, zen, buddhismo) e non come il lavoro operato in noi dalla grazia di Dio, dall'azione dello Spirito in noi. Solo cosi` il silenzio puo` diventare lode e adorazione, azione di grazie, espressione della risposta fedele dell'uomo all'eterna fedelta` di Dio."" (Ibidem pp.70-75)




CAPITOLO 7

L'umilta`.

De humilitate.

Preliminari

Questo lungo capitolo assomma tutta la dottrina ascetica di S.Benedetto, e` il midollo della sua spiritualita`. Nell'affrontarlo dobbiamo anzitutto evitare di pensare al concetto ristretto che la parola UMILTA` ci richiama spontaneamente, per che` in questo trattato intitolato "L'umilta`" troviamo i temi piu` svariati, come il timor di Dio, la pazienza, il silenzio, l'obbedienza, la gravita`, l'imitazione di Cristo, ecc.

Concetto molto ampio di "umilta`"

La RB, con la parola "umilta`", designa tutta una realta` spirituale che e` molto lontana da quello che si intende comunemente nei trattati di morale e nei trattati di teologia in occidente: questi ne hanno un concetto molto ristretto, distante dalla tradizione biblica e patristica. Nella Scolastica, con la classificazione delle virtu`, l'umilta` viene collocata tra le suddivisioni della modestia, la quale a sua volta fa parte della virtu` cardinale della temperanza (cf.S.Tommaso, Somma Teologica, II-II, q.161) e veniva definita per esempio: "una virtu` dell'appetito irascibile che frena il desiderio della propria grandezza, facendoci conoscere la nostra pochezza davanti a Dio". E notiamo che S.Tommaso non ritiene giustificabile la scala dei 12 gradini di umilta` di S.Benedetto, proprio perche` ci sono incluse cose che riguardano altre virtu`! (cf.ibidem, art.6). In S.Tommaso e nella Scolastica c'era l'intento di una sistematizzazione di tutta la teologia e quindi della classificazione di tutte le virtu.

Completamente diversa e` la mentalita` di SB (che fra l'altro non intendeva fare alcuna classificazione sistematica!): in lui la famosa scala abbraccia la traiettoria completa della vita umana, comprende tutto il cammino ascetico, comporta elementi interni ed esterni, informa tutta la vita dello spirito; il concetto di umilta` e` di una ampiezza e di una profondita` indescrivibile.

Il termine UMILTA`

Il vocabolo humilitas, traduzione dal greco tapeinos <basso, piccolo, povero, meschino, insignificante> deriva - come la parola "homo' e "humanus" - da "humus" <terra>, e significa "appartenente alla terra", "formato dalla polvere della terra", "inclinato alla terra". Nel latino classico "humilitas", riferito alle persone, e` sinonimo di ignobilita`, afflizione, infermita`, poca importanza, e si usa sia per indicare l'oscurita` delle origini o della condizione sociale, sia per i pochi mezzi economici, sia per la pochezza del carattere, ecc.; indica cioe` uno stato servile, basso, volgare, miserabile, disprezzabile. Nella letteratura greca e romana le parole "tapeinos" e "humilis" designavano in generale uno spirito vile, sentimenti servili che portavano al timore e all'adulazione; erano il contrario di magnanimita`, nobilta`, sentimento della propria capacita`. Per i filosofi pagani, l'umilta` non e` stata mai un ideale (da qui pero` non e` esatto dire che essi coltivavano l'orgoglio, che essi anzi condannavano come vizio; raccomandavano una certa forma di modestia che chiamavamo "sophrosyne" <riconoscimento dei propri limiti>.

L'umilta` diventa una parola con significato positivo, come un ideale morale e religioso, solo nel linguaggio degli autori cristiani, alla luce di tutta la tradizione biblica.

L'umilta` nella S.Scrittura:

a) A.T.

L'umilta` occupa un posto centrale nella teologia biblica. Gesu` in persona proclama l'ideale dell'umilta` nel discorso della montagna, pero` la dottrina che predicava non era interamente nuova, ma era preparata da una lunga tradizione dell'AT.

Prima di diventare un ideale morale, l'umilta` e la poverta` (si trovano sempre unite) indicavano una realta` sociale. Nell'ebraico abbiamo vari termini, sopratutto <ani`> e <anawim> (nel greco 'tapeinos') e si intendono tutti coloro che si trovano in uno stato di miseria, di abbattimento: poveri, deboli, piccoli, indifesi (notiamo l'espressione: "il povero, l'orfano e la vedova" che appare continuamente nella Bibbia). Tutti costoro godono del favore di Dio (cf.Giuditta 9,11) per la loro stessa necessita` e percio` aprono il cuore all'esperienza di Dio che li soccorre (cf.Giobbe 5,11; salmo 9,14; 17,28;106,12, ecc.). Dio esalta il misero e il povero e abbassa i superbi (cf.1Sam.2,7-8; salmo 145,7-9, ecc.). I testi sono moltissimi. Le leggi promulgate da Yahwe proteggono i poveri e gli umili; Dio si fa difensore ("rende giustizia") di queste categorie; i profeti insistono su questo, i salmi esaltano questo. E si noti che nei testi biblici non si fa allusione molto alle virtu` e ai meriti dei "poveri": puo` darsi che siano giusti e pii, ma non e` questo l'aspetto sotto cui vengono considerati; si tratta di gente infelice a favore dei quali Dio si compiace di far risplendere la sua misericordia.

Nei testi dell'esilio e del post-esilio va acquistando man mano importanza l'aspetto piu` interno e spirituale dell'umilta`: si esalta come ideale religioso l'umile, il povero, il quale pone tutta la sua speranza non nei beni terreni ma solo in Dio (cf.Is.57,15; 66,2). Quindi l'umilta` e` legata intimamente con la poverta`; gli umili per eccellenza sono gli <anawim>, i "poveri di Yahwe; non si tratta solo e sempre di indigenza materiale, ma di una disposizione interiore, tanto che il greco ha reso spesso il termine con la parola <praus> = mite, sottomesso, umile, mansueto.

b) nel NT.

Nel NT i "poveri di Yahwe" sono i semplici, gli umili che accettano la salvezza, il Messia: i pastori, i popolani, i pescatori, Anna, Simeone e al vertice MARIA, una figlia del popolo campagnolo della Palestina, cosi` disprezzato, su cui Dio fissa il suo sguardo: "ha guardato l'umilta` (=la pochezza) della sua serva" (Lc.1,48 e si noti nei vv.51-53 del Magnificat il linguaggio dei "poveri di Yahwe" dell'AT, sopratutto il parallelo con il cantico di Anna, madre di Samuele: 1Sam.2,1-10).

In tale linea e` stata la vita e l'opera di Gesu`, Figlio di Dio e di Maria di Nazareth. Gesu` si presenta come il Messia dei poveri, degli umili, degli "anawim" (cf.Lc.4,18-19 che cita Isaia 61,1-2) e proclama beati questi tali (Mt.5,3-6; Lc.6,20-21). Solo coloro che si sentono piccoli come i bambini entreranno nel Regno (Mc.10,25; Mt.18,31; Lc.18,16-17); non bisogna occupare i primi posti (Lc.14,10); bisogna riconoscersi "servi inutili" (Lc.17,7-10). Gesu` ripete la sentenza dell'AT che Dio esalta gli umili e abbassa i superbi: "Chi si esalta sara` umiliato e chi si umilia sara` esaltato" (Mt.23,12; 18,4; Lc.14,11; 18,14).

GESU` sopratutto insegna cio` in modo mirabile con il suo esempio; egli stesso si mette tra gli "anawim" e si offre come modello: "Imparate da me che sono mite e umile di cuore" (Mt.11,29). L'umilta` di Cristo ha due aspetti:

umilta` radicale davanti a Dio e

umilta` fraterna rispetto agli uomini che si manifesta concretamente nello spirito di servizio: "Il Figlio dell'Uomo non e` venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita..." (Mt.20,26). Gesu` si identifica con i poveri, con i piu` miseri: "Cio` che avete fatto al piu` piccolo..." (Mt.25,40) e, invece di cercare la sua gloria, (Giov.8,50), si umilia fino a lavare i piedi ai suoi apostoli (Giov.13,2-17), il che era un compito caratteristico degli schiavi.

La KENOSIS di Cristo

Cristo, al dire di S.Agostino (Discorso 62,1), "fu maestro di umilta` con la parola e con l'esempio". E cosi` e` stato inteso dai discepoli e dalla Chiesa primitiva. S.Paolo parla della "kenosis" <abbassamento> volontaria di Cristo nel famoso inno cristologico di Filippesi 2,5-8, testo di una profondita` e di una trascendenza incalcolabile. Dovendo esortare i Filippesi alla concordia e all'amore reciproco, S.Paolo invita a considerare non solo l'esempio di Cristo, ma ad imitarne la disposizione di animo radicale dall'incarnazione al calvario: "abbiate in voi gli stessi sentimenti...", quindi imitate la sua estrema "kenosis". Cosi` umilta` e imitazione di Cristo diventano sinonimi. Essere umili, nel senso proprio, cristiano della parola, consiste nel seguire Cristo umile, identificarsi con Cristo umile, fino al punto che siamo capaci di imitarlo nel sua abbassamento e nella sua umiliazione fino alla morte di croce, per compiere la volonta` del Padre (I aspetto: umilta` davanti a Dio) e prestare agli uomini il supremo servizio di dare la vita per loro (II aspetto: umilta` fraterna).

L'umilta` presso i Padri

Con i testi dell'epoca patristica si potrebbe formare una bellissima e densa antologia sull'umilta`, tanto essa appare con frequenza sia presso i Padri Greci che presso quelli Latini. Per Atanasio e` un'attitudine interiore; per Basilio il servizio del prossimo; per Giovanni Crisostomo madre e guida; per Girolamo guardiana di tutte le virtu`. E tutti la vedono in relazione all'esempio di Cristo. Origene parla con insistenza ed entusiasmo di Cristo quale "maestro di umilta`"; cosi` Clemente Alessandrino, Basilio, Gregorio di Nissa, Ambrogio e sopratutto S.Agostino con testi numerosi ed espressioni commoventi: "Fu crocifisso per te per insegnarti l'umilta` (Discorsi su Giovanni 2,4); "Gli sembro` poco essersi fatto uomo, ma volle anche essere condannato dagli uomini; poco, essere condannato, volle anche essere disonorato; poco, essere disonorato, volle anche essere ucciso; poco, essere ucciso, volle anche essere crocifisso..., poiche` non si trattava di una morte qualunque..., scelse la piu` terribile e dolorosa forma di morte..., si umilio` talmente che accetto` la morte in croce" (ibid. 36,4)

L'umilta` nel monachesimo primitivo

S.Agostino si considerava monaco e in realta` lo fu; anche per questo ha saputo comprendere cosi` bene l'umilta` di Cristo. Difatti per il monachesimo fin dalle origini l'umilta` occupa un posto particolare. In tutta la tradizione monastica essa appare come valore fondamentale:

- "meta di tutta l'ascesi",

- "la piu` eminente delle virtu` per il monaco",

- "l'umilta` porta a Dio",

- "medicina di tutte le ferite",

sono gli elogi che troviamo in tutta la letteratura del monachesimo primitivo. E troviamo anche una infinita` di manifestazioni: vestire poveramente, lavare i piedi agli ospiti, rifiutare il sacerdozio, obbedire senza limitazioni al padre spirituale o al superiore del monastero... Cosi` per la tradizione monastica la parola "umilta`" acquista un significato straordinariamente ampio che include la bassa stima di se stesso, le umiliazioni, l'obbedienza, l'imitazione di Cristo e altri concetti di maggiore e minore importanza.

L'umilta' in Cassiano

Tutto questo appare chiaramente dalle opere di Cassiano, da cui dipendono RM e RB. E` significativo che egli non dedica nessuna delle sue "Collazioni" all'umilta` in particolare, proprio perche` - come si e` detto - per gli antichi monaci essa non e` una virtu` particolare, ma piuttosto un atteggiamento, uno spirito che pervade tutte le virtu`. Nel 12^ libro delle "Istituzioni" dimostra che l'umilta` e` la disposizione fondamentale di tutta la perfezione cristiana e, nello stesso tempo, il suo coronamento. Secondo Cassiano l'umilta` non solo abbraccia tutto il processo di purificazione dell'anima, dall'estirpazione dei vizi all'acquisto delle virtu`, ma anche continua fino alla carita` perfetta e ai diversi gradi della contemplazione; la sua importanza e` tale che occupa il posto centrale nella concezione del monachesimo, in modo che umilta` potrebbe usarsi per designare la vita monastica (Coll.9,3; 24,9). L'umilta` insomma consiste in una disposizione spirituale profonda e sincera che accompagna e da` autenticita` a tutte le opere, a tutti gli sforzi e a tutte le virtu` del monaco.

I testi sono numerosi. Ricordiamo solo l'itinerario diventato poi classico (la famosa scala di RM e RB), che parte dal timore del Signore e dei suoi castighi e conduce, attraverso i gradi intermedi della purificazione dei vizi e del distacco dal mondo, alla carita` perfetta. Si trova in: Istit.4,32-43: esortazione dell'abate Pinufio ai novizi; in particolare nei capitoli 38-39 si parla di dieci "indizi" o "segni" dell'umilta`, che hanno dato poi lo spunto ai "gradini" dell'umilta` di RM e RB.

L'umilta` nella RM

La RM tratta dell'umilta` nel capitolo 10 (123 versetti) e dipende chiaramente da Cassiano. RM introduce l'idea della scala, i cui lati sono l'anima e il corpo, cioe` l'uomo nel suo insieme. L'immagine significa che ogni gradino si inserisce contemporaneamente in questi due montanti. Ai dieci indizi di Cassiano, la RM aggiunge il 1^ e il 12^ gradino, i quali si richiamano e presentano una struttura bipartita con una faccia interna e una esterna.


Il capitolo 7 di RB

La struttura generale del trattato sull'umilta` di S.Benedetto (RB.7) dipende con ogni evidenza dal capitolo parallelo RM.10, sopratutto nella suddivisione e nell'ordine dei gradini; nella definizione di "gradino dell'umilta`" che non si trovava in Cassiano e nell'illustrazione scritturistica.

Tuttavia vi sono importanti differenze: SB abbrevia molto (70 vv. contro i 123 di RM.10); varia l'introduzione ai singoli gradini; usa il termine "monachus", mai il termine "discipulus" come in RM dove ogni capitolo ha la forma di una risposta del maestro alla domanda del discepolo. Sopratutto e` importante la modifica nella conclusione: SB sopprime la lunga conclusione della RM con la descrizione della patria celeste, come del resto abbrevia anche nel preambolo alcuni accenni al cielo; cioe` per SB l'umilta` conduce semplicemente alla carita' perfetta; cosi` la sua conclusione e` piu` semplice e piu` armonica e fa vedere un cammino preciso nella vita monastica che dalle strettoie dell'osservanza conduce alla perfezione della carita`, al cuore dilatato e alle vette della virtu`. Difatti bisogna confrontare la finale del capitolo 7 (RB.7,67-70) con Prol.49-50 e con RB.73,8-9, cioe` con l'inizio e la fine della Regola (testi propri di SB).

STRUTTURA del capitolo 7 della RB

Il capitolo 7 di S.Benedetto ha questa struttura:

- necessita` dell'umilta` (vv.1-4);

- la scala di Giacobbe (vv.5-9);

- i 12 gradini dell'umilta` (vv.10-66);

- epilogo (vv.67-70).

Rapporto tra Cassiano e RM-RB

Riguardo alla scala dell'umilta`, esaminiamo in questo specchietto la corrispondenza tra gli "indizi" di Cassiano e i "gradini" di RM e RB:

CASSIANO RM - RB | CASSIANO RM - RB

(indizi) (gradini) | (indizi) (gradini)

|

1 2 | 6 8

2 5 | 7 6

3 cf.3 | 8 7

4 cf.3 | 9 9 e 11

5 4 | 10 10

Il primo gradino di RM-RB, il piu` lungo, non si ritrova in Cassiano, cosi` anche per il 12^; inoltre gli indizi 3^ e 4^ di Cassiano sono uniti in un solo gradino, mentre il 9^ di Cassiano viene diviso in due differenti (9 e 11) da RM e RB; anche la sequenza e` differente. Esaminiamo ora il testo di RB.7

1-4: Necessita` dell'umilta`

SB pone come pietra fondamentale del suo trattato sull'umilta` una massima del Signore e la pone con particolare enfasi e solennita`: "Fratelli, la divina Scrittura ci grida..." <clamat, e` la prima parola del capitolo!>.

Il termine "esaltazione - ascoltare" compare ben 8 volte nei primi 10 vv. e poi nei gradini 7^ e 10^. Dal testo del Vangelo SB deduce che atto di superbia e` "ogni esaltazione": di pensiero, di parole, di azioni, e introduce la citazione del salmo 130,1-2. Nel v.4, citando il v.2 del salmo, SB riporta la versione della Volgata, che ha un senso diverso; nella nuova traduzione il v.2 del salmo suona cosi`: "Io sono tranquillo e sereno, come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato e` l'anima mia": il salmista cioe` ha dominato i movimenti di superbia e ha reso la sua anima simile a un bambino che, gia` divezzato, sta fiducioso, tranquillo, in braccio a sua madre. Invece, seguendo la versione antica, SB legge: "Se non nutro..., tu mi tratti come un bambino divezzato dal seno di sua madre". Qui la posizione del bambino e` diversa, e` quella di un rigettato che soffre; quindi SB, dopo il proposito del salmista di evitare lo spirito di superbia, vuole rivelare la punizione a cui si esporrebbe l'orgoglioso: sarebbe discacciato da Dio come il bimbo dal seno materno.

5-9: La SCALA di Giacobbe

SB giunge a una conclusione: i nostri atti di abbassamento nell'umilta` sono veri atti di ascensione verso la perfezione. Tale ascensione conduce all'idea della scala. Cassiano, abbiamo visto, a proposito dell'umilta`, parla di "indizi", di "segni", da cui il padre spirituale puo` conoscere l'umilta` del discepolo; pero` in altri luoghi, trattando del cammino verso la perfezione, parla di "gradi" (Istit.4,39); cosi` anche di "gradini discendenti della superbia" (Inst.4,29-30), di "gradini della giustizia" (Coll.12,7) ecc. Comunque, l'allegoria della scala e` antichissima e costituisce un tema spirituale frequente nella letteratura monastica e patristica per indicare l'ascensione dell'anima verso Dio e il progresso nella vita spirituale. Basti ricordare che S.Giovanni Climaco, contemporaneo di SB, deve il suo nome appunto a un trattato sulla "Scala (in greco <climax>) del Paradiso", dove la vita spirituale e` paragonata ad una salita per 30 gradini. SB aggiunge un'applicazione allegorica della celebre scala di Giacobbe (Gen.28,12) a cui spesso si richiamavamo gli antichi scrittori, come S.Basilio, Cassiodoro, e specialmente S.Girolamo: "... il patriarca Giacobbe vede nel sonno una scala..., per la quale con diversi gradini di virtu` si sale in alto" (Epistola 98,3).

7: gli angeli che salgono e scendono: senso accomodatizio

E` singolare il senso accomodato che SB da` agli angeli. Gli angeli che salgono e scendono, comunemente sono visti come intermediari tra Dio e gli uomini: alcuni scendono a portare i doni di Dio, altri salgono a portare le preghiere e le azioni degli uomini. Per SB significano umilta` e superbia; e si noti con che forza si ferma su questa insolita interpretazione: "senza dubbio... significa solo questo..."!

8-9: la scala simbolizza la nostra vita terrena:

ed e` Dio che la erige (si noti bene l'iniziativa di Dio, come nel v.9 e` Dio che chiama a salire la scala). I lati (SB pensa a una scala a pioli - quindi le due fiancate, gli stazzi - sono il corpo e l'anima, cioe` i due principi costitutii della natura umana, perche` l'umilta` deve essere interiore ed esteriore; difatti ha citato prima (v.3) il salmo 130,1: "il mio cuore non si inorgoglisce e il mio sguardo non si leva in superbia: il cuore = l'interno, lo sguardo = l'esterno.

10-16: I DODICI GRADINI DELL'UMILTA`

SB (e RM prima) enumera i 12 gradini di umilta`. Dodici e` un numero sacro e simbolico. La RB presenta semplicemente un itinerario che va dal timore all'amore perfetto, attraverso varie manifestazioni dell'umilta`. Notiamo che SB, riproducendo gli "indizi" di Cassiano, li rielabora e li arricchisce sempre alla luce della Scrittura: e` la Parola di Dio che si dirige al monaco ed e` il Signore, per messo dello Spirito Santo, che trasformera` man mano il "suo operaio" (v.70). Abbiamo cosi` nella scala un significato profondamente religioso:

- e` la chiamata di Dio che ci invita a salirla (v.9),

- si comincia con una relazione diretta con Dio (riverenza e sottomissione

a Dio, 1^ gradino),

- si termina con una relazione diretta a Dio (carita` perfetta),

- e tutto questo lo opera Cristo Signore per mezzo dello Spirito Santo (v.70)

Possiamo quindi presentare questo aspetto della scala dell'umilta`: dal timor di Dio all'amore perfetto attraverso:

- il medesimo timor di Dio (1^ gradino)

- l'obbedienza (2^, 3^, 4^ gradino)

- l'abbassamento totale di se` (5^, 6^, 7^ gradino)

- annullamento tra gli altri (8^ gradino)

- taciturnita` (9^, 10^, 11^ gradino)

- tutto il comportamento esterno (12^ gradino).

I sette primi gradini hanno per oggetto la condotta interna del monaco umile; gli ultimi cinque la sua condotta esterna.

10-30: 1^ GRADINO: timor di Dio

Il primo gradino invita alla vigilanza su di se` e sulle proprie azioni a causa della presenza di Dio che domina la vita dell'uomo, secondo una mentalita` tipicamente biblica. Dopo un enunziato generale e la descrizione del timor di Dio per evitare i peccati col pensiero, con la volonta` propria, con i desideri (vv.10-12), fornisce le prove scritturistiche per le singole parti: pensieri (vv.13-18), volonta` (vv.19-22), desideri (vv.23-25); e conclude con una esortazione riassuntiva (vv.26-30).

10-12: enunziato generale

Il gradino ha un carattere fortemente escatologico, sia per la presenza di temi come il giudizio, la morte, l'inferno, sia per il vocabolario. La dottrina del timor Domini <timore del Signore> e` frequente nella Scrittura. Cassiano l'ha posto fuori della serie, quale base dei suoi "indizi", dato che esso e` il "principio della nostra salute e sua custodia", citando la celebre definizione biblica: "principio della salvezza e` il timore del Signore" (Prov.9,10; salmo 110,10). Anche SB ritiene la riverenza a Dio come radice di tutta l'umilta`. Nella RB e` Dio che chiama, cerca, scruta l'uomo, aspetta che si converta (Prol.14,34-37); la custodia di se` e` la consapevolezza dell'azione di Dio.

Si noti il parallelismo tra Prol.40 e RB.7,10-11 con il verbo "fuggire" e il ricordo dell'inferno e della vita eterna. La custodia di se` si sintetizza nella famosa frase del v.10 "oblivionem omnino fugiat" <fugga completamente la dimenticanza>, cioe` quella condizione di leggerezza e di dissipazione che ci fa vivere dimentichi della grande realta` che Dio e` presente. Quindi timor di Dio significa (e si puo` tradurre) senso della presenza di Dio, con la riverenza suscitata dalla contemplazione delle sue infinite perfezioni, dinanzi a cui l'uomo, che e` nulla e peccato, necessariamente adora e si umilia; e` fondato ancora sul motivo della pena e della ricompensa, ma dara` luogo alla fine della scala (vv.67-70) al timore fifliale, cioe` alla carita` perfetta.

13-18: applicazione ai peccati di pensiero

La presenza di Dio sui pensieri buoni e cattivi e` confermata dalla S.Scrittura (vv.13-17), percio` stiamo in guardia da quelli cattivi (v.18). SB riporta cinque citazioni bibliche. Notiamo sulla quarta (v.17) del salmo 75,11 che il senso originale e` diverso. La nuova traduzione dice: "l'uomo colpito dal tuo furore ti da gloria". SB cita la Volgata e prende la parola "confitebitur non nel senso attivo di "lodare", ma nel senso passivo di "essere confessato, svelato". Notiamo ancora nel v.13, e in seguito nel v.28, la menzione degli angeli come messaggeri di Dio (e all'inizio del capitolo, nel v.6, gli angeli sulla scala di Giacobbe): e` uno dei temi escatologici cari e comuni nella tradizione e nella letteratura monastica.

19-22: applicazione all volonta` propria

Qui manca il ricordo della presenza di Dio perche` SB concepisce la volonta` propria sempre come cattiva (di qui il suo pallino dell'obbedienza!); tutto il brano si limita quindi a richiamare il divieto di seguire la propria volonta`. Abbiamo anche qui quattro citazioni bibliche (una implicita). Per indicare il Padre Nostro, nel testo latino c'e` solo la parola "oratione", cioe` la preghiera per eccellenza, quella insegnata da Gesu`.

23-25: applicazione ai desideri cattivi

Dio e` presente a tutti i nostri desideri, quindi dobbiamo astenerci da quelli cattivi. Si noti nel v.22 la frase: "la morte sta in agguato proprio all'inizio del piacere peccaminoso", presa letteralmente dagli "Atti di S.Sebastiano" falsamente attribuiti a S.Ambrogio, ma certo molto antichi; si vede che SB e i monaci li leggevano spesso insieme agli altri Atti dei Martiri.

26-30: ricapitolazione del 1^ gradino. Esortazione conclusiva

Abbiamo in questi vv. un riepilogo generale sulla presenza di Dio e la messa in guardia da ogni peccato. Si tratta della memoria di Dio, termine tecnico della teologia spirituale antica: la "mneme Theou`" <memoria Dei>; la fonte principale di questo primo gradino e` S,Basilio il quale ne tratta nelle sue Regole in molte questioni in risposta a domande di monaci. L'atteggiamento di "memoria" e di custodia deve essere costante, come e` espresso dagli avverbi: semper (vv.10, 11, 13, 23, 27); omni hora (vv.12,13,29); omni loco (v.13). E` poi una "memoria" in senso totale: memoria del giudizio di Dio, del premio e del castigo futuri; memoria dell'amore di Dio, della sua opera di salvezza, della sua chiamata. Tutto cio` e` indispensabile per compiere l'opera di purificazione e giungere alla "purezza del cuore".

Dunque il 1^ gradino evoca questa "memoria Dei", o ricordo del Dio santo, giudice dei nostri atti, per indurci a rinunciare alla nostra volonta`, alle nostre "vie", per seguire le "vie" di Dio che ci precede, ci conosce e ci giudica. Quindi: 1^ gradino di umilta` = timor di Dio, senso della presenza di Dio, nel significato spiegato sopra.

31-33: 2^ GRADINO: obbedienza alla volonta` di Dio

34: 3^ GRADINO: obbedienza al superiore

35-43: 4^ GRADINO: obbedienza fino all'eroismo

Facciamo prima qualche osservazione riguardo alle citazioni. Nel v.33 (2^ gradino) SB riporta una sentenza citandola inesattamente come dalla Scrittura; la spiegazione deve trovarsi nel fatto che egli cita a memoria e la frase, che gli sara` stata familiare, per svista la ritiene biblica, simile per esempio a qualcuna dei Proverbi.

Nel v.37 (4^ gradino), nella citazione del salmo 26,14 e` piu` probabile che SB intenda "sustine" nel senso di "sopporta"; questo appare dal contesto: c'e` immediatamente prima e immediatamente dopo lo stesso vocabolo "sustinere" nel senso di sopportare. Il significato sarebbe: sostenere (=sopportare) con fede e pazienza l'ora di Dio il quale, per vie talvolta durissime alla natura umana, ci guida alla santita`. Nel v.40 (4^ gradino), nella citazione del salmo 65,10-11, il salmista allude alle gravi sciagure cui soggiacque il popolo per permissione di Dio che lo voleva purificare; SB applica il testo alle sofferenze che Dio puo` permettere che il monaco incontri nell'obbedienza. Cosi`, continuando nel v.41 la citazione del salmo 65,12, SB continua nel senso accomodatizio: il salmista allude all'uso dei vincitori di calpestare i vinti; SB dice che i monaci devono sottomettersi volentieri ai superiori, perche` Dio stesso li ha posti sopra di noi!

In questi gradini dell'umilta` che riguardano l'obbedienza, appare Gesu` Cristo. Non stiamo soltanto davanti a Dio tre volte santo, terribile, giudice. Al momento di fare il passo definitivo, di rinunciare alla propria volonta` e abbracciare l'obbedienza sino alle ultime conseguenze, Cristo e` unito a noi.

Tra i primi quattro gradini esiste un perfetto crescendo: anzitutto il monaco si fa permeare dal timor di Dio e dalla necessita` di rinunciare alla volonta` e ai desideri propri (1^ gradino); poi rinunzia a soddisfare i suoi desideri per realizzare il piano di Dio (2^ gradino); quindi decide di sottomettersi agli ordini di un superiore, il che e` gia` piu` difficile (3^ gradino); infine accetta ogni forma di obbedienza, per quanto dura e penosa possa essere (4^ gradino). Ebbene, e` Cristo che lo trascina in questo abbassamento che e` il contrario dell'orgoglio di Adamo che voleva innalzarsi fino a Dio.

L'imitazione di Cristo ha un'importanza fondamentale nella RB. Si e` notato che il verbo "imitare" (Gesu` Cristo) si riferisce quasi sempre alla sua obbedienza. L'imitazione dell'obbedienza di Cristo ha la sua espressione piu` perfetta in questi gradini di umilta`:

- il 2^ e` l'obbedienza "ad imitazione" di Cristo che disse: "Non sono venuto... (v.32, cit.Giov.6,38);

- il 3^ consiste nell'obbedire fino alla morte "ad imitazione" di Cristo di cui l'Apostolo dice: "Si e` fatto obbediente..." (v.34, cit.Fil.2,8)

- il 4^ gradino, anche se non menziona espressamente l'esempio e l'imitazione di Cristo, equivale realmente alla morte in croce. Che cosa e` infatti il 4^ gradino dell'umilta` se non la piena realizzazione della frase di Prol.50: "Partecipiamo con la pazienza ai patimenti di Cristo"? Ecco che il monaco il quale incontra nell'obbedienza grandi contrarieta`, o addirittura ingiurie, le accetta in silenzio.

Nel v.35 e` l'unica volta che SB usa il termine "conscientia" ad indicare quel silenzio interiore di pazienza e pone in rilievo l'interiorita` dell'obbedienza. Il monaco pienamente umile abbraccia la pazienza nell'intimo del suo cuore in unione a Cristo silenzioso durante la passione; e` realmente il martirio dell'obbedienza, e` il martirio spirituale che succede al martirio di sangue, di cui parlano i Padri del monachesimo: il monaco diventa il nuovo martire (i monaci furono sempre considerati come i successori dei martiri cristiani), l'imitatore di Cristo per eccellenza. Siamo veramente al fondo dell'umilta`, alla partecipazione alla "kenosis" di Cristo fino alla morte di croce.

44-48: 5^ GRADINO: apertura di coscienza

Col 4^ gradino abbiamo gia` toccato il fondo dell'umilta`. I tre gradini seguenti tuttavia conducono il monaco all'umile riconoscimento della sua indigenza spirituale:

5^ - la confessione delle sue colpe;

6^ - la confessione della radicale fragilita` della sua natura umana;

7^ - la confessione sincera e profonda, cioe` la convinzione interiore, che e` l'ultimo e che e` bene essere umiliato e sottomesso.

Cosi` abbiamo la sequenza dei primi sette gradini che riguardano l'aspetto interiore dell'umilta`:

* umilta` - timor di Dio (1^)

* umilta` - obbedienza (2^,3^.4^)

* umilta` - umiliazione (5^,6^,7^).

E' dunque umiliazione, e non piccola, rivelare sinceramente all'abate i peccati segreti o anche i pensieri cattivi che vengono in mente. Si tratta di un gradino impegnativo: il cuore del monaco viene svelato, portato alla luce, egli accetta di essere rivelato a se stesso. La manifestazione dei pensieri fa parte del nucleo piu` antico della spiritualita` monastica; i "pensieri" (=pensieri, impulsi, passioni, <loghismoi> in greco) formavano la preoccupazione maggiore dei primi monaci, sopratutto per chi era eremita (cf.RB.1,5) e nel saperli svelare e combattere consisteva la saggezza del deserto; pero` solo i Padri che possedevano il carisma del discernimento potevano giudicare rettamente circa questi "pensieri". Cassiano ha trasmesso tutta questa spiritualita` all'occidente: questo gradino corrisponde al 2^ "indizio" di Cassiano (vedi piu` sopra la tabella).

Notiamo che cio` avveniva quando il superiore non era del tutto istituzionalizzato, era ancora il "padre spirituale". La successiva evoluzione ha dato all'abate altre connotazioni meno carismatiche. Si e` cosi` operata una divisione tra l'abate e il cosiddetto "padre spirituale". Come dobbiamo interpretare questo gradino? Come riferito all'abate (in SB e` cosi`, sopratutto qui; cf.pero` anche RB.4,50; 46,5), oppure a un'altra figura? E` un punto da discutere. Resta comunque la necessita` per il monaco di una capacita` di autoriconoscimento, di fronte all'abate e ai fratelli, della propria miseria.

Delle tre citazioni bibliche che commentano il 5^ gradino, notiamo che nella seconda del salmo 105,1 SB ha preso la parola "confitemini" nel senso di "confessatevi", "rivelatevi", mentre nel salmo significa "lodate".

49-50: 6^ GRADINO: essere contento delle cose piu` vili e di essere umiliato

Il 6^ gradino riproduce il 7^ "indizio" di Cassiano e consiste in cio`: il monaco non solo si contenta delle cose piu` vili e spregevoli, ma si considera un operaio cattivo e indegno (allusione, anche se non c'e` la citazione esplicita, a Lc.17,10). Notiamo che la citazione del salmo 72,22-23 non e` molto appropriata: la` il salmista si accusa di essere stato stolto nel giudicare la felicita` degli empi; SB applica il passo al suo contesto, nel senso di una sincera confessione dinanzi a Dio e di una volontaria accettazione dello stato di abiezione; bello in questo senso (anche se applicato) il v.23: "ma io sono sempre con te"!

51-54: 7^ GRADINO: coscienza della propria miseria, di essere l'ultimo di tutti

Il 7^ gradino corrisponde all'8^ "indizio" di Cassiano ed e` collegato strutturalmente al precedente: e` il culmine della umiliazione, dell'abbassamento di se stesso; il monaco si riconosce piu` indegno e spregevole di tutti. Il progresso, rispetto al gradino precedente, e` sopratutto nel fatto che e` piu` facile il riconoscimento della propria pochezza nei confronti di Dio, molto meno nei confronti degli altri. Nelle Vitae Patrum (3,206) si legge: "Crediti inferiore a tutti gli uomini""; nella Regola di Macario (3): "Ciascuno si disprezzi come inferiore a tutti"; in S.Basilio (Regola 62): "L'umilta` sta nel riputare tutti gli uomini superiori a noi". Del resto, il consiglio risale a S.Paolo: "Ciascuno di voi consideri, in tutta umilta`, gli altri superiori a se stesso" (Fil.2,3 e poi prosegue con il famoso inno sulla "kenosis" di Cristo).

Delle tre citazioni bibliche notiamo che nella seconda del salmo 87,16 il salmista (secondo la Volgata) rileva che dopo essere stato esaltato, e` stato umiliato e oppresso. SB cita il testo nel senso che Dio umilia e confonde come castigo dell'orgoglio; la nuova traduzione dice: "sono sfinito, oppresso dai tuoi terrori". La citazione del salmo 118,71 e` precisa ed e` molto importante per lo sfondo teologico di questi gradini: l'umilta` e` vista come il risultato di un cammino di fede; dentro la propria umiliazione si riconosce la presenza di Dio, l'azione educativa di Dio che ci purifica: "Bene per me se sono stato umiliato... Commovente poi la citazione del salmo 21,7: "Io sono un verme..."; cosi` il monaco si appropria della parola di Cristo sofferente e diventa simile a lui.

(Conviene avvertire che poche anime arrivano a questa cima e ci vivono abitualmente: e` certamente un dono di Dio" (Marmion).

55: 8^ GRADINO: evitare la singolarita`

Finora l'umilta` si e` mantenuta sopratutto all'interno: la Regola ha cercato di radicare l'umilta` nel cuore del monaco. Ora si passa alle manifestazioni esteriori. Questo 8^ gradino e` contro ogni tendenza alla singolarita`, alla distinzione in cui si annida lo spirito di orgoglio, la vanita`. Corrisponde al 6^ "indizio" di Cassiano con una aggiunta molto importante. Cassiano dice communis regula <la regola comune> e non si riferisce a nessun codice monastico, ma alla dottrina comune, alla disciplina tradizionale vigente nei cenobi dell'Egitto; SB aggiunge communis monasterii regula <la regola comune del monastero> e allude alla Regola scritta (questa Regola) vigente nel monastero. I "maggiori" (o anziani) sono certamente i superiori, ma anche gli altri anziani piu` edificanti, forti della loro esperienza.

56-58: 9^ GRADINO: spirito di silenzio

59: 10^ GRADINO: moderazione nel ridere

60-61: 11^ GRADINO: gravita` nel parlare

Questi tre gradini si ricollegano alla dottrina del silenzio, gia` vista nel capitolo 6 e in un gruppo di strumenti delle buone opere (RB.4,51-54); sono cioe` alcuni aspetti della "taciturnitas". Il nono invita a frenare la lingua, il decimo a non ridere facilmente, l'undicesimo come deve parlare un vero monaco.

La citazione di Prov.10,19 nel 9^ gradino gia` l'abbiamo incontrata in RB.6,4. Nell'altra citazione del salmo 139,12 il senso e` che l'uomo di cattiva lingua, il calunniatore, non prosperera` sulla terra (nuova traduzione: "il maldicente non duri sulla terra"). SB applica il versetto nel senso che l'uomo di molte parole, il chiacchierone, cammina sbandato e dissipato sulla terra, senza pensieri seri che lo guidino.

Il 9^ e l'11^ gradino in Cassiano sono uniti in un unico "indizio", il nono; sopratutto si raccomanda una norma molto comune tra i monaci antichi: non parlare senza essere interrogati. In quanto al riso, esso non godeva buona fama tra i monaci primitivi, ma non si proibisce il riso in senso assoluto, bensi` la facilita` al ridere, la leggerezza, il ridere in ogni luogo e ad ogni futile occasione, sgangheratamente.

Al v.60 SB sostituisce rationabilia <parole sensate> a sancta <parole edificanti> della RM: non chiede ai monaci la capacita` di edificare il prossimo, ma semplicemente ragionevolezza e autocontrollo.

Nell'undicesimo gradino al v.61 SB introduce la citazione con le parole "come sta scritto" che in genere si riferiscono alla S.Scrittura; non e` escluso che egli citi a orecchio pensando che si tratti di una frase biblica dei libri sapienziali (come gli e` gia` successo in RB.7,33); invece la sentenza, sapiente e bella, si trova in una raccolta di massime di Sesto, un filosofo pitagorico, tradotte da Rufino nel IV secolo.

62-66: 12^ GRADINO: umilta` in tutto l'atteggiamento esteriore della persona

In questo gradino il monaco e` investito in tutta la persona, fino alla corporeita`, dall'atteggiamento di umilta` che nasce dalla coscienza della presenza di Dio, raggiungendo un tale grado di custodia di se`, da cambiare anche gli atteggiamenti piu` irriflessivi.

Appare chiara la relazione di questo ultimo gradino con il primo. Dobbiamo notare specialmente che il giudizio di Dio che nel 1^ gradino appare come un orizzonte lontano anche se terribile (v.11, nel 12^ gradino e` presente: il monaco umile "si vede gia` davanti al tremendo giudizio di Dio" (v.64), perche` la sua fede e il ricordo continuo dei suoi peccati ha operato questa specie di anticipazione di una realta` escatologica. Tema comune ad ambedue gli estremi gradini della scala, il peccato stabilisce fra loro una sequenza paradossale: mentre nel primo si raccomanda al monaco di guardarsi costantemente dal peccato e dai vizi (v.12), il monaco arrivato all'ultimo gradino "si sente in ogni istante colpevole dei propri peccati" (v.64). Progresso sorprendente: uno si guarda costantemente dal peccato per sentirsi alla fine piu` peccatore che mai! Ma il paradosso si spiega con l'esperienza dei santi e la logica propria della scala dell'umilta` in cui non si sale se non abbassandosi.

Notiamo al v.65 che la citazione riguardo al pubblicano (Lc.18,13) e` fatta a mente e composta quasi come un mosaico della descrizione che Luca fa del pubblicano e delle parole che questi dice.

67-70: Epilogo

Come la scala di Giacobbe, la scala dell'umilta` non termina in questo mondo, conduce "all'esaltazione celeste" (v.5). Per questo la RM, alla "carita` perfetta" che corona la scala come in Cassiano, aggiunge con logica una lunga descrizione del cielo (RM.10,92-122), presa dall'apocrifa "Passione di S.Sebastiano". SB, eliminando la conclusione escatologica della RM, restituisce importanza alla conclusione di Cassiano, secondo cui al timore succede l'amore gia` su questa terra e mantiene la scala dell'umilta` nei limiti del progresso spirituale in questa vita, anche se cosi` in RB c'e` un'incongruenza tra il preambolo, che parla di una scala levata verso il cielo, e l'epilogo in cui non c'e` piu` la prospettiva escatologica.

La RB in effetti adotta la teoria di Cassiano sullo scopo e l'obiettivo a cui deve tendere la vita monastica, che e` il "Regno di Dio". Attraverso il timor di Dio, la rinuncia al mondo e alla propria volonta`, l'obbedienza, il cammino nell'umilta` - considerata specialmente come imitazione e sequela di Cristo nella sua "kenosis" - che riassume tutto il laborioso processo di estirpazione dei vizi e acquisto delle virtu`, la Regola cerca di portare il monaco alla purezza del cuore (v.70: "nel suo operaio ormai purificato dai vizi e dai peccati"), alla perfezione delle virtu` (v.68: "senza alcuna fatica, quasi spontaneamente in forza della consuetudine" e v.69: "per la stessa buona abitudine e per il gusto della virtu`"), alla carita` (v.67: quella carita` che divenuta perfetta scaccia via il timore") che e` l'ultimo scopo della vita monastica.

Notiamo al v.69 un'interessante aggiunta di SB al testo di Cassiano e della RM: "amore Christi" <per amore di Cristo>. Si noti in tutto il brano dei vv.67-69 l'abbondanza degli incisi che definiscono la condizione di chi e` ormai ispirato e condotto solo dall'amore; e` lo stesso tono incoraggiante della finale del Prologo, quando alla visione delle asprezze e delle difficolta` segue quella dell'indicibile dolcezza con cui si corre per le vie di Dio con il cuore dilatato dall'amore (Prol.49, proprio di SB). "Tutto questo il Signore operera` nel "suo operaio" (Prol.14) per mezzo dello Spirito Santo" (v.70).


CONCLUSIONE

L'umilta`, nella RB come nella tradizione patristica e monastica anteriore, esprime un concetto completo con molti e diversi elementi, un compendio di cammino ascetico; ma una ascesi che non solo sbocca alla contemplazione, ma include gia` in se stessa una levatura mistica di grande efficacia. Perche` umilta` significa anzitutto imitazione di Cristo secondo la prospettiva paolina; cioe` non solo l'imitazione esterna dell'esempio di Gesu` storico, ma la comunione intima con i suoi sentimenti, la partecipazione alla "kenosis" di Colui che "non considero` un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio", ma preferi` la nostra pochezza e miseria, e nel suo amore arrivo` a dare la vita per noi sulla croce.

Lungo tutta la salita dell'umilta` avanza Cristo con il monaco, o meglio il monaco accompagna Cristo fino al profondo del suo annichilimento. I momenti piu` dolorosi di questo cammino di croce, tanto difficile per la nostra natura umana, rappresentano altrettante modalita` dell'imitazione di Cristo. Cosi` nel 2^ gradino il monaco ripete: "Non sono venuto a fare la mia volonta`, ma la volonta' di colui..." (Giov.6,38); nel 3^ obbedisce con Cristo "fattosi obbediente sino alla morte..."

(Fil.2,8); nel 4^ - il gradino del martirio dell'obbedienza - ripete: "Per te siamo messi a morte ogni giorno, siamo considerati come pecore da macello" (salmo 43,22). Altre frasi tremende mette SB sulla bocca del monaco umile nel 6^ e 7^ gradino, fino a "Io sono verme e non uomo" (salmo 21,7) di Cristo sulla croce. Siamo proprio alla piu` alta vetta dell'umilta` (RB.7,5). E allora precisamente il monaco arriva a quel grado di "amore di Dio che, divenuto perfetto, scaccia via il timore" (RB7.67) e si realizza la grande trasformazione interiore per opera dello Spirito Santo; come si verifico` in Cristo quando, giunto al fondo della sua "kenosis", "proprio per questo Dio lo esalto` e gli diede un nome che e` al di sopra di ogni altro nome" (Fil.2,9).

Ecco dunque la scala dell'umilta`. Siamo partiti con il timor di Dio, siamo condotti lungo il cammino da Cristo e procediamo con Cristo e, al termine di questa pedagogia arriva lo Spirito Santo e si comincia ad operare con quella carita` perfetta che scaccia il timore e si va avanti senza sforzo, naturalmente. Cosi`, lungo la scala dell'umilta`, operano nel monaco Padre, Figlio e Spirito Santo.




 

CAPITOLI 8-11

Introduzione alla sezione sull'Opus Dei.

Nei testi piu` antichi, per "OPUS DEI" <Opera di Dio> si intende tutta la vita spirituale del monaco o, semplicemente, la vita monastica. Poi a poco a poco il significato si restrinse a designare la vita di orazione organizzata intorno alla lettura della Parola di Dio, alla salmodia e alla preghiera silenziosa. Questo e' il senso di "Opus Dei" nella RB, con particolare riferimento alla Preghiera liturgica comune, l'Ufficio Divino, o come diciamo oggi, la Liturgia delle Ore.

Tratteremo di seguito in questa sezione i capitoli della RB che riguardano l'ordinamento dell'Ufficio Divino (cc.8-18), il modo di pregare (cc.19-20) e, come appendice, le norme per il segnale dell'ora dell'Ufficio Divino e per la disciplina in coro (c.47) e l'oratorio del monastero (c.52).

 

ORDINAMENTO DELL'UFFICIO DIVINO (cc.8-18)

Importanza dell'Ufficio Divino nella RB

Al gruppo dei capitoli relativi alla dottrina ascetica segue un blocco di capitoli relativi alla preghiera. E' da notarsi la loro posizione, quasi a dire che l'Opus Dei e' l'occupazione principale della vita cenobitica. Nella RM, invece, il direttorio dell'Ufficio si trova nei cc.33-45, dopo l'argomento sul dormitorio e la levata.

E' senza dubbio errato considerare i Benedettini come "fondati per il coro"; ma e` anche certo che nella mente del S.Legislatore, interpretata poi da tutta la tradizione benedettina, la liturgia costituisce l'occupazione conventuale essenziale e primaria a cui nulla deve anteporsi: "Nihil Operi Dei praeponatur" <Nulla si anteponga all'Opera di Dio> (RB.43,3).

Capitoli 8-18: un blocco omogeneo

La sezione sull'Ufficio Divino e` molto omogenea sia dal punto di vista dell'argomento che del vocabolario e dello stile. Vi abbondano, sotto questo aspetto, anormalita` linguistiche, vocaboli e modi di dire del latino volgare, della lingua corrente del sec.VI. E` probabile che tutto il blocco dei cc.8-18 formasse un fascicolo a se` che conteneva il "corpus liturgico" dei monaci prima della redazione della RB; fu poi inserito da SB nel corpo della sua Regola con alcune modifiche.

Prescindiamo dalla divisione e dal titolo dei singoli capitoli, cose che sembrano abbastanza fittizie, e rileviamo l'importanza di questa sezione che risulta dal fatto stesso della quantita`, della minuziosita` con cui viene stabilita ogni parte dell'Ufficio Divino e dal posto preminente che occupa nella Regola, subito dopo la sezione dottrinale e prima della parte legislativa propriamente detta.

Origine del "cursus" benedettino

Si era parlato e si era scritto per molto tempo sull'influsso dell'Ufficio benedettino su quello romano. In seguito, dopo una notevole serie di studi, si e` dimostrato (e oggi e` pacifico) tutto il contrario, cioe` che l'ufficio benedettino segue passo passo l'ufficio romano classico. La Regola, in un punto preciso (RB.13,10) a proposito dei cantici, fa riferimento alla salmodia della chiesa romana; pero` questo influsso si rivela altrove, sopratutto per le ore principali, Lodi e Vespri, e talvolta l'ufficio della vigilia; per il resto la RB si ispira al "cursus" dei monasteri romani, quindi con struttura tipicamente monastica. Inoltre e` facile scoprire contatti innegabili con altre tradizioni liturgiche, come l'ufficio bizantino, milanese, spagnolo, e piu` particolarmente l'ufficio dell'ambiente di Lerins - Arles e quello descritto nelle Istituzioni di Cassiano.

Quindi l'Ufficio Divino di SB e` eclettico, cioe` prende di qua e di la`, come del resto tutta la Regola. RB 8-18 ha come fonti principali RM e l'ufficio romano classico; come fonti secondarie le tradizioni liturgiche citate sopra; in un quadro molto stabile accoglie una grande varieta` di suggeriemnti di origine diversa.

Caratteristiche e varianti rispetto alle fonti

Una prima caratteristica che si nota nel cursus benedettino e` l'interesse per la precisione, per la massima regolamentazione di tutti i particolari. Se in SB appare sempre il senso, quasi il pallino, dell'ordine, cio` e` molto piu` evidente nel caso dell'Ufficio Divino. Altra caratteristica: rispetto alle due fonti principali (RM e ufficio romano classico), SB abbrevia nettamente. Nel caso delle vigilie, SB abbrevia per dare ai monaci un tempo piu` lungo di sonno continuo, nel caso delle ore diurne abbrevia in favore del lavoro: cio` sembra dovuto al fatto che il monastero previsto da SB sta in campagna e ci si trova in un periodo di difficolta` economiche dovute alla guerra tra Goti e Bizantini. Si deve dire anche che SB mitiga la durata dell'Opus Dei in virtu` di tendenze gia` presenti nelle sue fonti. RB e` piu` mitigata anche nei raduni e nelle sanzioni per i ritardatari.

In compenso SB aggiunge alcune particolarita` molto espressive e di grande valore teologico. Cosi' il "Deus in adiutorium" all'inizio delle ore diurne (RB.18,1) con cui si invoca l'aiuto di Dio (probabilemnte SB l'ha preso sotto l'influsso di Cassiano, Coll.10,10, che ne fa grande elogio come formula per mantenere sempre vivo il ricordo, la presenza di Dio); il salmo 3 di attesa alle vigilie (RB.9,2) e il salmo 66 di attesa alle lodi (RB.12,1); gli inni a tutte le ore (RB.12,4; 13,11; 17,8); il "Te Deum" (RB.11,8); il "Te decet laus" (RB.11,10), inno trinitario greco preso dalle "Costituzioni Apostoliche". Cosi` RB ha meno salmi di RM e dell'ufficio romano classico, ma piu` elementi accessori; cio` dona al suo cursus maggiore ricchezza e varieta`.

Un'altra nota caratteristica di SB e` una maggiore flessibilita`; egli sente un'infinita venerazione per l'Opera di Dio ma, sempre "uomo pratico come Gesu` Cristo", non esita a togliere e modificare qualcosa secondo le circostanze e le necessita` contingenti: le altre attivita` del monaco hanno pure il loro peso, il lavoro e` necessario per il sostentamento, la lectio divina rappresenta un elemento insostituibile per il monaco. Percio` non si puo` tendere l'arco fino a spezzarlo. Lodare Dio continuamente in diversi tempi della giornata e` un dovere e un onore per i cenobiti; pero` mentre per RM l'osservanza liturgica e` piu` stretta ed esigente come comunita` (e intanto abbondano le dispense individuali), SB mitiga la norma comune, e` piu` flessibile, pero` esige la sua osservanza e concede meno facilmente dispense individuali.

Tre principi intangibili

Tre principi sono posti in grande rilievo e come intangibili da SB:

1) La recita del salterio intero in una settimana. C'era negli ambienti monastici della regione la tendenza ad accorciare e SB e` su questa linea e prevede anche che si possano distribuire i salmi diversamente (RB.18,23), purche` pero` si mantenga la recita integrale del salterio in una settimana secondo la tradizione romana e probabilmente anche bizantina che SB giustifica ricorrendo alle "Vitae Patrum" egiziane (RB.18,24).

2) Le ore dell'Ufficio diurno debbono essere sette, senza cioe` contare le Vigilie (l'Ufficio notturno), e per far questo SB aggiunge l'ora di Prima e giustifica il tutto con due citazioni del salmo 118: "Nel cuore della notte mi alzavo a renderti lode", v.62, e questo vale per l'ufficio notturno; e "Sette volte al giorno io ti do lode", v.164, e questo vale per le ore diurne, cioe`: lodi. prima, terza, sesta, nona, vespro e compieta (RB.16,1-2). Con questa ingegnosa esegesi SB giustifica il cursus liturgico. In mancanza di argomenti migliori...!

3) All'Ufficio notturno si debbono recitare dodici salmi, sia d'estate che d'inverno, sia di domenica che nei giorni feriali. Questa usanza si appoggiava a una tradizione monastica antica che si credeva di origine soprannaturale: la famosa "regola dell'angelo", la cui diffusione e` dovuta sopratutto a Palladio (Storia Lausiaca 32) trasmessa ai monaci occidentali da Cassiano (Inst.12,5): secondo essa fu un angelo a rivelare ai monaci la volonta` divina che si cantassero dodici salmi, ne' uno piu` ne` uno meno, all'ufficio divino della notte.

Con questi tre principi fondamentali, SB si mostra fortemente collegato alla tradizione del monachesimo romano. Eclettico e innovatore sotto certi aspetti, SB e` tuttavia solidamente radicato in un preciso ambiente geografico e storico: "e` innovatore, ma e` anzitutto l'uomo della tradizione" (DeVogue`).

Modo di dire l'Ufficio Divino

L'ufficio monastico antico era fondamentalmente composto dagli stessi elementi di oggi, ma aveva un aspetto abbastanza diverso. La Parola di Dio - canto dei salmi e lettura dei brani da altri libri della Sacra Scrittura - era, allora come oggi, la base principale. Ma il modo di salmodiare era diverso da oggi. Per esempio, i cenobiti di Pacomio celebravano cosi` la preghiera comunitaria: un solista recitava la Scrittura - non necessariamente il salterio - e quando aveva terminato una parte, i fratelli che avevano ascoltato in silenzio, si alzavano, facevano il segno della croce e, a braccia levate, recitavano il Padre Nostro, poi si prostravano a "piangere in silenzio" i loro peccati; quindi, a un nuovo segnale, si alzavano di nuovo e pregavano in silenzio, finche` un ultimo segnale li invitava a sedere ancora e ad ascoltare altri brani della Parola di Dio da un solista. Ugualmente in Cassiano (Inst.2).

Doppio elemento costante

Questo modo di preghiera comunitaria si ando` evolvendo, com'era naturale, ma certamente si mantenne questo doppio elemento importante, cioe` l'alternarsi tra:

- la recita della Parola di Dio e

- l'orazione silenziosa.

Al tempo di SB la recita dei salmi da parte di tutta la comunita` divisa in due cori era sconosciuta o praticata molto raramente. Cantavano i salmi uno o due solisti con la partecipazione degli altri monaci quando la salmodia fosse responsoriale. I salmi interrotti ripetutamente da un'antifona costituivano la maggior parte dell'Ufficio Divino; grazie al ritornello cantato da tutti, l'attenzione si manteneva viva. Dopo ogni salmo si faceva un periodo di orazione silenziosa. Si deve tener presente questo se si vuole rettamente giudicare il cursus di SB.

Dato che SB faceva recitare i salmi secondo un criterio di ordine continuo (per esempio alle vigilie dal 20 al 108, ai vespri dal 109 al 147), si puo` obiettare che si succedevano salmi di temi completamente diversi. L'obiezione si risolve pensando appunto alla preghiera silenziosa dopo ogni salmo e alla colletta salmica. A proposito di questa, che cosa si deduce dalla RB? SB conosceva o no l'orazione salmica? C'e` un indizio contrario in RB.43,4.10: "Chi non giunge al gloria del primo salmo..." sembra indicare la mancanza di colletta salmica. Pero` ci sono anche indizi positivi: RB.20,5 "L'orazione che si fa in comune" e` un richiamo a Cassiano (Inst.2,7) che parla appunto dell'orazione salmica; RB.50,3 "celebrino l'Opera di Dio dove lavorano inginocchiandosi con santo timore" corrisponde a RM.55,4.18 la quale prevede la genuflessione dopo il salmo per l'orazione salmica; RB.67,2 "l'ultima orazione dell'Ufficio Divino...", essendo l'ultima, suppone una serie di orazioni scaglionate lungo l'intero ufficio. Pare quindi giusto dedurre l'uso della colletta salmica in RB, anche se RM e` piu` esplicita in proposito.

Anche per l'orazione silenziosa dopo ogni salmo, abbiamo tutta la tradizione monastica: tale orazione silenziosa era conclusa dal sacerdote che presiedeva. Tra il V e il VI secolo, appaiono serie di collette salmiche dette come conclusione della pausa silenziosa. Nella RM la pausa durava almeno un minuto e mezzo, altrove piu', altrove meno. La cosa comincia poi ad entrare in crisi sia perche` il gesto che l'accompagnava, cioe` la genuflessione, e` scomodo, sia perche` spesso non si sa come passare il tempo di silenzio (vedi quanto e` attuale il problema!). "Cosi` l'orazione salmica era presente sia al corpo che all'anima per la fatica fisica della prostrazione e per lo sforzo spirituale dell'orazione silenziosa. A partire da queste due difficolta` bisogna spiegare senza dubbio la sua scomparsa. E` un fatto compiuto gia` nell'ambiente di SB? La poverta` della documentazione sull'Italia non ci permette di affermarlo" (DeVogue`). Pur nell'incertezza e divergenza di opinioni, riteniamo comunque che nella salmodia secondo la RB l'orazione silenziosa dopo ogni salmo e la colletta salmica erano due elementi di grande importanza.

Nota sull'orario in SB

Per capire bene tutte le indicazioni di orario dei capitoli seguenti, si pensi al modo di computare di SB. Ogni ora non consta di 60 minuti, ma varia secondo le stagioni, perche` il giorno, dal sorgere del sole al suo tramonto, e` diviso in dodici parti uguali e cosi` anche la notte; sicche` al solstizio di giugno l'ora del giorno vale 75 minuti, mentre al solstizio di dicembre 45 minuti. L'inverso avviene per la notte. Solo agli equinozi l'ora sia del giorno che della notte e` di 60 minuti.

Inoltre SB divide l'anno in varie tappe segnate da queste date fondamentali:

1) Inizio di Quaresima

2) Pasqua

3) Pentecoste

4) 14 Settembre

5) Principio di Ottobre

6) Principio di Novembre.

Struttura della sezione liturgica della RB

La struttura dei capitoli sull'Ufficio Divino (RB.8-18) e` la seguente:

- cc. 8-11: Ufficio della notte

- c. 14: Ufficio della notte nelle feste dei santi

- cc. 12-13: Ufficio del mattino (lodi)

- c. 15: Uso dell'alleluia

- cc. 16-18: Ufficio del giorno

Si noti che nell'attuale disposizione dell'ufficiatura monastica, il cursus della RB corrisponde allo schema "A" del "Thesaurus Liturgiae Horarum" e quindi si abbia sott'occhio tale schema per capire i cc.8-18 della Regola.




CAPITOLO 8

L'Ufficio Divino della notte.

De officiis divinis in noctibus.

Preliminari ai cc.8-11.14 sull'Ufficio della notte

Passare in veglia buona parte della notte era una pratica molto comune nella Chiesa primitiva, secondo la mistica dell'"attesa dello Sposo" (cf. anche Dante, Paradiso X, 140-141: "Nell'ora che la Sposa di Dio surge a mattinar lo Sposo perche` l'ami"). La vigilia domenicale, iniziata con la grande veglia pasquale, risale ai tempi apostolici. Le altre vigilie notturne cominciarono a celebrarsi in occasione delle maggiori solennita` liturgiche e delle feste dei martiri locali.

Pero`, se i chierici e il popolo cristiano passavano in orazione alcune notti (o parte di esse), i monaci si alzavano tutte le notti sia per recarsi comunitariamente alla salmodia sia per l'orazione privata. Pericio` la giornata del monaco comincia con l'ufficio notturno e da esso logicamente SB inizia le sue prescrizioni. Finora lo si e` chiamato, ma impropriamente, "Mattutino"; dopo la riforma liturgica, "Ufficio delle Letture".

1-2: Levata durante l'inverno

L'Ufficio Divino - e` chiaro - non poteva abbracciare tutta la notte; il corpo e lo spirito hanno necessita` di riposo. E` certo che le prime generazioni di monaci dominarono il sonno fino all'inverosimile. Si pensi, in occidente stesso, a S.Colombano il quale voleva che il monaco "venisse stanco al giaciglio, dormisse gia` mentre camminava e fosse costretto a levarsi prima ancora che cessasse il sonno". Con il suo buon senso e con la sua discrezione, SB vuole che, "secondo una ragionevole valutazione" (v.1), i monaci si alzino riposati e a digestione compiuta. Per cui si alzavano d'inverno all'ottava ora della notte (si ricordi quanto detto sopra sull'orario di SB, cioe` che tutto il tempo diurno e notturno veniva diviso in

dodici parti uguali). Da RB.41,9 risulta che vespro e cena dovevano aver luogo con la luce del giorno: al massimo quindi i monaci andavano a letto circa un'ora dopo il tramonto, cioe' verso la fine della prima ora notturna; e poiche` si alzavano all'ottava ora della notte, il riposo durava sette buone ore notturne; a Natale, quando ogni ora notturna era di circa 75 minuti, il riposo raggiungeva le nostre nove ore, poi man mano si scendeva fino a un minimo di ore 6,15 nostre (quando Pasqua capitava verso il 20 aprile), ma allora forse si regolavano andando a letto un po' prima. Per tutto l'inverno, dunque, la durata del sonno oscillava tra le otto ore e mezzo e le sette ore.

3: Intervallo tra l'Ufficio notturno e quello del mattino

Il sonno piu` che sufficiente gia` concesso esclude che si ritorni a letto dopo l'Ufficio notturno. SB ritarda di quasi due ore la levata rispetto a RM, ma sopprime il "secondo sonno" concesso da RM dopo l'Ufficio notturno in inverno e dopo le lodi mattutine d'estate. In questo SB dipende da Cassiano (Inst.2,13; 3,5) che criticava l'uso del "secondo sonno" allora assai diffuso. Percio` dopo l'Ufficio notturno, i monaci di SB disponevano di un tempo piu' o meno lungo. I fratelli che ne avevano bisogno impiegavano tale tempo nello studio del salterio e delle lezioni (sono le "letture brevi" che si recitavano a memoria come viene detto in RB.9,10 e 12,4.

Nel testo originale c'e` la parola "meditationi" che non si deve intendere nel senso odierno di meditazione, ma nel senso di "esercizio-esercitarsi", che comporta insieme l'imparare a memoria e l'esercitarsi nella salmodia. E i fratelli che gia` sapevano il salterio a memoria, e che quindi non avevano bisogno di tale studio, cosa facevano? Certo non tornavano a letto; avranno impiegato tale tempo nella lettura o nella preghiera personale.

4: Levata d'estate

Per il periodo estivo non e' fissata un'ora precisa per la levata. Essa doveva essere regolata in modo tale che, tra l'Ufficio notturno e quello del mattino, ci fosse solo un piccolo intervallo. Nei mesi aprile-maggio e settembre-ottobre si hanno in media dalle 8 alle 7 ore di sonno continuo; a giugno di meno, fino a un minimo di 5 ore; ma forse si andava un po' piu` tardi all'Ufficio notturno (il quale d'estate e' piu` corto non essendoci le letture come si vedra` al c.10); la siesta prevista da SB (RB.48,5) serviva appunto a compensare il difetto del sonno notturno, specialmente nel periodo centrale.


CAPITOLO 9

Quanti salmi debbano dirsi nell'Ufficio notturno.

Quanti psalmi dicendi sunt nocturnis horis.

 

1-8: Prima parte dell'Ufficio (Primo Notturno)

Questo capitolo parla soltanto dell'Ufficio notturno feriale, del tempo ordinario, nel periodo invernale. Si inizia con il versetto "Signore, apri le mie labbra..." (salmo 50,17), che viene ripetuto tre volte in coro, nel silenzio della notte. SB mostra una certa predilezione per queste formule ternarie sia in onore della SS.ma Trinita`, sia per far penetrare piu` profondamente nel cuore dei monaci i concetti espressi dalle labbra. Il salmo 3 (aggiunto da SB, come detto sopra, forse e` scelto a motivo del v.5: "Io mi corico e mi addormento, mi sveglio perche` il Signore mi sostiene". Il Gloria Patri, breve e popolare dossologia, molto comune al tempo della controversia ariana, e` usato frequentemente da SB nel suo cursus liturgico; qui l'adopera, come alla fine di ogni salmo, secondo l'uso romano. Il salmo 94, "accompagnato dall'antifona, oppure cantato lentamente" (v.3), e` quello chiamato invitatorio, molto adatto al momento sia per l'inizio "Venite, applaudiamo al Signore...", che per il contenuto; era intercalato normalmente da un'antifona, cioe` un versetto con cui il coro si univa al canto del solista o dei solisti.

Per la parola "inno" (v.4), il testo ha ambrosianum, cioe` inni composti o attribuiti a S.Ambrogio. SB li introdusse sotto l'influsso della liturgia lerinese o milanese, mentre la chiesa romana li introdusse solo nel sec.XII.

Seguono i primi sei salmi con le antifone e poi un versetto. Quindi il lettore chiedeva la benedizione all'abate per leggere le letture. Si dice nel v.5 che a questo punto i fratelli si siedono: quindi bisogna dedurre che i salmi erano recitati tutti in piedi; cio` e` confermato dal fatto che SB per il Gloria dei salmi non ordina, come per i responsori (v.7), di alzarsi. E possiamo da qui notare la discrezione di SB che colloca le letture con i responsori dopo i primi sei salmi, mentre nell'Ufficio romano e in Cassiano (Inst.2,4-6) erano alla fine dei dodici salmi: percio` le letture, durante le quali i fratelli stavano seduti, costituivano un vero riposo fisico e spirituale, a meta` di un Ufficio lungo e pesante.

I responsori erano una forma di salmodia, responsoriale appunto, una specie di dialogo tra solista e coro. Si tratta qui del responsorio prolisso, abbastanza sviluppato nel testo e nella melodia (si vedano ad esempio i responsori della Settimana Santa), come si deduce dalla prescrizione di abbreviarli, insieme alle lezioni, qualora i monaci si fossero alzati tardi (RB.11,12); esistono poi anche i responsori brevi, a lodi e a vespro.

9-11: Seconda parte dell'Ufficio (Secondo Notturno)

Si parla ora del secondo notturno, con altri sei salmi; essi hanno per antifona l'alleluia per ricordare che la vita del monaco e` una vita pasquale in unione con Cristo risorto. Si intercalava l'alleluia, ma non sappiamo come e quante volte. Seguiva una lettura breve sia all'Ufficio notturno che a quello diurno.

La litania conclusiva e` la "supplicatio" di origine greca introdotta a Roma sotto Gelasio I (fine del sec.V): era una serie di invocazioni a cui il popolo rispondeva sempre "Kyrie eleison": corrispondono oggi alle invocazioni mattutine e intercessioni vespertine introdotte nella Liturgia delle Ore. Alcuni pensano che SB riservi la forma lunga con le intenzioni alle lodi e al vespro ("litania" RB,12,4; 13,11; 17,8), mentre alle Ore Minori e all'Ufficio notturno la riducesse solo all'elemento popolare Kyrie eleison.


CAPITOLO 10

Come debba celebrarsi l'Ufficio notturno in estate.

Qualiter aestatis tempore agatur nocturna laus.

1-3: D'estate Ufficio notturno piu` breve

Il capitolo precedente parlava della preghiera notturna d'inverno. Nel semestre estivo - da Pasqua a novembre - le notti sono corte; per poter celebrare le lodi mattutine all'alba, si deve anticipare la sveglia e sopprimere il tempo per lo studio dopo l'Ufficio notturno (RB.8,4). Il sonno e` accorciato di parecchio; per non restringerlo troppo, si abbrevia un po` anche l'Ufficio notturno; ma si deve mantenere il sacrosanto numero di dodici salmi: allora si sopprimono le lezioni, riducendole a una sola. a memoria, quindi breve, e seguita da un responsorio breve.

CAPITOLO 11

Come si debba svolgere l'Ufficio notturno nelle domeniche.

Qualiter diebus dominicis vigiliae agantur.

1: Ora della levata di domenica

L'insieme del monachesimo occidentale nel V e VI secolo ha praticato la vera vigilia (le grandi "vigiliae" con salmi e letture che duravano quasi tutta la notte ) ogni settimana. In RB e nell'ufficio romano questa vigilia lunga e` scomparsa e al suo posto rimane l'ufficio notturno allungato. Si puo` vedere in questo fatto una mitigazione della RB, ma anche la soluzione di alcune difficolta` di orario incontrate da altre regole che ritenevano le vigilie complete (in Francia il sabato e la domenica, in Italia solo la domenica); infatti molte regole parlano di espedienti contro i sonnolenti, S.Cesario, ad esempio, obbliga i monaci a rimanere in piedi o a fare qualche lavoro durante le letture per vincere il sonno, ecc. Allora, la riforma radicale di SB (l'abolizione della veglia completa) non e` un rilassamento ma un modo pratico per risolvere il problema: e` meglio, cioe`, dormire e riposare la prima parte della notte e vegliare poi nella preghiera e nella meditazione della Parola di Dio; si perde quindi di durata, ma si guadagna di intensita`; e anche la lectio divina del giorno di domenica a cui SB da` molto piu` tempo (RB.48,22) ne risultera` avvantaggiata. Abbiamo qui un esempio in piu` del primato spirituale sopra l'ascesi solo materiale.

Nonostante sia stata abolita la pratica della vigilia nel senso originale, il nome e` restato (25 volte in RB, come nel titolo di questo capitolo), ma ormai solo nel senso di Ufficio notturno, come appunto quello di "notturno".

2-10: Composizione dei tre "notturni" dell'Ufficio domenicale

L'Ufficio notturno domenicale e` un ampliamento di quello feriale; rimane invariato il numero dei dodici salmi, ma ci sono dodici lezioni con altrettanti responsori prolissi; il terzo notturno ha una struttura particolare, essendo composto di tre cantici dell'AT con alcuni elementi nuovi: "Te Deum", "Amen" dopo il Vangelo, "Te decet laus". De Vogue` pensa , non senza fondamento, che il vangelo proclamato dall'abate alla vigilia domenicale era sempre uno riguardante la risurrezione del Signore.

Un Ufficio cosi` ricco e vario occupava evidentemente buona parte della notte e comportava non poca fatica. Per celebrarlo con dignita` la comunita` doveva alzarsi molto prima degli altri giorni e d'estate il sono era ridotto veramente a poco. Quindi, nonostante l'abolizione della vigilia in quanto tale, abbiamo un ufficio notturno con una ampiezza e una solennita` degne della commemorazione settimanale della risurrezione del Signore.

11-13: Prescrizioni in caso di ritardo

Alzarsi tardi poteva piu` facilmente capitare in quei tempi, perche` mancavano gli orologi a suoneria. Mentre per il giorno avevano la clessidra, la meridiana, l'orologio idraulico e altri strumenti, la difficolta` era grandissima per la notte. Usavano vari espedienti, come per esempio il consumo di una candela, ma piu` spesso dovevano affidarsi al corso delle stelle o al canto del gallo; per tutti era necessaria una speciale attitudine a vegliare. Ma la negligenza, la distrazione, la sonnolenza entravano a volte in causa: SB ribadisce che tale disordine deve assolutamente evitarsi; troppa riverenza merita l'Opera di Dio perche` si debba abbreviare a causa di un ritardo nella sveglia. Si noti che l'abbreviazione, in caso, riguardera` letture e responsori, mai il "sacro" numero dei dodici salmi!

CAPITOLO 14

Come debba celebrarsi l'Ufficio notturno nelle feste dei santi.

In nataliciis sanctorum qualiter agantur vigiliae.

1-2: Nelle solennita`, Ufficio con tre Notturni come la domenica.

Nel titolo si parla solo delle feste dei santi, ma nel corpo del capitolo si tratta di tutte le altre solennita`, ossia le feste dei misteri del Signore: Pasqua, Natale, Epifania, Pentecoste, ecc. Per questo il calendario monastico si era adattato subito alla chiesa romana. Oltre alla B.Vergine Maria, al Battista e ad alcuni Apostoli, a Montecassino si saranno celebrati S.Martino e pochi altri: le feste dei santi erano molto rare.

In questi giorni la struttura dell'Ufficio notturno era quella domenicale, cioe` con il terzo notturno, con dodici lezioni e dodici responsori, soltanto che salmi, lezioni e responsori saranno stati propri di quel giorno festivo.

CAPITOLO 12

Come si celebra l'Ufficio delle Lodi.

Quomodo matutinorum sollemnitas agatur.

Preliminari: LODI, Ufficio del Mattino

L'Ufficio che SB chiama "matutini" o "matutinorum sollemnitas" (la parola "sollemnitas" sta al posto di "sinassi", "riunione liturgica", "Ufficio" come in Cassiano Inst.3,10 ecc.) e` poi rimasto con il nome di LAUDI ("Lodi mattutine" oggi) a causa dei salmi 148, 149 e 150 che conteneva e che la stessa Regola chiama Laudes (RB.12,4). Si dovevano celebrare sempre allo spuntar dell'alba (RB.8,4), era l'Ufficio del nuovo giorno che spuntava.

L'Ufficio delle Lodi e` antichissimo; ai cristiani era particolarmente caro perche` ricordava la risurrezione del Signore Gesu`, il trionfo della luce della grazia sulle tenebre dell'errore. Lo schema di SB dipende dall'Ufficio romano classico, eccetto il responsorio e l'inno. Nel c.12 si parla delle Lodi della domenica; nel c.13 delle Lodi dei giorni feriali.

1-4: Le Lodi domenicali

Il salmo 66 fa da introduzione; si eseguiva lentamente, per i ritardatari, come all'Ufficio notturno l'invitatorio. Poi c'era, con le antifone, il salmo 50 (fisso per tutti i giorni secondo una tradizione gia` antica), affinche` con il "Miserere" ci si purificasse prima di passare a cantare le lodi di Dio. Anche S.Basilio dice che nel far del giorno si soleva cantare "psalmum confessionis" <il salmo di confessione>. Poi veniva il salmo 117, che e` per eccellenza il salmo pasquale, il canto della risurrezione; quindi il salmo 62 che e` il piu` caratteristico come canto del mattino: "O Dio, tu sei il mio Dio, all'aurora ti cerco...". Seguono le "Benedictiones", cioe` il "Benedicite", il canto dei tre fanciulli nella fornace, e le "Laudes", cioe` i salmi 148.149.150 che chiudono il salterio e sono tutta una serie di inviti a lodare il Signore (sono considerati da SB un tutt'uno e sono fissi per tutti i giorni).

L'inno, aggiunto da SB, e` quello che piu` evidenzia il tema di Cristo-Luce. Il cantico del Vangelo (Benedictus) sta magnificamente al termine delle lodi mattutine, specialmente per i versetti: "verra` a visitarci dall'alto un sole che sorge, per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell'ombra della morte", versetti cosi` appropriati nel momento in cui sta per sorgere il sole.

Nella conclusione la prece litanica probabilmente era completa, cioe` con le varie intenzioni cui si rispondeva: "Kyrie eleison..."

4: e cosi` si finisce... ,

ma vedremo al c.33 che bisognera` concludere con il Padre Nostro.

CAPITOLO 13

Come si celebrano le Lodi nei giorni feriali

Privatis diebus qualiter agantur matutini

 

1-11: Schema delle Lodi feriali

Nei giorni feriali rimangono fissi il salmo 66 come introduzione (recitato lentamente perche` tutti possano giungere), il salmo 50 e le "laudes", cioe` i salmi 148.149.150. Cambiano ogni giorno i due salmi dopo il 50 e il cantico dell'AT (corrispondente al "Benedicite" della domenica), come usa la chiesa romana (v.10).

12-14: L'orazione del Signore

Il Padre Nostro insegnato da Gesu` ebbe fin dagli inizi della chiesa il posto d'onore nella preghiera pubblica e privata. In Spagna si recitava solennemente nell'Ufficio divino e cosi` prescrive SB. In tutte le Ore il Padre Nostro si recitava al termine, ma sottovoce, fino al "E non ci indurre..."; ma per le Lodi e i Vespri, cioe` all'inizio e al termine del giorno, SB vuole che si reciti in maniera solenne, a voce alta, da parte del superiore, perche` i monaci si sentano obbligati dalla pubblica promessa di "rimettere i debiti" e si perdonino a vicenda le scandalorum spinae <le spine degli scandali>, cioe` le piccole ferite di ogni giorno, piccoli screzi o incomprensioni che anche in un'ottima comunita` ci sono sempre. Ricordiamo che nei primi secoli il Pater era considerato il mezzo ordinario per rimettere i peccati veniali: "I peccati - dice S.Agostino - anche se sono quotidiani, almeno non siano mortali; prima di avvicinarvi all'altare, badate a dire: dimitte nobis..." (Discorsi su Giovanni 26,11).

Speriamo che non avvenga dei monaci quello che racconta Cassiano (Coll.9,22) di certi cristiani che, arrivati a quel punto del Pater, passavano sotto silenzio il "dimitte nobis", naturalmente per non credersi obbligati al perdono...!

CAPITOLO 15

In quali tempi debba dirsi l'alleluia

Alleluia quibus temporibus dicatur

L'alleluia

Tra i capitoli sull'Ufficio notturno e mattutinale e quelli sull'Ufficio diurno, SB intercala un breve capitolo sull'uso dell'alleluia, parola ebraica che significa lodate Yahwe, che si trova al principio e alla fine di parecchi salmi ed era diventata una formula di giubilo. L'uso dell'alleluia differiva da chiesa a chiesa. Il rito romano classico riservava l'alleluia al tempo pasquale e, nelle domeniche, dal terzo notturno all'Ora di Nona.

L'uso dell'alleluia nella RM

Per la RM l'alleluia significa la speciale appartenenza dei "servi di Dio" al loro Signore (nell'Apocalisse 19,1ss i Santi sono presentati a cantare eternamente l'alleluia). Secondo la RM il monastero come "casa di Dio" rappresenta il cielo; vivere nel monastero equivale a vivere continuamente "con il Signore" in un eterno tempo pasquale, in una anticipazione della vita eterna (RM.13,72; 88,14; 95,23). Percio` la RM usa l'alleluia con singolare abbondanza rispetto al rito romano e alla tradizione lerinese (Lerins-Arles), assegnandolo a tutte le Ore dell'Ufficio feriale.

1-4: L'uso dell'alleluia nella RB

RB si conforma all'uso romano per le domeniche, cioe` l'alleluia dal terzo Notturno fino a Nona; invece, diversamente dall'Ufficio romano, prescrive l'alleluia nei giorni feriali al secondo Notturno. Naturalmente in Quaresima non si dira` mai l'alleluia, mentre da Pasqua a Pentecoste si dira` sempre, cioe` a tutte le Ore, anche nei responsori.

 

CAPITOLO 16

Quali siano i divini Uffici durante il giorno

Qualiter divina opera per diem agantur

1-5: Sette volte al giorno e una volta di notte

SB fissa le Ore canoniche per il giorno: sono sette senza contare l'Ufficio notturno e includendo l'Ora di Prima. Il numero sette, gia` considerato sacro nell'AT, lo e` per l'Ufficio divino in forza del citato v.164 del salmo 118 (certo, il salmista intende dire "sette volte" nel senso di "molte volte", ma la tradizione monastica vi ha visto indicato un numero preciso). SB non include l'Ufficio notturno, per il quale trova una giustificazione nell'altro versetto citato, il 62, del salmo 118. Quindi: "sette volte al giorno" (Lodi, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespro, Compieta) e "una volta la notte" (l'Ufficio vigiliare o notturno).

L'Ora di Prima...

L'Ora di Prima fu istituita, come narra Cassiano (Inst.3,4), nel monastero di Bethlehem, dove i monaci, dopo le Lodi, tornavano a letto; perche` alcuni pigri ne abusavano restandovi fino a Terza, fu introdotto un nuovo Ufficio al levar del sole per dare a tutti lo stimolo di alzarsi e recarsi al lavoro. Poi si diffuse pian piano anche in occidente fin dagli inizi del secolo VI.A Roma era in uso e da qui la derivo` SB (c'e` anche nella RM, manca in Cassiodoro e nell'Italia del Nord). Cassiano parla della resistenza che incontro` la nuova ora, la quale somiglia alle Lodi, ma piu` tardi prese sempre piu` il carattere di preparazione al lavoro. Ad essa SB da` una considerazione speciale, le assegna salmi particolari ogni giorno (mentre per Terza, Sesta e Nona ogni giorno fa ripetere gli stessi salmi).

Nel corso dei secoli l'Ora di Prima era diventata l'Ora di preparazione al lavoro anche nel senso di organizzazione della giornata: si recitava nella sala del

capitolo, si leggeva la Regola, il martirologio del giorno, gli anniversari di morte, l'abate dava gli avvisi o distribuiva incarichi particolari per quel giorno.

... Terza, Sesta e Nona, ...

Terza, Sesta e Nona risalgono a remotissima antichita` nella Chiesa. Ne parlano molti Padri. Furono scelte perche` salisse a Dio la lode nelle tre principali divisioni del giorno, ma fu loro assegnato anche un senso mistico: Terza ricorda la discesa dello Spirito Santo (vedi gli inni); Sesta ricorda la crocifissione di Gesu`; Nona e` l'ora in cui Gesu` discese agli inferi, in cui Pietro e Giovanni salivano al tempio a pregare (Atti 3,1), il centurione Cornelio ebbe la visione (Atti 10,3).

... Vespro, ...

Vespro corrisponde al sacrificio serale dell'AT, come le Lodi corrispondono a quello del mattino. Lodi e Vespro erano considerate le Ore piu` solenni; ad esse SB assegna i cantici evangelici Benedictus e Magnificat e il Pater recitato per intero dall'Abate "propter scandalorum spinas" <per le spine degli scandali> (RB.13,12-14). Il Vespro si celebrava al cominciare della notte. SB ne anticipa un po' l'ora per dar posto alla Compieta. Altri autori coevi e la RM usano anche il termine Lucernaria; SB solo la parola Vespera e non presenta traccia di rito lucernare: vuol dire che si attiene alla piu` pura tradizione romana, l'altro termine rimanda ad influssi liturgici non romani.

... Compieta.

Sulle origini e lo sviluppo di Compieta i liturgisti non sono d'accordo. E` conosciuta gia` da S.Basilio (il quale attesta anche l'uso in essa del salmo 90) e c'e` nell'Ufficio romano classico. Certo, la sua diffusione deve molto all'ordinamento di SB. La parola Completorium significa Ufficio che complet <conclude> l'Opus Dei e la giornata del monaco.

 

CAPITOLO 17

Quanti salmi debbano dirsi in queste Ore

Quot psalmi per easdem horas canendi sunt

1-10: Il numero dei salmi delle Ore diurne

Il numero di tre salmi per ogni Ora e` tradizionale (dall'oriente, all'Ufficio romano, alla RB) e si raggiunge cosi` il sacro numero di 12 (= 3 salmi x 4 Ore, cioe` 12 al giorno come 12 alla notte!). RM mette l'antifona a tutti e tre i salmi delle Ore minori, RB solo se la comunita` e` grande (v.6). A Compieta sempre i salmi senza antifona.

Cantare i salmi con l'antifona comportava piu` tempo e maggiore solennita`, le piccole comunita` non sempre potevano farlo. Tuttavia SB vuole che i salmi delle Ore minori siano recitati singillatim et non sub una Gloria <distinti e non sotto un solo Gloria> (v.2) forse perche` altrove accadeva che i salmi detti senza antifona perdevano anche il Gloria. SB vuole che le Ore minori possano avere salmi non antifonati, se la comunita` e` piccola, ma sempre ognuno con il proprio Gloria.

Le parole missae, missas (vv.4.5.8.10) significano semplicemente la fine dell'Ufficio, che a Compieta termina con la benedizione, alle altre Ore con il Pater. Non pare quindi che ci fosse la colletta conclusiva; e` certo che al Laterano fino al sec.XII il Pater sostituiva la colletta.

 

CAPITOLO 18

Con quale ordine debbano dirsi i salmi

Quo ordine ipsi psalmi dicendi sunt

1-21: Distribuzione del salterio

Delineato lo schema di tutte le Ore, SB ne designa i rispettivi salmi; finora li ha assegnati solo per le Lodi (cc.12-13), mettendo salmi particolarmente appropriati a quell'Ora; e cosi` fara` per Compieta (v.19: ogni giorno i salmi 4.90.133).

Per il resto, divide il salterio in vari gruppi, disposti sommariamente cosi`:

- salmi 1-19 a Prima (vv.2-6)

- salmi 20-108 all'Ufficio notturno (vv.20-21)

- salmi 109-117 e 128-147 a Vespro (vv.12-18)

- salmi 118-127 alle Ore minori (vv.7-11).

A differenza degli orientali, presso i quali il salterio era recitato solo nelle vigilie e nei vespri (i salmi erano raggruppati in sezioni stabili e inseparabili - carismi - che si seguivano senza interruzione), RB e il rito romano includono nella ripartizione settimanale tutte le Ore. Tuttavia anche in SB (e nel rito romano) abbiamo una lectio continua dei salmi (vedi schema sopra). La linea evolutiva della distribuzione del salterio e`: Bisanzio-Roma-RB. RB e` meno semplice, meno coerente, meno omogenea. Si pensi al caso di Prima che inizia il salterio dal lunedi` (v.3), mentre nel rito bizantino e romano il salterio comincia la domenica. Tutto fa ritenere che il salterio benedettino e` un'opera secondaria, su rimaneggiamenti del romano. Con questo, SB ha ottenuto due risultati: l'abbreviazione e la varieta`.

Avendo meno salmi da assegnare alle Opre primitive (Vigilie e Vespri), ha dovuto dividere quelli piu` lunghi, ridurre da cinque a quattro quelli del Vespro; ugualmente, tre strofe del salmo 118 (invece di sei come nel rito romano) alle Ore

minori. SB abbrevia anzitutto a causa del lavoro. L'Ufficio romano era per comunita` urbane; adattandolo a monasteri rurali ha dovuto abbreviare specialmente le Ore minori che interrompevano il lavoro giornaliero. Come gia` si e` detto, lo schema della RB corrisponde allo schema "A" del "Thesaurus" della Liturgia delle Ore nel rito monastico.

22-25: L'intero salterio in una settimana

Terminata l'esposizione del suo cursus liturgico, SB avverte che non intende imporre categoricamente la sua disposizione. Possiamo qui notare la liberta` lasciata dal santo all'iniziativa di altri, o anche la sua umilta` che non pretende di aver creato una struttura perfetta. Lascia quindi liberta`, ma a una condizione: che si salvaguardi la recita settimanale dell'intero salterio. E lo fa appellandosi ai Padri della vita monastica, evidenziando il contrasto tra "i nostri santi padri... alacremente... in un sol giorno" e "noi tiepidi... in una settimana". Pare che si alluda all'episodio delle Viate Patrum (3,6; 5,4.57): un egiziano ando` a visitare un altro, che lo volle ossequiare con una buona cena - un piatto di lenticchie! - ma prima lo invito` a pregare dicendo: Facciamo l'Opera di Dio (Opus Dei), e poi mangeremo". Ambedue erano tanto fervorosi che uno recito` l'intero salterio e l'altro (sempre a memoria, s’intende) due Profeti maggiori!

Insomma SB vuole stimolare l'ardore dei monaci (vedi fine cap.73), far vincere la tiepidezza e la negligenza, incitarli alla corsa continua, al fervore nella via della preghiera, per arrivare a quella preghiera senza interruzione ("Pregate incessantemente" 1Tess.5,17; Ef.6,18; cf.Rom.12,12; Fil.4,6; Col.4,2) di cui la preghiera a ore fisse in comune e` solo un mezzo e una tappa.

 

CAPITOLO 19

Atteggiamento durante l'Ufficio divino

De disciplina psallendi

Preliminari a RB.19-20: lo spirito dell'OPUS DEI

La sezione liturgica di SB si chiude con due brevi capitoli di contenuto diverso dai precedenti. RB.8-18 ha un aspetto - possiamo dire - piu` tecnico: si tratta di organizzare i vari uffici, precisarne le rubriche ecc...; RB.19-20 ha un aspetto piu` spirituale, precisa sopratutto le disposizioni interiori della preghiera.

I due capitoli: "Modo di celebrare il divino Ufficio" (RB.19) e "Riverenza nella preghiera" (RB.20) sono strettamente collegati, perche` salmodia e orazione silenziosa non sono altro che due aspetti di una medesima realta`, due momenti dell'aspirazione dell'anima verso Dio. La distinzione netta e rigorosa tra orazione comunitaria e orazione privata, tra orazione mentale e orazione vocale e` una cosa relativamente moderna. Il problema della relazione tra liturgia e contemplazione non si poneva affatto per la mentalita` degli antichi cristiani. Per gli antichi monaci, come per tutti i cristiani, non esisteva che una sola orazione, camminando o lavorando, nei campi o in monastero: colloquio personale con il Signore, colloquio fondamentalmente basato e mantenuto nella Scrittura e attraverso la Scrittura.

Quindi tutto l'ordinamento scrupoloso sull'Ufficio divino di RB.8-18 non deve trarre in inganno, quasi si vogliano escludere altre forme di orazione, quella che oggi siamo soliti chiamare personale o privata. Non e` cosi`:

Primo, perche` - come abbiamo visto - l'orazione segreta e interna costituiva una parte dell'Ufficio divino da intercalarsi, secondo l'uso monastico, alla recita dei salmi (orazione silenziosa dopo ogni salmo).

Secondo, perche` secondo la RB si chiama orazione tanto l'Ufficio divino, quanto l'orazione privata dentro o fuori del medesimo Ufficio; ambedue, cosi`, non sono che due aspetti di una medesima realta`.

Terzo, perche` per SB, come per tutto il monachesimo primitivo, tutta la vita del monaco senza eccezione era, alla fine dei conti, "Opus Dei" <Opera di Dio>. Tutta la vita del monaco era concepita come strettamente legata alla sua preghiera.

I capitoli 19-20 della RB dipendono da RM.47-48 che presuppongono una fonte comune che non e` facile determinare, con evidenti allusioni a Cassiano (Coll.23,6; Inst.2,10).

1-5: Citazioni scritturistiche

Il c.19, in cui si dice al monaco quale atteggiamento interiore deve avere durante la celebrazione dell'Ufficio divino, e` pieno del concetto della memoria Dei <ricordo di Dio>. La prima citazione, da Prov.15,3, l'abbiamo gia` incontrata in RB.7,26 nel primo gradino dell'umilta` che qui viene in pratica richiamato: e` la coscienza permanente della presenza di Dio, l'atteggiamento radicale di fede in cui Dio e` continuamente presente alla sua creatura. Ebbene, questa "memoria Dei" non deve abbandonare un istante il monaco sopratutto quando compie l'Opera di Dio per eccellenza, la preghiera comunitaria. Seguono tre citazioni dai salmi, frasi che tante volte ripetiamo all'Ufficio divino.

La prima, (v,3 - salmo 2,11) inculca il "timore di Dio", e` il rispetto profondissimo, unico, che costituisce il fondo di tutto l'atteggiamento religioso, che qui SB applica allo speciale servizio d'onore prestato a Dio nella lode pubblica.

La seconda citazione (v.4 - salmo 46,8) si riferisce alla "sapientia" con cui si deve salmodiare. "Psallite sapienter - cantate inni con arte": che cosa significa precisamente? Scienza, abilita`, arte, perfezione, accuratezza, precisione, attenzione? E` difficile precisarlo. Tutte queste cose insieme. Comunque, non c'e` dubbio che "sapienter" si riferisce anzitutto alle disposizioni spirituali dei monaci che celebrano l'Ufficio; non si tratta qui di rubriche o di cerimoniale (che pure hanno la loro importanza), qui si parla della disciplina dell'"uomo interiore".

La terza citazione (v.5 - salmo 137,1) ci trasferisce in una prospettiva molto ampia. Qui c'e` tutta la tradizione monastica sugli angeli e sulla relazione tra vita monastica e vita angelica, in ultima analisi tutta la prospettiva escatologica della vita monastica (e della vita cristiana in quanto tale). La RB vuol dire probabilmente che l'Ufficio divino dei monaci non e` solo anticipazione della liturgia celeste, ma anche una partecipazione del culto che gli angeli tributano a Dio. SB, cioe`, sente vivamente l'unione del cielo con la terra durante la celebrazione dell'Ufficio divino. Inoltre per lui l'Opus Dei non e` soltanto imitare cio` che gli angeli fanno in cielo; ma questi si rendono realmente presenti nella liturgia monastica e i monaci realizzano il servizio divino anche alla loro presenza, come dice espressamente il v.6.

6-9: Conclusione

Dopo le citazioni della S.Scrittura, SB tira le conclusioni: "Ergo - dunque...", e riassume tutta la spiritualita` dell'Ufficio divino con una brevissima ma scultorea frase: Mens nostra concordet voci nostrae <il nostro spirito concordi con la nostra voce>. SB ha presente l'insegnamento dei Padri; si veda sopratutto S.Agostino: "Quando pregate il Signore con salmi e inni, si volga nel cuore cio` che si esprime con le parole" (Epistola 211,7); o quest'altro bellissimo brano: "Se il salmo prega, pregate; se sospira, sospirate; se gioisce, gioite; se spera, sperate; se teme, temete" (Commento ai salmi, II sul salmo 30, discorso 3). La RM espone con molta prolissita` la stessa idea (RM.47,9-20), La brevissima frase di SB e` ancora piu` efficace.


CAPITOLO 20

La riverenza nella preghiera

De reverentia orationis

1-5: Qualita` dell'orazione

SB non definisce la preghiera; da` per scontato che i monaci per cui scrive sappiano bene che cosa sia. Il titolo stesso del capitolo risulta estremamente sobrio. "Riverenza" denota un atteggiamento generale della presenza di Dio, di timore nel senso biblico, che include umilta` e amore.

SB inizia con un argomento "a fortiori": "Se con i potenti..., tanto piu` con Dio..." (vv.1-2). Se la parola "rispetto" <reverentia, come nel titolo> richiama sopratutto l'atteggiamento dell'inferiore nei confronti del superiore, le parole "umilta`" e "purezza di devozione" del v.2 completano la disposizione dell'animo nella preghiera. "Devozione" ha il senso proprio di "dono di se` medesimo", abbandono, adesione piena e senza condizioni.

3: sobrieta` delle parole, purezza del cuore, compunzione:

Sono altre due qualita` che fanno parte della saggezza tradizionale del monachesimo. Alla "riverenza" formata di umilta` e di puro abbandono (= purezza di devozione, dei vv.1-2), si aggiungono ora la "sobrieta' delle parole", la "purezza del cuore" (cioe` quella coscienza monda dai vizi e dai peccati cui SB ha accennato sopratutto nel capitolo sull'umilta`, RB.7,12.18.29.70; vedi piu` sotto il significato della "puritas cordis") e la "compunzione" (anche negli strumenti delle buone opere (RB.4,57) e riguardo all'oratorio (RB.52,4) SB parla delle lacrime che accompagnano la preghiera). Poi SB conclude dicendo che la preghiera sia "breve" e "pura" (di nuovo!), a meno che non si prolunghi per ispirazione di Dio (v.4) e che comunque in comunita` sia breve (v.5).

Due problemi riguardo al c.20

A questo punto vediamo due problemi che sorgono spontaneamente da questo breve testo della Regola.

Primo problema. Che il c.20 parli della preghiera personale e` evidente; ma SB si riferisce si riferisce all'orazione privata fuori dell'Ufficio divino o anche - e forse in primo luogo - all'orazione salmica, cioe` alla preghiera silenziosa che i fratelli facevano prostrati a terra, dopo ogni salmo? Una risposta precisa non e` facile, perche` il testo non e` abbastanza chiaro. Tuttavia ci sono ragioni piu` valide per ritenere che SB in questo capitolo si riferisca anzitutto alla preghiera personale nell'ambito dell'Ufficio divino. La posizione stessa del capitolo, come termine finale della sezione dell'Ufficio divino e dopo il capitolo 19 sul modo di salmodiare, induce a credere che SB, mentre redigeva il testo, stesse pensando all'orazione silenziosa dopo i salmi in coro; poi all'improvviso, nel v.4, annoto` un'osservazione che gli venne in mente riguardo alla preghiera privata fuori dell'Ufficio (quando la si puo` protrarre per ispirazione divina); e difatti con la frase successiva posta in contrapposizione "ma in comune" del v.5, ritorna al tema originale, cioe` alla preghiera privata dopo ogni salmo, che doveva durare fino a quando il superiore dava il segnale (v.5) e tutti si levavano per cominciare la salmodia. La frase riecheggia le espressioni di Cassiano e di Pacomio sull'argomento (vedi quanto detto sopra sul modo di salmodiare degli antichi nell'introduzione a tutta la sezione liturgica). Si noti ancora che i passi paralleli della RM si riferiscono alla preghiera silenziosa dopo ogni salmo (RM.48,10-11). Tuttavia - ripetiamo - la questione non e` chiara. E forse e` meglio superarla pensando all'unita` della preghiera (comune e personale) presso i monaci (cf.sopra, preliminare al c.19)

Secondo problema. L'altra questione importante e` il significato preciso di certi termini con i quali SB descrive le qualita` della preghiera.

Balza agli occhi in questo c.20 la mancanza di citazioni bibliche, in contrasto con il c.19 che ne e` pieno (Tuttavia c'e` nel v.3 chiara l'allusione alle parole di Gesu` sulla preghiera in Matteo 6,7 e a tutto l'insegnamento della parabola del fariseo e del pubblicano in Luca 18,9-14).

In compenso, il capitolo intero e` pieno delle idee del monachesimo precedente sulla preghiera, e non solo le idee, ma il linguaggio, lo stile, i termini sono caratteristici della scuola sopratutto di Evagrio Pontico e di Cassiano. Cosi` la parola purezza appare in tre versetti consecutivi: "purezza di devozione" (v.2), "purezza del cuore" (v.3), "preghiera breve e pura" (v.4): ebbene, si tratta di espressioni tecniche di Cassiano e della sua spiritualita`.

puritas cordis, oratio pura

"Puritas" o piu` spesso "puritas cordis" indica la cima dell'itinerario ascetico-spirituale, cioe` la totale liberazione dalle passioni, la carita`, la perfetta armonia dell'uomo paradisiaco (Coll.10,7). Alla "puritas cordis" corrisponde la "oratio pura". Ci troviamo proprio alle vette della vita spirituale. i fatto, per Evagrio e per Cassiano "oratio pura" e` l'espressione tecnica per indicare l'orazione perfetta, la contemplazione suprema (Coll.9,8).

Che cosa rimane di tutto cio` in RB.20? Cioe`, come intende SB questa "puritas cordis", questa "oratio pura"? Certamente, SB e` influenzato da Cassiano; i termini che usa: devozione, compunzione, lacrime, si trovano tali e quali in Cassiano (Inst.5,17; Coll.3,71; 19,1 ecc...), come anche per la brevita' (Inst.2,10; Coll.9,36). Quindi si puo` dire che SB, con i vocaboli che utilizza, suggerisce l'ideale dell'orazione pura nel suo grado piu` elevato.

Pero`, ... suggerisce soltanto! Uomo pratico secondo Gesu` Cristo, non puo` con poche qualita` esposte sulla preghiera, proporre a semplici principianti le vette dell'orazione. La Regola, in effetti, non parla delle cime dell'orazione come le insegnano Evagrio e Cassiano, ma dell'orazione di tutti i giorni. Che SB voglia lanciare anche i suoi discepoli verso le "cime" e che lo desideri, non c'e` dubbio. Pero` le sue istruzioni, i suoi principi fondamentali si riferiscono all'immediato:

ora e qui la preghiera deve essere riverente, umile, piena di abbandono, breve e pura (cioe` intensa, senza distrazioni) e deve sgorgare da un cuore puro (cioe` sincero, senza macchia di peccato) e contrito. Tutto cio` SB lo ha espresso con quattro coppie consecutive di vocaboli:

- con umilta` e rispetto (v.1),

- con tutta umilta` e purezza di devozione (v.2),

- nella purezza del cuore e la compunzione delle lacrime (v.3),

- breve e pura (v.4)

Questo e` il senso del c.20 della Regola.


CAPITOLO 47

Il segnale per l'Ufficio divino

De significanda hora Operis Dei

Preliminari:
complementi alla sezione liturgica (RB.47; 50; 52)

Fuori della sezione propriamente liturgica, SB parla altre volte dell'Opus Dei, per esempio a proposito delle scomuniche (RB,23-30), dei ritardatari (RB.43-46), a proposito del dormitorio e del silenzio notturno (RB.22 e 42), a proposito dell'orario (RB.48) e altrove parlando della giornata e della vita del monaco, perche` l'Opus Dei e` nel monastero la cosa piu` importante a cui nulla si deve anteporre <nihil Operi Dei praeponatur, RB.43,3>.

Trattiamo cominque subito, in questa sezione, il capitolo sul segnale dell'Ufficio divino e le norme di recitazione (RB.47), sull'Ufficio divino fuori dell'oratorio (RB.50), sull'oratorio del monastero (RB.52).

1: Il segnale per l'Ufficio divino

Il titolo si riferisce solo alla prima parte del testo (v.1). SB aggiunge poi altre precisazioni che riguardano la disciplina in coro durante la celebrazione. Si dice anzitutto che la responsabilita` della puntuale celebrazione liturgica, di notte e di giorno, ricade sopratutto sull'abate, il quale o prende l'incarico lui stesso o lo affida a qualche fratello "molto attento". In un'epoca in cui le ore variavano da un giorno all'altro e in cui i procedimenti per calcolare il tempo erano piuttosto rudimentali, tale incarico era piu' difficile di quanto sembri a prima vista.

Il modo di dare il segnale era vario presso gli antichi monaci. Nei monasteri pacomiani si chiamava con la voce o si batteva uno strumento qualsiasi; le vergini di Santa Paola erano chiamate al canto dell'alleluia (S.Girolamo, Eistola 108,19); Cassiano riferisce che si bussava alle porte (Inst.4,12). Puo` darsi che SB pensi alla percussione di lamine di metallo o di tavolette. Il fascetto di verghe posto da qualche pittore in mano al santo, piu` che uno strumento penale, indica forse uno strumento destinato alla sveglia; nel caso, sarebbe stato il patriarca stesso - come dice qui il testo - a svegliare i monaci.

2-4: Disciplina del coro

Spetta ugualmente all'abate designare chi deve cantare o leggere. Il buon ordine della celebrazione e l'edificazione dell'assemblea esigono che facciano i solisti solo coloro che sono in grado di farlo, e cio` si riferisce tanto alla precisione materiale quanto alle disposizioni spirituali: umilta`, gravita` e grande riverenza (v.4).

Notiamo che il verbo imponere (v.2), piu` che "intonare" un salmo, significa qui recitarlo integralmente. Tuttavia cio` risulta piu` facile che "leggere" (v.3) per il fatto che i salmi si recitavano a memoria, mentre leggere nei manoscritti dell'epoca era un'impresa piu` complicata e certamente non erano molti i monaci che potevano farlo con competenza e soddisfazione di tutti.


CAPITOLO 50

Dei fratelli che lavorano lontano dall'oratorio o sono in viaggio

De fratribus qui longe ab oratorio laborant aut in via sunt

La veritas horarum delle celebrazioni liturgiche

L'Ufficio divino si celebrava normalmente nell'oratorio e alle ore stabilite, aderendo al senso storico e mistico che ogni ora possiede (quello che dopo la riforma liturgica si chiama la "verita' delle ore liturgiche"). Ora, poteva succedere a volte - o forse con frequenza - che alcuni monaci non potevano per lontananza trovarsi in coro tutte le volte che la comunita` si radunava.

1-3: I fratelli che lavorano lontano

Il primo caso che la RB contempla e` quello del lavoro. E` vero che SB vuole che abitualmente i lavori dei monaci si svolgano dentro la cinta del monastero (RB.66,6-7), ma a volte per vari motivi - sopratutto si pensi al lavoro dei campi - si poteva essere abbastanza distanti per accorrere alle varie Ore canoniche. Secondo la RM bastavano 50 passi di distanza per essere dispensati dall'andare in coro (RM.55,2), il che pare un po` ridicolo. SB lascia all'abate di giudicare se i monaci possono o no venire in coro.

In caso negativo, questi "celebrino l'Opera di Dio dove lavorano, inginocchiandosi con santo timore" (v.3). Che cosa significa quest'ultima frase? Vuole forse dire che il fatto di celebrare l'Ufficio fuori dell'oratorio non dispensa dal prostrarsi per l'orazione silenziosa che c'era dopo il canto di ogni salmo? Il luogo parallelo della RM.55,4 potrebbe far propendere per tale interpretazione. Oppure significa semplicemente di seguire le stesse rubriche che si seguono in coro; o ancora un avvertimento ai monaci di non prendersela alla leggera e alla sbrigativa, ma fare tutto con precisione e riverenza? Notiamo che SB da` per scontato che ogni monaco - non esisteva la distinzione tra chierico e non-chierico, tra professo semplice e professo solenne - ha l'obbligo dell'Ufficio divino.

4: I monaci in viaggio

Il secondo caso di assenza riguarda i fratelli in viaggio. Per questi SB dimostra un'assennata mitigazione e riserva: quando si viaggia, non sempre le circostanze permettono di seguire il completo cerimoniale o il perfetto orario; percio` i fratelli facciano come meglio possono.

Nell'ultima frase c'e` l'espressione servitutis pensum <debito del loro servizio, v.4.> per indicare la preghiera liturgica; in RB.49,5 la stessa espressione indica le varie osservanze del monaco. E` la stessa idea di tutta la vita del monaco come "servizio", "milizia di servizio" (RB.2,20) e di questo servizio l'espressione piu` alta e` appunto la lode di Dio. Ne` deve meravigliare l'idea di "debito": a volte la preghiera comune puo` essere pesante e costituire un vero sacrificio!

Notiamo che oggi, nelle odierne condizioni del lavoro monastico puo` essere piu` frequente l'assenza di qualcuno. E in piu` si permette (nello spirito anche di mitigazione che SB mette in questo capitolo: "come meglio possono", v.4) la congiunzione di alcune Ore canoniche. Dobbiamo pero` tendere con ogni sforzo alla "verita` delle Ore" e al ritmo della lode di Dio nei vari momenti della giornata.


CAPITOLO 52

L'oratorio del monastero

De oratorio monasterii

Questo capitoletto apporta un prezioso completamento alla sezione liturgica, perche` lascia intravedere dei prolungamenti alla preghiera comune nel corso della giornata. RB.52 corrisponde a RM 68, che pero` tratta soltanto del silenzio da osservarsi uscendo dall'oratorio: i monaci non debbono seguitare a canticchiare i salmi.

1: L'oratorio del monastero

Per comprendere la prima frase di SB (v.1), bisogna tener presente che era abbastanza normale per gli antichi fare qualche piccolo lavoro manuale mentre ascoltavano la salmodia del solista o le letture. Cosi` per i monaci egiziani, probabilmente anche nelle comunita` pacomiane. S.Cesario di Arles proibisce alle monache di lavorare durante l'Ufficio (Regula virginum, 10), pero` vuole qualche lavoretto durante l'Ufficio notturno per vincere il sonno (Ibid.15). In questo contesto si comprende la concisa ed energica frase di SB: "L'oratorio deve essere cio' che il suo nome significa" (v.1): la casa della preghiera non sara` mai per SB un laboratorio, ne` servira` talvolta a consumare i cibi, ne` fungera` mai da parlatorio, ne` diventera` un luogo, anche provvisorio, per deporre strumenti di lavoro o altri oggetti non destinati al culto.

2-3: Silenzio terminato l'Ufficio divino

Che nell'oratorio si celebra l'Opus Dei, si sa. SB ricorda qui (vv.2-3) che, terminato l'Ufficio divino, "tutti escano in silenzio"; e passa poi al tema che gli interessa particolarmente: l'orazione privata di ciascun monaco. Si deve mantenere nell'oratorio il massimo silenzio, perche` chi vuole possa continuare a pregare;

nell'oratorio in particolare Dio da` udienza ininterrottamente, la porta e` sempre aperta. SB vuole invitare velatamente a pregare con frequenza, come si deduce anche dal seguente v.4.

4-5: Preghiera privata anche in altri momenti

Non solo dopo l'Opus Dei, ma anche in altri momenti un fratello puo` sentirsi spinto alla preghiera. Cosi` veniamo a conoscere che durante la giornata ogni monaco puo` trovare l'opportunita` di qualche momento libero da dedicare alla sua preghiera privata, probabilmente durante il periodo della lettura. SB poi aggiunge delle condizioni sulla maniera di pregare : entri semplicemente e preghi, espressione nuda e semplice che non include alcun particolare metodo o schema di orazione; preghi e basta, cioe` massima liberta` e semplicita` nel procedimento secondo l'ispirazione di Dio.

Non a voce alta, cioe` senza alzare la voce, senza emettere gemiti e sospiri sonori, come si usava a volte presso gli antichi, ma con lacrime e fervore di cuore; richiama la "purezza di cuore" e la "compunzione delle lacrime" di RB 20,3 (Per preghiera e lacrime, cf. anche RB.4,57, uno strumento delle buone opere).

Lacrime e cuore sono come indizi dell'autenticita` della preghiera del monaco. Chi non vuole pregare in questo modo, non e` autorizzato a rimanere nell'oratorio (v.5), perche` l'oratorio deve essere solo luogo di preghiera e di incontro con Dio.




EXCURSUS SULLA PREGHIERA MONASTICA

Appendice alla sezione liturgica della RB

Abbiamo gia` avuto modo nel commento a questa sezione della RB di notare le caratteristiche e lo spirito della preghiera del monaco (vedi sopratutto l'introduzione a tutta la sezione cc.8-11 sull'Opus Dei e "lo spirito dell'Opera di Dio", sezione cc.19-20 nel Preliminare al c.19).

Vogliamo ora riflettere in maniera un po' piu` sistematica sulla preghiera, sul monaco come uomo di preghiera, su alcune caratteristiche della preghiera monastica.

SOMMARIO: Introduzione - I: Il monaco uomo di preghiera. II: Condizioni della preghiera. III: Alcune dimensioni della preghiera monastica 1) Si fonda sull'evento-Cristo; 2)Preghiera come memoria-presenza-attesa; 3) Preghiera liturgica (dimensione dell'ascolto; 4) Unione con la lectio divina; 5)Aspetto conoscitivo e comunionale; 6) Preghiera umile; 7) Accento sulla preghiera di lode e di ringraziamento. IV: Elementi classici della tecnica cristiana della preghiera 1) Celibato; 2) Solitudine e silenzio; 3) Veglia; 4) Digiuno. - Conclusione.

 

INTRODUZIONE

Parlare della Preghiera ("la" Preghiera, con la "P" maiuscola) e` una cosa estremamente difficile, anche se non mancano trattati eccellenti e studi teologici al riguardo, perche` si rimane sempre in superficie, in quanto la preghiera e` esperienza e nessuno la puo` comprendere se non la riceve, se non l'ha provata, se non la vive. E` stato detto, e giustamente, che per se` la preghiera non si puo` insegnare: primo, per un motivo psicologico, perche` la preghiera e` un rapporto d'amore con Dio e chi ama veramente sa come esprimerlo; e poi sopratutto per un motivo teologico, perche` la preghiera cristiana e` data dallo Spirito che prega in noi. Questa convinzione e` il primo passo verso la preghiera, altrimenti essa diventa un vuoto moltiplicarsi di parole (Mt.6,7). E` lo Spirito che scende nel nostro cuore per spingerci verso Dio e farci pregare; la preghiera del cristiano e` il gemito inesprimibile (Rom.8,26) dello Spirito Santo che abita in noi, e qui non esistono formule, ne` orari, ne` tecniche, ne` tempi, ne` luoghi: lo Spirito viene quando e come vuole (Giov.3,8), nella tempesta (Sofonia 1,15) come nella brezza leggera (1Re 19,12). E` chiaro che in questo senso la preghiera non si puo` insegnare.

Tuttavia l'atto della preghiera ha delle condizioni, delle dimensioni che possono essere oggetto di studio, di formazione e quindi d'insegnamento; in tal senso tentiamo questa esposizione sistematica.

I: IL MONACO UOMO DI PREGHIERA

Il monastero e` una "scuola del servizio divino" (RB.Prol.45) e di questo "servizio santo" (RB.5,3) la preghiera e` il momento centrale assolutamente primario: Nihil Operi Dei praeponatur <Nulla si anteponga all'Opera di Dio> (RB.43,3). SB vuole che i suoi monaci siano uomini di preghiera; non puo` essere altrimenti; il monaco, per definizione, e` un uomo di preghiera; il 'monaco autentico - dice S.Epifanio (Verba seniorum 12,6) - deve avere nel suo cuore continuamente l'orazione e la salmodia".

La RB sopratutto per la preghiera e` impregnata dell'ideale monastico divulgato da Cassiano (cf.commento al c.20); ebbene, nella prima (e fondamentale) delle sue "Collazioni" leggiamo: "Questo deve essere il nostro impegno principale, questo l'orientamento perpetuo del nostro cuore: che la nostra mente rimanga sempre unita a Dio e alle cose divine" (Coll.1,6). E nella nona: "Tutto il fine del monaco e la perfezione del cuore consiste nel perseverare in una orazione continua e ininterrotta e in quanto e` possibile all'umana fragilita`, si sforza di giungere a una immutabile tranquillita` di spirito e a una pureza perpetua"

(Coll.9,2). E ancora: "Il fine del monaco e la sua piu` alta perfezione consiste nell'orazione perfetta" (Coll.9,7).

E Rufino di Aquileia: "Il compito principale del monaco consiste nell'offrire a Dio un'orazione pura" (Per il concetto di "oratio pura", cf. commento al c.20). I monaci quindi, sulla scia di Cassiano, tendono a far si` che "tutta la vita e tutti i movimenti del cuore divengano una unica e ininterrotta preghiera" (Coll.10,7). I testi sono tantissimi; appare proprio che gli antichi monaci erano quasi ossessionati dall'ideale della "preghiera continua".

In questa preghiera continua si arriva man mano sempre piu` al bisogno di semplicita`, come la preghiera dello Spirito in noi che si limita ad un solo grido, ma indefinitamente balbettato : "abba - Padre" (Rom.8,15). E` la preghiera semplice che i Padri chiamavamo "monologia", cioe` costituita da poche parole o addirittura da una sola parola. Questa tradizione e` costante sia in Oriente che in Occidente; cosi` sono nate le cosiddette "giaculatorie". Numerose invocazioni molto brevi che la Bibbia ha conservato possono fornire sempre la nostra preghiera; il Vangelo e i Salmi ne sono una miniera. Per ciascuna situazione si puo` trovare la giaculatoria adatta, ascoltando lo Spirito Santo che ci tocca dal di dentro: "Signore Gesu', io credo; aiuta la mia incredulita`"; "Signore Gesu', che io veda"; "Signore Gesu`, tu lo sai che io ti amo"; "Signore Gesu`, non la mia ma la tua volonta`". La serie e` senza fine.

Cio` che la tradizione bizantina conosce sotto il nome di "Preghiera di Gesu`" (vedi ad esempio: "Racconti di un pellegrino russo") non e` che una forma di questa preghiera monologica, semplice, attorno al nome di Gesu` e ad una frase del Vangelo, quella del pubblicano: "Abbi pieta` di me peccatore". L'incessante invocazione del nome di Gesu`, il ricordo dolcissimo del suo nome tengono il posto della presenza stessa di Gesu`.

Tale tradizione la si incontra anche in Occidente; si pensi a S.Bernardo, per cui il nome di Gesu`, secondo il testo del Cantico (1,3), e` un "olio diffuso". Le principali di queste idee sono confluite in forma poetica nel noto inno medioevale "Jesu dulcis memoria" <Il ricordo dolcissimo di Gesu`> (vedi nel salterio, alla festa della Trasfigurazione e del S.Cuore).

Come si vede, tutta questa tradizione interpretava alla lettera i passi del NT "pregare sempre senza stancarsi" (Lc.18,1) e "pregate incessantemente" (1Tess.5,17; Efes.6,18; cf.Rom.12,12; Filip.4,6; Coloss.4,2).

SB e` in questa linea; tutto il suo ordinamento della preghiera intende stimolare l'ardore dei monaci (cf.fine c.18), lanciarli in una corsa continua, nel fervore sulla via della preghiera per arrivare a quella "preghiera senza interruzione" di cui la preghiera a ore fisse in comune e` solo un mezzo e una tappa. (DeVogue`).

Ebbene, noi monaci di oggi ci dobbiamo interrogare seriamente su come incarniamo questo ideale dei nostri Padri. Paolo VI disse una volta all'abate Braso` che spetta ad altri nella Chiesa penetrare nelle masse, proclamare il messaggio evangelico in un mondo secolarizzato; il monaco invece deve sforzarsi di vivere nel monastero la forma piu` elevata del contatto con Dio e della carita` fraterna: sono le due grandi dimensioni della vita monastica. Questo e` il nostro modo di proclamare il Vangelo. Siamo monaci sopratutto per questo: per creare un intimo, personale, profondo contatto con Dio. Tutto dovrebbe essere organizzato in funzione di questo scopo: la vita di preghiera; questa finalizza tutte le nostre attivita`: "siamo totalmente per questo - <in hoc toti positi sumus> - dice un antico commentario cistercense della Regola, e l'accento va messo su quel "toti". Senza di cio` manca la nostra testimonianza piu` specifica.

Naturalmente cio` non significa che dobbiamo stare tutto il giorno in coro a fare delle liturgie solennissime o prolisse; una cosa e` dire che siamo nati per il coro, una cosa e` dire che siamo nati per la preghiera. Bisogna fare cioe` della vita una preghiera e della preghiera una vita, bisogna vivere di preghiera come si vive di aria. E perche` la preghiera diventi una vita, bisogna abbattere quel muro di separazione che spesso c'e` tra il nostro pregare e le nostre attivita`; si tratta di superare in qualche modo la molteplicita` delle cose e attraverso le molte cose che facciamo, farne una sola.

Per chi e` convinto di questo, la preghiera non impedisce di essere attenti alle persone e alle cose; lavoro e preghiera si intrecciano per formare un tutt'uno, perche` lo Spirito prega in lui senza fine, la preghiera in lui non e` piu` legata a un tempo determinato, e` ininterrotta, e` tutta la vita. Notiamo questo bellissimo testo di S.Agostino: "Se ti metti a cantare con la voce, verra` un momento in cui dovrai tacere" <cum voce cantaveris, silebis aliquando>; ma: "vita sic canta, ut numquam sileas" <canta con la tua vita, in modo da non tacere mai> (Esposizione sul salmo 146,2).

Ma questo non si improvvisa, e` frutto di tutta un'esistenza.


II. CONDIZIONI DELLA PREGHIERA

Notiamo qui solo alcune condizioni che sono primordiali per la preghiera. Potremmo esprimerle cosi` schematicamente:

1) Nel mondo della fretta, la preghiera esige tempo e calma.

2) Nel mondo dei rumori, la preghiera domanda silenzio.

3) Nel mondo della distrazione, la preghiera domanda capacita` di raccoglimento.

 

III. ALCUNE DIMENSIONI DELLA PREGHIERA

1. Si fonda sull'evento-Cristo

La preghiera come atmosfera di vita nasce, si fonda e si alimenta continuamente sull'evento-Cristo, cioe` sul fatto di Cristo incarnato, morte e risorto. No si puo' parlare di preghiera al di fuori di questo evento fondamentale. Se pensiamo alla preghiera come un gesto, un "fare" dell'uomo, andiamo fuori strada. La preghiera altro non e` che essere coscientemente, umilmente inseriti nel fatto-Cristo. E questo gia` ci e` stato dato nel battesimo. Si tratta di riscoprirlo: infatti lo Spirito di Gesu` per primo balbetta in noi la nostra preghiera; allora dobbiamo rientrare in noi stessi, tornare al centro vero della nostra persona, liberare il cuore dalle sue scorie, e ascoltare lo Spirito che gia' prega in noi, lui che dal battesimo abita nei nostri cuori. Un monaco del nostro tempo, profondamente riempito e occupato dalla preghiera, ha detto: "Ho l'impressione che gia` da anni portavo la preghiera nel mio cuore senza saperlo. Era come una sorgente ricoperta da una pietra. Allora la sorgente si e` messa a sgorgare e da allora essa continua a sgorgare" (riportato da A.LOUF, Signore, insegnaci a pregare, p.23).

Con questa mentalita` si evita il rischio di pensare la preghiera come un fatto nostro, ma lo si fonda sull'evento-Cristo, sul fatto battesimale, si riconosce che e` lo Spirito che prega in noi con gemiti inesprimibili (Rom.8,26).

 

2. La preghiera come memoria-presenza-attesa

Rifacendosi al pensiero dei Padri, la teologia post-conciliare afferma che la vita cristiana nella sua natura profonda, nell'oggi della Chiesa e del singolo cristiano, e' la continuazione e il compimento della "historia salutis" <storia della salvezza>, dal momento dell'annuncio profetico e tipico dell'AT fino al momento culminante di piena realizzazione del Cristo pasquale.

Ora questo si deve vedere sopratutto nella preghiera. Preghiera come memoria dei "mirabilia Dei" <meraviglie operate da Dio> che per gli ebrei era la liberazione dall'Egitto, ma per noi e` la memoria della vita, morte e risurrezione di Cristo e diventa la trama di tutta la nostra esistenza quotidiana (le meraviglie di Dio in me, nella mia piccola storia della salvezza). Non si tratta di ricordare un fatto passato, "il Sacrificio di Cristo e`, oggettivamente, il significato e la consistenza di tutta la nostra vita, del cosmo e della storia, ieri, oggi e sempre. Percio` la memoria diventa senso della presenza (RB.19-20) di questo "Logos" misteriosamente e realmente presente ed efficace in noi e nelle cose. E allora questa coscienza continuamente rinnovata non puo` non trasformarsi in attesa del suo ritorno, in desiderio della manifestazione definitiva di Cristo. Mi pare che l'essenziale della nostra preghiera sia espresso dall'acclamazione che ripetiamo tutti i giorni durante la Messa: "Annunziamo la tua morte, Signore,, proclamiamo la tua risurrezione, nell'attesa della tua venuta". (M.B.BOGGERO, Appunti sulla Regola di S.Benedetto, capp.4-7, p.136).

 

3. Preghiera liturgica

A questo punto appare evidente l'importanza di vivere la liturgia: la nostra preghiera sia o liturgica o agganciata alla liturgia. La liturgia, essendo proclamazione attualizzante della Parola e sacramento del mistero di Cristo e percio` sacramento della storia della salvezza in atto nella vita della Chiesa, come e` fons et culmen <fonte e culmine> della vita cristiana (SC.10), lo e` anche nella vita monastica. Nella liturgia si trovano unite in una sintesi vivente le varie forme del corpo di Cristo: il "Corpo Mistico" che e` la Chiesa; il "Corpo Verbale" che e` la Bibbia; il "Corpo carnale" che e` l'Eucarestia. Nella liturgia il Corpo Mistico che e` la Chiesa si unisce al Corpo glorioso presente nel sacramento e quindi anche al Corpo Verbale, la Parola di Dio (Magrassi).

In ogni atto liturgico il cristiano - il monaco - per rendere autentica la sua preghiera deve vivere in piena coscienza il suo "essere in Cristo" per mezzo dello Spirito, deve essere convinto che fare liturgia e` esercizio del nostro sacerdozio battesimale. Dovremmo educarci a rendere piu` viva, palpitante la nostra Eucarestia e la nostra preghiera corale, per evitare il rischio della routine, del formalismo, della "recita".

Di qui la necessita` assoluta per noi di approfondire la Parola di Dio (cf. piu` avanti, n.4), in particolare il salterio per la nostra preghiera comunitaria. Nelle scuole monastiche del medioevo l'istruzione cominciava sulle pagine del salterio, sul salterio si imparava a leggere, a cantare: era come la grammatica di tutto; letti, meditati, "ruminati", trascritti come esercizio, i salmi erano il testo su cui si espletava qualsiasi esercizio scolastico. Dobbiamo oggi rieducarci a questo, dobbiamo convincerci dell'importanza dei salmi per la nostra preghiera.

Tutte le meraviglie operate da Dio nella creazione, tutti i suoi comandamenti, tutti i benefici di Dio a Israele, tutto il messaggio profetico sfociano nei salmi come per capillarita` e diventano preghiera: nei salmi confluisce come preghiera tutta la storia della salvezza. Appare in essi il dialogo dell'alleanza tra Dio e il suo popolo, un popolo anche in cammino, in attesa, da cui doveva uscire, come segno massimo della ricerca di Dio e della risposta di Lui, Cristo Gesu`. In Cristo infatti i salmi dovevano adempiersi assieme alla legge e ai profeti (cf.Lc.24,44). E Gesu` prego` i salmi e li assunse come testimonianza della sua missione. E la Chiesa legge i salmi alla luce dell'evento-Cristo; noi usiamo i salmi nella coscienza che il Dio che preghiamo e` il Dio Padre, Padre del Signore Nostro Gesu` Cristo che prega i salmi, Padre per tutti noi in cui lo Spirito grida: "Abba`-Padre" (Gal.4,6). (E.BIANCHI, Il corvo di Elia, pp.53-55).

Ad evitare che la nostra salmodia sia vuota e arida, dobbiamo dedicare molto tempo allo studio e alla conoscenza del salterio.

Un altro mezzo (non si parla qui solo della salmodia, ma di tutta la preghiera liturgica) dobbiamo ricordare per insistervi, mezzo suggerito dalle norme liturgiche: quello delle pause di silenzio conosciute dall'antica tradizione monastica (vedi introduzione alla sezione liturgica), perche` vogliono essere il momento dell'approfondimento personale, della necessaria interiorizzazione di quanto comunitariamente viene celebrato nell'azione liturgica. Forse e` il momento psicologicamente piu` importante in una liturgia che voglia essere autentica preghiera. Infatti la preghiera liturgica, essendo intessuta di Parola di Dio, e` eminentemente dialogica: Dio parla - io anzitutto ascolto.

Per il monaco e` molto importante questa dimensione. La prima parola della RB e` "Ascolta, figlio" (Prol.1): un'anima monastica non puo` essere che un'anima in ascolto; ma ascoltare col desiderio intimo di accogliere la parola e di racchiuderla nel cuore perche` possa portare il suo frutto. Dio parla attraverso i testi, la sua Parola esige un risposta non solo da parte di tutta l'assemblea che e` in ascolto, ma anche da parte di ogni singolo, una risposta quindi strettamente personale, individuale. Le pause di silenzio, appunto, sono il momento di questa silenziosa risposta di ognuno. Inoltre il clima contemplativo della liturgia in genere e di quella monastica in specie, in gran parte, sara` dato proprio da questi silenzi, dal loro spessore di preghiera. A livello di formazione e` importante insistere su questo aspetto, educando a comprendere e a utilizzare questi spazi di silenzio (I.Sutto).

 

4. Unione con la lectio divina

Normalmente i momenti di silenzio nella preghiera sono brevi, come con saggia discrezione vuole la Regola (RB.20,5), proprio perche` momenti comunitari. Ecco perche` l'esigenza di un ulteriore tempo per l'approfondimento e l'assimilazione personale della Parola di Dio che e` stata l'oggetto dell'annuncio, del dialogo e del sacramento durante la celebrazione liturgica. A questo vuole provvedere la lectio divina.

La LECTIO DIVINA e` veramente la dottrina monastica sulla preghiera. Si intuisce la sua importanza nella formazione del monaco. La Parola di Dio scritta nei libri sacri - lo sappiamo - non e` stata detta da Dio soltanto nel momento in cui Egli parlo` al suo "portavoce", ma e` detta, nel senso piu` forte del termine, da Dio stesso ogni volta che il testo sacro viene proclamato in qualunque forma in una celebrazione liturgica (cf.SC.7; DV.21), perche` "la parola di Dio e` viva, efficace e piu` tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra..." (Ebr.4,12).

Dunque Dio parla a me, qui, io lo ascolto e gli rispondo: dialogo, quindi, con una persona viva che mi interpella e mi coinvolge in una comunione di vita (cioe` non e` solo un fatto conoscitivo, o uno studio esegetico). L'attualizzazione della Parola di Dio per me, hic et nunc, e` il perno della lectio divina: "Oggi si compie in voi questa Scrittura" (Lc.4,21): il passaggio del Mar Rosso, come la manna nel deserto, il vino miracoloso a Cana, come la guarigione del sordomuto... "oggi si compie in voi". Questa e` la suprema esegesi.

E' importante questa teologia nella formazione alla lectio e alla preghiera monastica. (Cf. piu` avanti: Excursus sulla Lectio Divina in appendice a RB.48).

 

5. Aspetto conoscitivo e comunionale

Possiamo a questo punto comprendere due caratteristiche tradizionali della preghiera monastica: quella gnostica <conoscitiva> e quella comunionale. "Gnosi" in greco significa "conoscenza" ed e` importante nel NT, sopratutto in Giovanni e Paolo: "... perche` siate in grado di comprendere quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondita` e conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza" (Efes.3,17; cf.1,17); "... giungano a penetrare nella pefetta conoscenza del mistero di Dio, cioe` Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza" (Colos.2,2-3). Teologia, gnosi, e` la conoscenza del mistero di Cristo, dentro le cose, nel mondo e nelle persone. Si tratta prima di tutto di un atto di fede: il culmine e` saper vedere le persone e le cose intorno (prima di tutto in monastero!) come parti del mistero di Cristo che vive nella storia (BOGGERO, pp.138-139).

Arriviamo cosi` all'altro punto fondamentale, tradizionale della preghiera monastica: la preghiera come comunione con tutto e con tutti. Pensiamo sopratutto alla nostra preghiera comunitaria. Si capisce come per SB non esista una chiara divisione tra preghiera liturgica comunitaria e preghiera cosiddetta "privata" (cf. quanto detto sopra, nei preliminari ai cc.19-20), proprio perche` quest'ultima (la RB la prevede esplicitamente in 52,4-5) sara` preghiera fatta in privato, ma sempre preghiera comune in quanto inserimento nel mistero di Cristo che, unico, unisce tutti gli uomini.

Si tratta qui di verificarci continuamente. Siamo coscienti che la preghiera e` fattore di comunione? Riesce essa a informare di se` tutta la vita comune, il lavoro, i rapporti, l'aiuto fraterno? La nostra preghiera comunitaria e` liturgia, propria della "ecclesia", popolo di Dio "adunato nell'unita` del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo" (S.Cipriano), per celebrare i "magnalia Dei".

Per questo non si fa liturgia vera se non si fa "Koinonia", comunione vera; la celebrazione liturgica e` il momento in cui la comunione si crea e si cementa, come anche il momento in cui se ne fa la verifica. Ricordiamo quanta importanza SB (diversamente da Cassiano e da RM) da` al fatto comunitario, seguendo in questo la tradizione di Basilio e di Agostino: la comunita` monastica ad immagine della prima comunita` cristiana di Gerusalemme. E questo si "sente" se esiste in una comunita` orante. Rendiamoci conto che non puo` esserci autentica preghiera, anche "privata", se non arriviamo ad essa impegnati seriamente in uno sforzo di costruzione comunitaria, cioe` vivendo rapporti di vera carita`.

 

6. Preghiera umile

Mettiamo ancora un'altra caratteristica fondamentale della preghiera monastica: l'umilta'. Sappiamo l'importanza che da` SB a tutto il cammino dell'umilta`, vista proprio come itinerario spirituale del monaco (cf.RB.7). La preghiera ci e` donata in Cristo, non viene da noi, in fondo anche quel poco di coscienza che ne abbiamo viene da Dio; quindi sottolineiamo questa gratuita` dal parte del Signore.

Ma la preghiera del monaco e` umile sopratutto perche` siamo poveri, perche` siamo peccatori; nonostante tutta la ricchezza di Parola, di Sacramento, di comunione che ci e` data, continuamente cadiamo in infedelta`, nella incoerenza piu` grossolana, e ci adagiamo in una meschina mediocrita`. Come appare da SB (RB.20,3), la preghiera del monaco ha come modello la preghiera del pubblicano (Lc.18,9-14), cosciente della maesta` e della grandezza del dono di Dio; ma appunto per questo, e tanto piu`, cosciente della propria miseria e indegnita`. Senza coscienza della propria miseria, non puo` esserci approfondimento del mistero di Cristo; e la lode, il ringraziamento non possono scaturire che da una preghiera umile, da un cuore contrito. Ricordiamo che SB parla ripetutamente di compunzione e di lacrime nella preghiera (RB.4,57; 20,2-3; 52,4).

 

7. Accento sulla preghiera di lode e di ringraziamento

Un'attitudine ritengo debba essere posta in evidenza nella nostra preghiera monastica. Si sa che la preghiera e` anche petizione; Gesu` lo ha insegnato chiaramente nel Vangelo (Mt.7,7; Lc.11,5-11; si veda sulla preghiera di domanda un interessantissimo capitolo in E.BIANCI, Il corvo di Elia, pp.105-117).

Pero` dobbiamo porre l'accento maggiormente sulla preghiera di adorazione e di lode, che e` la forma piu` alta della preghiera di amicizia, intessuta di un dialogo di amore. Si sa che per molta gente pregare significa solo chiedere (anzi spesso ci si ricorda di pregare solo nel bisogno).

Ebbene, noi abbiamo conosciuto che Dio ci ha amati per primo. Ed e` qui allora che viene spontanea anzitutto la preghiera di ringraziamento, "eterno e` il suo amore per noi" (salmo 135), grido di stupore, di meraviglia. I cristiani sembrano aver dimenticato questo sentimento di fronte a Dio; invece dovrebbe essere proprio l'inizio del nostro guardare a lui: Meravigliarsi di Dio, 'Egli solo ha compiuto meraviglie" (salmo 135,4). La componente dell'ammirazione era molto presente nella nostra spiritualita` medioevale: "stupor et admiratio" <stupore e meraviglia>, quante volte ricorrono questi termini nei testi monastici!. Questo incontrarsi davanti al panorama meraviglioso della grandezza di Dio e della storia sacra! Ecco perche` cantiamo al Signore: "Perche` sprecate tanto tempo a cantare?" ci dicono a volte. Il canto e` proprio questa esigenza fondamentale della lode, e` dire a Dio tutta la gioia che proviamo davanti alla sua bellezza. E notiamo che e` un passo ancora piu` avanti lodare Iddio non solo per i suoi benefici, ma per se stesso, per la sua grandezza e la sua bellezza: "Ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, <propter magnam gloriam tuam>, diciamo nel Gloria della Messa.

La liturgia e` piena di questa dimensione, sopratutto i salmi e i cantici biblici che usiamo nel nostro Opus Dei; l'atteggiamento prevalente nei salmi e` proprio quello della lode: "Sognore, nostro Dio, quanto e` grande il tuo nome su tutta la terra!" (salmo 8,2); "I cieli narrano la gloria di Dio e l'opera delle sue mani annunzia il firmamento" (salmo 18,2); "Lodate il Signore con la cetra, con l'arpa a dieci corde a lui cantate; cantate al Signore un canto nuovo, suonate la cetra con arte e acclamate" (salmo 32,2-3); "Cantate al Signore, benedite il suo nome..., in mezzo ai popoli raccontate la sua gloria..., grande e` il Signore e degno di ogni lode" (salmo 95,2.3.4); "Esaltate il Signore nostro Dio, perche` e` santo" (salmo 98,3.5.9); "Grande e` il Signore e degno di ogni lode, la sua grandezza non si puo` misurare... Ti lodino, Signore, tutte le tue opere e ti benedicano i tuoi fedeli" (salmo 144,3.10). Cosi` tutti i salmi alleluiatici, in particolare il piccolo Hallel, cioe` i salmi 145-150 che iniziano tutti con la parola "Lodate..." ("Lodate il Signore, e` bello cantare al nostro Dio, dolce e` lodarlo come a lui conviene", salmo 146,1), fino al grande inno universale di lode, grandiosa dossologia finale del salterio, il salmo 150, in cui ogni emistichio comincia con la parola "lodate..., lodatelo...". Cosi` ancora in cantico dei tre fanciulli nella fornace: Dan.3,52-90.

Impossibile fare un elenco di tutti i testi della Scrittura. Insomma, questa della lode e` la piu` alta forma di preghiera (anche perche` la piu` disinteressata e gratuita) e su questa dovremmo educarci, in modo da offrire al Signore nei nostri cori monastici sopratutto questo "sacrificium laudis" <sacrificio di lode> (salmo 49,14).

 

 

IV. ELEMENTI CLASSICI DELLA TECNICA CRISTIANA DELLA PREGHIERA

Come utile complemento a questo excursus sulla preghiera, diamo un cenno su alcuni elementi classici della tecnica cristiana della preghiera, riassumendoli dall'opera di A.LOUF, Signore, insegnaci a pregare, pp.83-120. Tali elementi si ritrovano nella maggior parte delle varie esperienza di preghiera, sia nei testo del NT, sia nei mistici moderni; si incontrano anche nella mistica non cristiana. Si potrebbe supporre allora che questi elementi formino una specie di base naturale umana, su cui e` piu` facile che si sviluppi la preghiera. Naturalmente tutte queste "tecniche" sono al servizio e dipendono dall'azione dello Spirito Santo e devono diventare segno ed espressione della nostra morte e della nostra risurrezione con Cristo.

Questi elementi sono: Celibato, solitudine e silenzio, veglia, digiuno, sull'esempio di Gesu` il quale non era sposato, aveva una preferenza per la solitudine, passava molte notti in preghiera, digiuno` per quaranta giorni nel deserto.

 

1. Celibato

Il celibato e la verginita` sono al servizio della preghiera (1Cor.6,17; 7,32-34), cosi` pure l'astinenza periodica dalle relazioni sessuali nel matrimonio "... di comune accordo e temporaneamente per attendere alla preghiera" (1Cor.7,5). Infatti anche nella vita sessuale vi e` una dinamica che deve essere liberata a vantaggio dello spirito e della preghiera.

L'uomo e la donna secondo la Bibbia sono creati ad immagine di Dio (Gen.1,27) e nei loro dati specifici di mascolinita` e femminilita` rappresentano l'amore di Dio; la pienezza dell'amore di Dio e` normalmente resa e vissuta nell'unione dei due: nel Signore - dice S.Paolo - ne` la donna e` senza l'uomo, ne` l'uomo senza la donna (1Cor.11,11). In via generale l'uomo trova equilibrio e pace nel legame con l'altro sesso, che per lui e` la sua seconda "meta`' dell'immagine di Dio. Ora, ogni forma di astinenza sessuale rende disponibili le forze interiori mobilitate in una vita sessuale normale. Allorche` poi uno sceglie volontariamente il celibato per amore di Cristo e della preghiera, avviene qualcosa nel suo corpo e nella sua dinamica sessuale che tende a ristrutturare tutta la sua persona e a favorire la sua preghiera e l'unione con Cristo Gesu`.

Se cosi` non fosse, il celibato avrebbe il grande rischio di una immaturita` affettiva (e puo` succedere in molti); invece anche il celibato fa appello alla dinamica sessuale dell'uomo o della donna: deve essere la prova vissuta che l'amore di Dio appaga tutto. E diviene una vera tecnica di preghiera nella grazia dello Spirito Santo; perche` il rinunciare ad esprimere con il matrimonio l'attrazione verso l'altro polo della propria personalita`, attrazione voluta dal creatore, libera nel piu` profondo del nostro essere il valore spirituale di cui l'altro polo e` il segno. Il celibato puo` aprire cosi` la via verso la preghiera. S.Paolo lo sottolinea vigorosamente in 1Cor.7,35, quando consiglia il celibato perche` da` la possibilita` di (traducendo letteralmente) "intrattenersi lungamente con il Signore senza essere frastornati da Lui". E` forse questa la migliore descrizione di cio` che la preghiera e` chiamata a divenire.

L'espressione paolina rievoca l'immagine di Maria seduta ai piedi di Gesu` per ascoltare la parola senza lasciarsi distogliere dalle varie faccende domestiche (Lc.10,39). "L'uomo e la donna attraverso il celibato e la preghiera ritrovano cosi` l'altra loro "meta`" in Dio..., finche` Dio sia tutto in tutti (1Cor.15,28) nell'uomo come nella donna; finche` il loro corpo non sia spirito, pur senza mai cessare di essere corpo, ma divenuto ormai tempio dello Spirito e casa di preghiera" (A.LOUF, p.91; ma si legga tutto il paragrafo, che e` bellissimo, su celibato e preghiera, pp.84-92).

 

2. Solitudine e silenzio

Quando Gesu` voleva pregare, spesso si separava dagli altri e si appartava in luoghi solitari, montagna o deserto (Mc.1,35; 1,45; 6,31; Mt.14,13; Lc.4,1; 4,42; 6,12); pare che egli veda un certo nesso tra solitudine e preghiera.

Vediamo oggi che l'uomo di citta` desidera, a fine settimana o almeno una volta l'anno, appartarsi un po` dal mondo, dal quale si sente sempre assediato. Vi sono poi certe categorie di persone o certe situazioni che esigono una particolare solitudine, ad esempio l'artista, il pensatore, gli innamorati. Molto piu` profonda e` la visuale di colui o di colei che cerca la solitudine in vista della preghiera; la solitudine e il silenzio costituiscono l'ambiente in cui la parola di Dio trova la sua piena risonanza. Ci si ritira per attendere a Dio, "vacare Deo". Pensiamo ai termini dei primi eremiti: "anakoresis" = ritiro; "esykia" = quiete (da cui il termine 'esicasmo'); "shelyo" in siriaco = inazione; "quies" = riposo.

Ogni genere di solitudine ci fa riflettere su noi stessi e su Dio, sulla nostra estrema poverta` e sulla misericordia di Dio. E` risaputa tutta la teologia e il simbolismo del deserto presso i Padri e gli antichi monaci (aspetto che oggi si molto riscoprendo). Come il popolo di Dio fu provato e formato nel deserto durante quarant'anni, cosi` anche Gesu` fu condotto nel deserto per esservi tentato e per imparare e insegnare a non vivere solamente di pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. Chiunque cerca la solitudine in vista della preghiera partecipa di questa grazia.

Il deserto e` proprio un itinerario spirituale: e` il luogo della tentazione e della prova per eccellenza (vedi per il popolo ebraico, per Antonio il Grande e gli altri anacoreti); il luogo in cui l'uomo esperimenta la propria pochezza e nullita`, la temporaneita` e la provvisorieta` delle cose create e di questo mondo; il luogo in cui l'uomo scopre la propria verita`, in cui e` messo a confronto con la tentazione della noia, della depressione, del desiderio di evasione (la tentazione classica della "acedia" <accidia>; e allora l'uomo si abbandona a Dio: ecco quindi il deserto come luogo di purificazione della fede, e come manifestazione di Dio, (vedi Abramo, Mose`, Elia...), come luogo di incontro particolare e intimo col Signore: "Ecco, la attirero` a me, la condurro` nel deserto e parlero` al suo cuore" (Osea 2,16-17).

La Chiesa fa ancora in molti modi l'esperienza della solitudine nella sua situazione di diaspora in mezzo al mondo; pellegrina sulla terra, deve imparare ad andare avanti solo per fede, a fondarsi solo sulla Parola di Dio, sui suoi segni (i sacramenti). Cosi` ogni cristiano, sopratutto alcuni per una vocazione speciale nella Chiesa, devono lasciar posto nella loro vita spirituale al deserto. In questo senso solitudine e silenzio sono luoghi privilegiati dell'incontro con Dio nella preghiera. (Vedi tutto l'argomento "il deserto come terra spirituale" in E.BIANCHI, Il corvo di Elia, pp.153-171).

3. Veglia

Quando Gesu` si apparta per pregare, lo fa preferibilmente di notte (Lc.6,12; 9,18; 22,45) ed esorta i discepoli a "vegliare e pregare" (Mt.25,41). Il suo

esempio e` stato seguito dai cristiani; la veglia notturna e` un dato universale nel cristianesimo, sia praticata in comune nella liturgia, sia in privato nell'ascesi personale. Qual'e` il significato della veglia per la preghiera?

Prescindiamo da certe risposte che sono pur valide, ma non attingono al mistero cristiano della veglia, per esempio che la notte porta maggiore calma per pregare, che il silenzio notturno della natura aiuta a rientrare in se stessi, che l'oscurita` aiuta a non distrarsi... Ma piu` profondamente bisogna inserire la tecnica della veglia nella dinamica del mistero di Cristo. La Chiesa e` tutta tesa verso il ritorno di Cristo e la venuta del suo Regno; Gesu` viene chiamato "Colui che era, che e` e che viene" (Apoc.1,4), abbraccia i tre momenti del tempo: passato, presente e futuro. Ma poiche` Gesu` e` sempre in procinto di venire, la Chiesa deve vegliare senza interruzione; essa e` vigile per attendere il suo Signore e Sposo: "Vegliate, dunque,..." (Mc.13,35-37). Sappiamo che la sua venuta coincidera` con una grande prova; ecco perche` la preghiera si accompagna alla vigilanza "per non cadere in tentazione" (Mt.26,41).

La preghiera di veglia e` dunque orientata verso la duplice realta` della fine dei tempi: il ritorno di Gesu` e la grande prova che la precede. La forza della veglia risiede nella forza della preghiera che lo Spirito ci insegna e pronuncia in noi "Maranatha" <vieni, Signore Gesu`> (Apoc.22,20): e` la preghiera della sposa che attende lo Sposo (Mt.25,10).

Ogni cristiano ha la vocazione particolare di consacrare alla preghiera una certa parte della notte; per i monaci, poi, cio` e` stato sempre una tradizione e una esigenza. La durata ha poca importanza; anche una veglia brevissima - che consistera` nell'andare a riposo un po` piu` tardi o alzarsi un po` piu` presto - e` opera dello Spirito Santo in noi e puo` produrre frutti di preghiera.

4. Digiuno

L'assenza di Gesu` e la nostra perseveranza nell'attesa della sua venuta si esprimono anche in un altro modo nella nostra vita: il digiuno. "... Lo Sposo verra` loro tolto e allora digiuneranno" (Mt.9,14-15). Il digiuno del cristiano e` il segno che Gesu` viene e che la grande prova e` gia` alle porte.

Anche per Gesu` la grande prova nel deserto e` andata di pari passo col digiuno, e supero` la tentazione solo armato della Parola si Dop (Mt.4,1-11); la solitudine, la veglia, il digiuno furono per lui, uomo di questo mondo, la scuola dove apprese a pregare. Cosi` per il cristiano: il digiuno e` in rapporto con la preghiera; colui che digiuna vuole significare nel suo corpo come l'uomo non viva solamente di pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio (Deut.8,3; Mt.4,4); viene il giorno poi in cui lo Spirito fa nascere la fame e la sete del Dio vivente, dominando la nutrizione materiale: "L'anima mia ha sete di te..."(salmo 41,2; 62,2) e solo Gesu` sazia: "Chi ha sete venga a me e beva..." (Giov.7,37-39).

 

Ecco come vanno visti questi elementi classici della tecnica cristiana della preghiera applicati al monaco: il celibato lo rende "libero per il Signore"; nella solitudine e nel silenzio egli esperimenta tutto l'itinerario di fede, dalla sua pochezza e nudita` alla misericordia di Dio che lo chiama a un colloquio intimo con lui, cuore a cuore; con la veglia quasi supera il tempo e assomiglia agli angeli che giorno e notte contemplano il volto di Dio; con il digiuno e` messo in grado di vivere nel suo proprio essere la fame profonda di tutta la creazione in attesa (Rom.8,19), fame che non puo` mai essere appagata in un corpo, fame che lo Spirito solo puo` saziare.


CONCLUSIONE

Gli antichi monaci hanno avuto il continuo pensiero della preghiera, erano quasi "ossessionati" - potremmo dire - dall'ideale della preghiera continua. SB parla di "oratio pura" e di "puritas cordis" (RB.20,1.3.4) e, come gia` detto nel commento, dipende in cio` da Cassiano. Cassiano chiama "pura" l'orazione di chi ha raggiunto la "puritas cordis", cioe` la perfetta purezza del cuore attraverso un cammino di ascesi, di purificazione da ogni peccato. Questa purificazione e` la condizione perche` lo Spirito Santo possa infondere nel cuore la carita` perfetta, come dice anche SB al termine della scala dell'umilta` (RB.7,67-70). E la carita` perfetta si esprime nell'"oratio pura" che ha varie forme, secondo Cassiano, sempre piu` alte fino alla famosa oratio ignita <preghiera di fuoco> (Coll.9,25) o quella ancora piu` perfetta secondo Antonio, del monaco che non ha piu` coscienza di pregare (Coll.9,31). Tale preghiera e` una risposta alla Parola di Dio sperimentata come "propria" perche` attualizzata nella propria vita, come dice espressamente Cassiano in testi molto belli (Coll.14,9-10; 10,11).

Non si tratta quindi di contemplazione di tipo platonico, ma di autentica esperienza di Dio a cui SB vuole condurre il suo monaco "cercato da Dio" tra la folla (Prol.14) e quindi "cercatore di Dio" lui stesso (RB.58,7), come risposta a quella chiamata. Commentando il salmo 14, SB invita il monaco a meritare di entrare nella "tenda del Regno" (Prol.21.23.24.39). Ricordiamo che c'e` l'allusione alla "tenda del convegno" dove Mose` si intratteneva con Dio "bocca a bocca" (Deut,34,10); inoltre in tutta la tradizione patristica il salmo 14 era visto come espressione della vocazione monastica: il monaco quindi e` chiamato ad arrivare a quella esperienza forte di Dio, come Mose`.

Per il NT pero` la "vera" tenda del convegno (di cui quella dell'Esodo era figura) e` l'umanita` assunta dal Verbo nell'Incarnazione perche` egli "ha posto la sua tenda in mezzo a noi" (Giov.1,14). "Nel Verbo fatto carne, cioe`, e` avvenuto l'incontro definitivo dell'uomo con Dio, e il Lui soltanto ormai ogni uomo puo` incontrarlo. Il monaco, chiamato in modo singolare a questo incontro, anzi a fare della ricerca di quest'incontro il suo unico interesse, l'unico scopo della sua vita, e` invitato ad entrare in questa tenda, a "dimorarvi" (Prol.39) per mezzo dell'ascolto orante della Parola, nella sequela dell'obbedienza della fede, sino alla partecipazione piena al mistero della Pasqua (Prol.50), nel momento sacramentale della liturgia e poi nella vita, che in tal modo si va facendo "nuova", "cristiforme" per opera dello Spirito donatogli da Cristo Signore.

Nel vangelo di Giovanni Cristo stesso promette l'esperienza di Dio, quando parla di un suo "manifestarsi" a colui che, traducendo il proprio amore in obbedienza ai suoi precetti, diviene dimora del Padre e del Figlio (Giov.14,21.23); e quando solennemente afferma: "Questa e la vita eterna, che conoscano te, l'unico vero Dio e colui che hai mandato Gesu` Cristo" (Giov.17,3). In quel verbo "conoscere" sappiamo che e` sottesa tutta la ricchezza e la profondita` dell'ebraico "jada", intraducibile nelle nostre lingue: un conoscere, frutto di amore, un penetrare vitale, un mutuo possedersi come quello degli sposi (infatti e` il verbo usato dalla Scrittura anche per il mutuo donarsi sponsale). E` quel conoscere sapienziale di cui parlano tanto spesso le lettere di Paolo (Efes.3,19; Filp.3,10; Coloss.1,10; 2,2-3; 3,10 ecc.), oggetto dell'appassionata preghiera dell'Apostolo per i suoi cristiani, conoscenza che si identifica chiaramente con la fede adulta di ogni fedele, non privilegio di anime di eccezione.

Questa e` la sostanza dell'"oratio pura" additata dalla Regola al monaco come la "sua" preghiera. Questa e` la "contemplatio", ultimo momento della lectio divina (I.Sutto).

* * *


NOTA BIBLIOGRAFICA
(testi usati per questo excursus sulla preghiera monastica)

BIANCHI, E. Il corvo di Elia, Gribaudi, 5.ed., Torino 1977.

BOGGERO, M.B. Appunti sulla Regola di San Benedetto (capitoli 4-7), pro manuscripto, Fabriano 1979, pp.135-143.

CABITZA, I. L'ascolto del monaco Rosano 1979, pp.129-140.

COLOMBAS, G. La Regla de San Benito, Madrid 1979, pp.345-362.

DE VOGUE, A. La Regle de Saint Benoit, vol.II, Parigi 1977, pp.184-189.

LOUF, A. Signore, insegnaci a pregare, Marietti, Casale 1976.

MAGRASSI, M. Preghiera, liturgia, lectio divina, Faenza 1970.

MARMION, C. Cristo ideale del monaco, conferenze XIV-XV-XVI.

PENCO, G. - VAGAGGINI, C. La preghiera...", Ed.Paoline, Roma 1964.

SUTTO, I. La comunita` monastica, scuola di preghiera. Formazione dei suoi membri, Relazione al Convegno monastico di Collevalenza, Luglio 1981, in: AA.VV. Monastero: scuola di preghiera, Parma 1983, pp.25-46.




CAPITOLO 21

I decani del monastero

De decanis monasterii

RB.21; 31; 65: I collaboratori dell'abate

Dopo la sezione spirituale (RB.4-7) e il codice liturgico (RB.8-20), passiamo a considerare la terza parte della Regola (RB.21-72) come sezione disciplinare, anche se non possiamo pretendere una divisione e uno schema troppo precisi (cf. Introduzione generale: 3. Struttura e divisione).

Abbiamo gia` visto come nella mente di SB la costituzione organica del cenobio poggia sul carisma abbaziale: all'abate SB affida la direzione ultima di tutte le cose del monastero, principali e secondarie, materiali e spirituali (RB.2 e 64), anche se egli viene esortato a servirsi del consiglio dei fratelli (RB.3).

Ora, senza rinunciare alla responsabilita` ultima e principale di quanto accade nel monastero, proprio per la complessita` del suo ufficio, l'abate della RB deve necessariamente dividere i suoi pesi con vari collaboratori.

Trattiamo, qui di seguito, dei decani (RB.21), del cellerario (RB.31) e del preposito o priore (RB.65).

 

Preliminari al capitolo 21

Decanus <decano> o decurio <decurione> era chiamato nell'esercito romano chi era a capo di una "decuria" o "contubernium", cioe` un gruppo di dieci soldati; cosi` era divisa la "centuria" (=100 soldati), con a capo un "centurione". Pero` i monaci antichi, per l'organizzazione in decanie non si rifanno all'esercito romano, ma sopratutto alla Scrittura (Esodo). La fonte a cui attinge SB e` la tradizione monastica egiziana ampiamente attestata da S.Girolamo (Epistola 22,35), S.Agostino (Costumi della Chiesa cattolica 1,67) e sopratutto da Cassiano (Inst.4,7.10.17): i cenobiti egiziani erano ordinati a gruppi di dieci sottoposti ciascuno a un decano; il complesso di dieci decurie stava alle dipendenze di un capo superiore ("centesimus"). Cassiano non usa mai la parola "decano", ma "praepositus" <preposito> (come fara` la RM) o "senior" <seniore>.

Secondo la RM (c.11) i prepositi (= i decani della RB) sono dei guardiani perpetui e minuziosi (difatti ne vengono prescritti due per ogni decania, mentre cio` non appare nella RB) il cui primo dovere consiste nello stare sempre con i fratelli e vegliare su ogni loro difetto e riprenderli immediatamente con avvertenze appropriate citando la Scrittura. Certo, al lettore moderno desta meraviglia il vedere applicato ad adulti un sistema di vigilanza che oggi non si concepisce nemmeno per i fanciulli! (DeVogue).

Nella RB l'incarico di un decano e` di piu` largo respiro, piu` pedagogico e piu` spirituale, come appare dalle qualita` richieste (vv.1-4).

1-4: Nomina, qualita` e ufficio dei decani

La necessita` di ricorrere a decani si avvera solo quando la comunita` e` alquanto numerosa (cioe` - considerando che SB parla sempre di decanie al plurale - non al di sotto di una ventina di membri). SB in questo capitolo ha certo presente, come Cassiano (Inst.4,7), l'episodio di Ietro che consiglia a Mose` di procurarsi degli uomini di buona fama e timorati di Dio che lo aiutassero nel giudicare il popolo (Esodo 18,21 e parallelo Deut.1,13), ma piu` ancora l'elezione dei primi diaconi (Atti 6,1-3).

Abbiamo nel testo tre volte la parola "elegantur" e una volta la parola "constituentur". Da chi erano scelti i decani? Certo non si puo` pensare ad una elezione da parte della comunita` con valore deliberativo anche contro il volere dell'abate; e` troppo chiaro da tutta la Regola che, per conservare la pace e l'unione, l'organizzazione dipende dall'abate. Dunque era certamente lui a costituire i decani; ma non puo` escludersi da testo e dal contesto che nella scelta entrassero anche altri membri della comunita`; o i monaci presentavano i candidati, oppure l'abate consultava alcuni fratelli "timorati di Dio" (RB.65,15).

Come si diceva sopra, l'incarico di decano in RB, a differenza di RM, e` piu` pedagogico e spirituale. Si esige anzitutto che siano "stimati", letteralmente "di buona riputazione" <boni testimonii fratres>, espressione tratta da Atti 6,3 a proposito dei diaconi; inoltre che siano di "santa vita monastica" <sanctae conversationis>. Piu` sotto, al v.4, abbiamo una coppia di qualita` richieste per chi deve essere ordinato abate (RB.64,2): vitae meritum et sapientiae doctrinam <santita` di vita e dottrina spirituale>. Il significato e` evidente: che l'abate "possa condividere con loro tutti i pesi suoi" (v,3), (l'espressione richiama Esodo 18,22), compresa la responsabilita` spirituale: insegnare le vie di Dio ai fratelli loro affidati.

5-7: Provvedimenti in caso di decani indegni .....

Abbiamo anche un'anticipazione del codice penale (che inizia al c.23), per il caso dei decani indegni che montassero in superbia; per i monaci l'ammonizione era duplice (RB.23,2), per i decani e` triplice.

7: ..... o di priore indegno.

Improvvisamente appare la menzione del "presposito", quello che oggi si chiama priore. SB, influenzato dalla mentalita` pacomiana, preferisce certo l'organizzazione del monastero in decanie (RB.65,12); e` probabile che quando scriveva il presente capitolo non pensava ancora all'istituzione del priore; costretto poi dall'esperienza e dall'uso, lo avra` permesso; e allora avra` aggiunto questa postilla (v.7) al c.21. Piu` tardi ancora, meglio ammaestrato dall'esperienza, sara` stato inditto a scrivere il c.65; si osservi infatti che li' prescrivera` quattro (e non tre) ammonizioni per il priore (RB.65,18).

Oggi .....

Oggi alcune mansioni degli antichi decani sono raccolte nel priore (o vice-priore); altre sono ripartite tra gli officiali del monastero, sopratutto economo, maestro dei novizi, ecc. Il senso della corresponsabilita` poi e` inculcato dalla mentalita` nuova della Chiesa e dall'importanza del capitolo di famiglia. (Talvolta i decani si usano soltanto per i gruppi di novizi o di giovani monaci nel periodo di formazione).

 

CAPITOLO 31

Quale debba essere il cellerario del monastero

De cellarario monasterii qualis sit

Preliminari

"Cellerarius" viene da "cella", termine che nella RB ha molti significati, secondo il contesto e il genitivo che lo accompagna; puo` essere: il "dormitorio" (RB.22,4), l'"infermeria" (RB.36,7), la "foresteria" (RB.53,21), il "noviziato" (RB.58,5), l'"abitazione del portinaio" (RB.66,2). Nella parola "cellerario" la radice "cella" allude al magazzini delle provviste, alla dispensa (chiamata "cellario" solo in RB.46,1).

Presso gli antichi, si chiamava "cellario" il servo di fiducia che custodiva i viveri e li distribuiva agli altri conservi (a cio` si allude in Mt.24,45 e Lc.12,42). Piu` tardi nelle famiglie principesche ci sara` il "maggiordomo".

In SB il "cellararius" (nei monasteri si dice oggi "cellerario", "camerlengo" o "economo") e` il monaco a cui e` affidata la cura dei beni materiali del monastero e che pensa a distribuirli ai fratelli e a quanti altri beneficiano del patrimonio del monastero: ospiti e poveri.

Al tempo di SB era senza dubbio un personaggio importante. Ricordiamo che la Regola vuole che l'abate non si preoccupi troppo dei beni materiali (RB.2,33-36), ma pensi sopratutto al suo ufficio spirituale. Percio` alle cose temporali ci deve pensare il cellerario. Ma lo deve fare in modo religioso e spirituale: il suo modo di agire in questo campo influisce molto sulla pace e sull'armonia della comunita` intera. Questo appare chiaro dal c.31, che e` uno dei piu` belli di tutta la Regola (completamente diverso dallo stile della RM); piu` che un elenco di obblighi derivanti dall'ufficio, vi troviamo delineata l'immagine ideale del monaco che ha questo incarico; e` un piccolo trattato di spiritualita` in cui l'interesse psicologico e morale domina e anima tutte le prescrizioni di carattere pratico.

1-2: Doti del cellerario

Abbiamo anzitutto un elenco di qualita` che il cellerario deve coltivare e di vizi che deve evitare. L'espressione non tardus, che alcuni traducono "non indolente, non pigro", forse si interpreta meglio - sopratutto per la vicinanza con "prodigo" - nel senso della lentezza di chi da` a stento, di malavoglia, quindi: non avaro, non gretto.

"Sia come un padre": il cellerario e` il braccio destro dell'abate per cio` che riguarda sopratutto gli interessi e i bisogni temporali. Percio` SB vuole uno che sappia avere cuore e volonta` di padre, come vuole per l'abate; difatti molte cose di questo "direttorio" del cellerario riecheggiano quello dell'abate descritto nel c.64; e vi arieggia in genere lo stile della Prima Lettera a Timoteo (specie c.3) e della Lettera a Tito.

"Si nomini". Da parte dell'abate; ma anche qui, come per i decani, non si puo` escludere un qualche intervento da parte della comunita` (o un consiglio o la presentazione di alcuni candidati).

3-16: Ufficio del cellerario: rapporti con abate, fratelli, cose

Il cellerario deve essere come un padre per tutta la comunita`, quindi deve preoccuparsi di tutto e di tutti (v.3), sopratutto avere una cura speciale per i piu` deboli: malati, fanciulli, ospiti, poveri (v.9). Una virtu` che gli viene molto raccomandata e` l'umilta` (vv.7.13.16), che dimostrera` nel non contristare i fratelli (v.6): la sentenza e` l'eco di una massima degli antichi Padri: "non contristare il tuo fratello, giacche` sei monaco" (Vitae Patrum, 3,170); nel non disprezzarli nel caso che debba negare loro qualcosa (v.7): l'espressione e` presa da S.Agostino: "A chi non puoi dare cio` che ti chiede, non mostrare disprezzo; se puoi dare, da`; se non puoi, dimostrati affabile (Esposizione sul salmo 103,1.19); non potendo concedere la cosa richiesta, risponda con una buona parola, secondo il libro del Siracide 18,17 (v.14); la razione di cibo che deve dare, la dia senza arroganza ne` indugio (v.16), cioe` senza farla piovere dall'alto, dandosi l'aria di padrone che, bonta` sua, "si degna" di dare agli altri.

SB giunge a ricordare al cellerario la minaccia di Gesu` contro chi provoca scandalo: non e` poca cosa far soffrire i fratelli per il cibo e metterli nella condizione di adirarsi o di lamentarsi. Come all'abate, poi, SB ricorda al cellerario il giudizio di Dio (v.9) e la ricompensa che lo aspetta, citando da 1Tim.3,13 (v.8).

Riguardo alle cose del monastero, le consideri come "vasi sacri dell'altare" (v.10): e` un'idea molto viva nella tradizione monastica (S.Basilio, Reg.103-104;

Cassiano, Inst.4,19-20; Regula IV Patrum 3.28-29): se il monastero e` la "casa di Dio" (RB.31,19; 53,22; 64,5), tutto cio` che contiene e` dedicato al servizio di Dio, e` sacro; alla luce di questo spirito di fede, il cellerario compie quasi un ministero sacro, in tal modo il suo ufficio acquista nobilta` inimmaginata.

17-19: Disposizioni in aiuto del cellerario

Se il cellerario ha tanti pesi, e` bene che gli si procuri un po` di respiro. Anzitutto, se la comunita` e` numeroso, abbia degli aiuti (v.17) e poi i fratelli devono ridurre al minimo i fastidi, non importunandolo a tutte le ore, ma in orari stabiliti (v.18), di modo che "nessuno - ne` i fratelli ne` il cellerario - si turbi o si rattristi nella casa di Dio" (v.19): "conclusione mirabile e giustamente celebre di un capitolo consacrato alla piu` materiale delle mansioni!" (DeVogue).

SB ha in odio la tristezza (si ricordi il detto al Goto, in II.Dial.6: "Ecco, lavora e non rattristarti!"): essa era annoverata dagli antichi monaci tra i vizi capitali. Si tratta, evidentemente, di quella tristezza che nasce dallo scontento, dall'insoddisfazione, dal rancore. Se il monastero e` l'Eden riconquistato, se e` la dimora di coloro che, chiamati da Dio, volontariamente hanno scelto Cristo come unico scopo dell'esistenza e vivono quindi nella vita nuova dello Spirito, non c'e` posto per l'acidita`, la scontentezza, l'insoddisfazione.

E' questo il senso della "PAX" benedettina (lo scriviamo sui nostri ingressi), termine molto denso che racchiude tanti significati: essa deve essere l'atmosfera abituale del monastero.


CAPITOLO 65

Il priore del monastero

De praeposito monasterii

Preliminari

Certo, trattare del priore (RB.65) subito dopo il capitolo sul cellerario (RB.31) significa notare un cambiamento brusco e totale di clima spirituale: cambia la prospettiva, lo stile, il tono. Possiamo dire che SB ha messo tutto il suo cuore a delineare con cura la figura del cellerario ideale, il piu` prezioso collaboratore dell'abate, che pensa alle necessita` materiali - ma come ufficio spirituale - dei monaci, degli ospiti, dei poveri.

Parlando del preposito, di questo altro stretto collaboratore dell'abate, SB diventa veemente e duro; non solo perche` deve denunciare gravi disordini a tale riguardo nel monachesimo del tempo, ma proprio perche` non sente - e` chiaro - nessuna simpatia per tale ufficio; nella RB il preposito e`, insomma, un collaboratore dell'abate poco desiderabile e nulla affatto desiderato.

La parola "praepositus" <=posto prima... degli altri) designava il capo - supremo o subalterno - il primo del gruppo. Nella tradizione monastica era talvolta chiamato cosi` l'abate stesso (S.Basilio, Cassiano Inst.6,27; Coll.20,1). Nel secolo VI era chiamato preposito il "secondo" (veniva usato anche il termine "secundus"), il luogotenente dell'abate, il cui ufficio, anche se con nomi diversi, era tradizionale nel cenobitismo (Pacomio, Basilio, Cesario, ecc.). In II.Dial.22 Gregorio narra, a proposito del nuovo costruendo monastero di Terracina, che SB nomino` "il padre" (l'abate) e "chi gli doveva fare da secondo".

L'organizzazione del cenobio prevista da SB e` quella di tipo pacomiano con i decani (come in RB.21): in seguito SB si sara` dovuto adattare alla tradizione forse piu` corrente nell'ambiente italiano; ma e` chiaro che lo fa di malavoglia, costretto dalle circostanze e scrive questa pagina che irrompe nella Regola violenta e inaspettata, subito dopo il c.64 sull'elezione dell'abate, cosi` carico di umanita` e di delicatezza. La comunita` e` gia` stata organizzata in decanie; il nome stesso di preposito appare solo di sfuggita in 21,7 - che e` chiaramente un'aggiunta - e in 62,7 (anche qui pare un'aggiunta). Invece ora dedica al preposito un capitolo intero abbastanza lungo.

1-10: Disordini nell'elezione del priore

La prima parte del capitolo presenta uno stile cosi` vivace e un tono di si` vigorosa indignazione da far pensare a un'esperienza che piu` di una volta avra` amareggiato l'animo di SB. Abbiamo un quadro molto fosco: gravi e frequenti scandali nei monasteri (v.1); prepositi gonfi di superbia, tirannici (v.2); invidie, liti, divisioni in partiti (vv.2.7.9)..... Da dove provengono queste disgrazie? SB ne segnala senza esitazione la fonte: l'assurdita` che commettevano certi vescovi o abati, ordinando il preposito nello stesso tempo in cui ordinavano l'abate. Si sente al v.4 che l'espressione e` forte e nervosa. Si noti al v.6 il brusco passaggio di discorso diretto (non sempre reso, purtroppo, nelle traduzioni) che da` vivacita` alla trattazione: e` l'orgoglio che suggerisce al priore questo pensiero: "anche tu sei stato stabilito in carica da quegli stessi che hanno stabilito l'abate!".

11-15: Disposizioni sulla nomina del priore

Per evitare percio` abusi e per l'unita` del monastero, SB da` all'abate il diritto di organizzare il cenobio come meglio crede. Si noti la frase, che e` caratteristica della Regola benedettina: "tutta l'organizzazione del monastero dipende dall'abate" (v.11). (Si pensi anche a tutte le restrizioni apportate oggi dalla Chiesa e dalla mentalita` nuova, con poteri al capitolo di famiglia, la corresponsabilita`, ecc...).

SB preferisce il sistema dei decani (vv.12-13); pero` deve ammettere anche la nomina del priore, ma lo fa con una serie di condizioni restrittive: "se le condizioni locali lo richiedono, se la comunita` ne fa umilmente richiesta e se l'abate lo giudica utile" (v.14) e sopratutto e` lui, l'abate, che, sia pur consigliandosi, sceglie liberamente il suo priore (v.15).

16-22: Ammonizioni al priore

Si enumerano quindi pochi doveri del nuovo funzionario. In realta` SB si limita ad inculcargli con energia la riverenza e l'assoluta obbedienza all'abate (v.16) e l'osservanza piu` esatta della Regola (v.17).

Passa invece a descrivere minuziosamente il processo di riprensione nel caso di un priore superbo, fino alla sospensione dall'ufficio, dopo quattro ammonizioni, e addirittura fino all'espulsione dal monastero (vv.18-21). Leggendo queste righe cosi` insolitamente severe, si ha l'impressione che SB prevede che tali casi possono succedere con frequenza. Al v.22 c'e` pero` una clausola per

l'abate: la lite e le passioni di parte potrebbero offuscare anche il giudizio dell'abate; SB che vuole cosi` alto e retto il padre del monastero, non ignora che anche lui e` un uomo; e gli ricorda - al solito - il rendiconto a Dio.

E cosi` il capitolo 65 non parla tanto del priore - come gli altri capitoli che trattano dell'abate e degli altri officiali del monastero - ma parla piuttosto contro il priore; cioe` SB denigra talmente questo ufficio, quasi per scoraggiare dal metterlo in atto, preferendo sempre l'organizzazione per decani.

Evoluzione storica

Storicamente il sistema priorale - malgrado questo capitolo di SB - fini` col prevalere su quello decanale! Nel medioevo fu detto "praepositus" anche il monaco che presiedeva all'amministrazione temporale; "prior" invece l'addetto alla disciplina conventuale. Oggi il "praepositus della RB si suole chiamarlo "priore", e piu` precisamente "priore claustrale" (dove c'e` l'abate), perche` a lui e` affidata la disciplina interna del monastero; e` chiamato cosi` per distinguerlo dal "priore conventuale" che e` capo di un monastero sui iuris senza avere la dignita` abbaziale.

Nella nostra Congregazione Silvestrina

Nella nostra Congregazione (come in altre, per esempio i Camaldolesi) 'Priore" e` il superiore, cioe` "prior" sostituisce il titolo di abate; per cui quanto detto in questo capitolo si deve intendere del vice-priore.

Conclusione sui collaboratori dell'abate

Secondo la RB i principali collaboratori dell'abate sono dunque i decani (c.21), il cellerario (c.31), il priore (c.65) con cui l'abate possa condividere i suoi pesi (ma naturalmente ci sono anche altri officiali nel monastero: maestro dei novizi, portinaio, foresterario, ecc...). La piu` grande importanza per la pace e la tranquillita` del cenobio SB la annette al cellerario, la cui figura morale tratteggia con singolare predilezione: un buon economo, fidato, prudente, caritatevole, umile, liberera` l'abate da una parte particolarmente dura delle sue responsabilita` (quella materiale ed economica), in modo che egli possa dedicarsi pienamente al servizio spirituale dei fratelli.


CAPITOLO 22

Come dormano i monaci

Quomodo dormiant monachi

Preliminari

Nella RM si parla del dormitorio nel capitolo sui decani nell'ambito della sorveglianza che essi dovevano esercitare (RM.11,109-120) e se ne parla anche nel c.29 a proposito dell'orario e del luogo per dormire. SB ne fa un capitolo a parte (RB.22) subito dopo quello sui decani (RB.21), come gia` aveva separato il consiglio dei fratelli dal capitolo sull'abate (RB.2-3) che in RM sono trattati insieme.

SB stabilisce tre cose: un letto per ogni monaco, rifare bene il letto alla levata, dormire vestiti e cinti e quest'ultima cosa per tre ragioni: essere pronti per l'Ufficio divino alla sveglia; evitare i pensieri impuri e la polluzione, non essere in ritardo all'Ufficio divino. SB conserva queste norme modificando qualcosa e abbreviando.

Evoluzione dalla cella al dormitorio, alla stanza singola

RM prescrive un dormitorio unico per tutti; RB una o piu` sale e inoltre luoghi separati per i novizi (RB.58), i malati (RB.36) e gli ospiti (RB.53). In tutte e due le Regole e` scomparso comunque l'uso delle celle separate, uso comune nel cenobitismo del secolo precedente (per il significato della cella, cf.Cassiano, Instit.10; Coll.24).

La sostituzione della cella a favore del dormitorio comune avviene alla fine del secolo V in Gallia (per evitare i vizi della proprieta` privata, della gola, dell'incontinenza), e la cosa si nota anche a Costantinopoli. I motivi iniziali dell'abbandono della cella sono il lavoro manuale e l'Ufficio divino in comune. In questo cambiamento dalla cella al dormitorio si deve vedere il fatto piu` importante della storia del monachesimo antico. La cella dava al monaco un carattere solitario e contemplativo; il suo abbandono significa che si lascia questo alto ideale per assicurare la pratica di certe virtu` elementari; salvare la poverta` e i buoni costumi sembra piu` urgente che l'orazione incessante.

La scelta per il dormitorio non e` un progresso, ma un palliativo; la vita comune non e` vista come un ideale superiore, ma come un rimedio richiesto dalla debolezza dei costumi. Del resto il sonno preso in comune non e` che un ulteriore atto di una evoluzione verso una piu` stretta vita comunitaria (si inizio` con la preghiera e il lavoro). "Tale cambiamento rispetto alla tradizione e` segno di vitalita` e di robustezza...; dobbiamo ammirare la liberta` che ci si prende di fronte alla materialita` della tradizione" (DeVogue).

Quando SB scriveva la Regola (secolo VI), il dormitorio comune era una cosa scontata. Con l'evoluzione poi nel corso dei secoli, specialmente per lo sviluppo preso dal lavoro intellettuale e per le mutate condizioni dei tempi, al dormitorio comune si vennero man mano sostituendo le stanze singole, dove ogni monaco non solo dorme, ma prega o lavora fuori dei tempi e dei luoghi stabiliti per gli atti comuni.

1-4: Letti e dormitorio

Non ci si meravigli del v.1: la disposizione che oggi sarebbe superflua, e` comune nelle regole antiche; la rozzezza e la semplicita` dei costumi esigeva l'esplicita proibizione che in un solo letto dormissero piu` persone. Qualche regola fissava anche la distanza tra un letto e l'altro. L'abate da` l'occorrente per il letto - un pagliericcio, una coperta leggera, una pesante e un cuscino; lo sappiamo da un altro passo della Regola (RB.55,15 - "pro modo conversationis", v.2).Che cosa significa precisamente? La traduzione piu` comune e`: "secondo il loro genere di vita, secondo le usanze monastiche", cioe` che l'arredamento del letto non disdica alla semplicita` e poverta` della professione monastica.

Pero`, considerando sopratutto un testo parallelo della "Vita Pachomii" 22 (in cui si nota la diversita` di condotta individuale in seno alla stessa comunita` monastica), si potrebbe anche intendere: "secondo il grado di fervore della vita monastica". La "conversatio" (il modo di condurre la vita monastica) puo` essere , secondo la Regola, "miserabile" (RB.1,21), puo` essere all'inizio o alla perfezione (RB.73,1-2), e` capace di un progresso (RB.Prol.49).A ciascuno di questi gradi corrisponde una maniera diversa di usare i beni materiali. Riguardo al letto, il tenore stabilito dalla Regola (RB.55,15) e` il massimo; ognuno puo` avere bisogno di meno, secondo il grado di ascesi raggiunto. "Questa diversita` di osservanza in seno alla comunita` puo` sembrare estrema al nostro gusto di uniformita`, ma non per questo e` in disaccordo con lo spirito del cenobitismo antico, dalle origini all'epoca stessa di SB" (DeVogue).

3-4: La lampada accesa di notte, in RM e RB

RM prevedeva che i letti fossero a cerchio intorno al letto dell'abate (RM.29,2-4) e che la lampada fosse spenta subito dopo che tutti si erano messi a letto (RM.29,6); per non sprecare olio, si dice!) e quindi se c'era bisogno di alzarsi di notte, si doveva parlare. RB divide la comunita` nel caso fosse troppo numerosa, in vari dormitori secondo le decanie e vuole che una lampada arda sempre nel dormitorio; e quindi che sia conservato il silenzio.

5-8: Modo di dormire e di levarsi

Gli antichi dormivano nudi; pero` i monaci devono dormire vestiti, Come risulta da RB.55,10 i monaci indossavano di notte una "tunica" corrispondente quasi alla nostra camicia e la "cuculla", che non aveva la forma attuale, ma somigliava piuttosto a un'ampia tonaca e arrivava al ginocchio o ai piedi. Di questi indumenti se ne prevedono due per "cambiarsi di notte e per lavarle" (RB.55,10).

Portavano poi ai fianchi una cintura o corda, richiamandosi anche di notte al precetto del Signore: "Siano cinti i vostri fianchi..." (Lc.12,35). Per capire tutto il; v.5, bisogna ricordare che di giorno i monaci portavano una cintura larga di cuoio, detta "bracile" (RB.55,19), a cui si appendevano utensili da lavoro. SB avverte che i fratelli devono, si`, essere cinti anche di notte, ma non di bracile, bensi` di cinture semplici, di cordicelle, per evitare il pericolo di portare a letto anche i coltelli e le roncole, che sono abitualmente appesi al bracile. Tale pericolo e` descritto nei particolari da RM.11,112.

(v.6). Stando a letto vestiti e cinti, i monaci erano gia` in ordine per poter accorrere all'Ufficio notturno. Un po` di pulizia e il necessario cambiamento degli indumenti per il giorno, si faceva dopo, forse prima di andare al lavoro. "Cosi` i monaci siano sempre pronti...": c'e` in questa frase tutta la spiritualita` della veglia e dell'attesa del Signore; il tema della vigilanza (Mt.24,42-51; 25,1-13; Mc.13,33-37; Lc.12,35-48) era cosi` caro al monachesimo antico; tutta la vita monastica deve essere una vigilia orante, una perenne attesa del Signore, che e` sempre vicino, ma che viene sempre, finche` tornera` definitivamente (cf. quanto detto sul senso della veglia in vista della preghiera, nell'Excursus sulla preghiera).

(v.7). I letti dei giovani sono alternati a quelli degli anziani (seniori = adulti, o piu` probabilmente i decani): RB non pensa tanto ai pericoli per la castita`, piuttosto alla dissipazione e alla pigrizia.

(v.8). Alla levata i monaci si esortino vicendevolmente. SB e` condotto da due principi: la carita` fraterna (relazioni orizzontali che mancano in RM) e il ritegno nel parlare. I monaci vengono consigliati non solo ad emularsi nell'accorrere all'Ufficio, sia pur sempre con gravita` (v.6), ma anche a dirsi parole di incoraggiamento sia pure con moderazione (v.8), per togliere ogni scusa ai sonnolenti.

Nonostante quindi la gravita` del silenzio notturno (cf.RB.42 trattato subito appresso), SB mette le relazioni fraterne al di sopra, mostrando fino a qual punto egli consideri vitale l'educazione reciproca, il rapporto dei fratelli, di cui trattera` esplicitamente negli ultimi capitoli della Regola.




CAPITOLO 42

Che dopo compieta nessuno parli

Ut post completorium nemo loquatur

Preliminari

RB.42 corrisponde a RM.30. Ambedue le Regole stabiliscono un legame tra i pasti e il silenzio notturno (in RB.41 si parla dell'orario dei pasti). Il titolo accenna solo al silenzio, ma il capitolo parla piu` a lungo della lettura che precede compieta.

1: Osservanza del silenzio

Il capitolo inizia con una massima generale cara a SB (come il c.19 e il c.49). La Regola ha gia` parlato dell'amore al silenzio (la "tacitirnitas") nel c.6; ora ribadisce il principio: il monaco deve aver cura del silenzio in tutti i tempi, ma una posizione di privilegio va riservata al tempo della notte. Si noti che qui c'e` la parola "silentium" (non "taciturnitas"), che ha un senso piu` energico e assoluto.

2-7: Lettura prima di compieta e riunione di tutta la comunita`

Dopo il v.1 viene lasciato il tema del silenzio per trattare di due cosa legate fra loro: la lettura prima di compieta e la riunione di tutta la comunita`. RM 30,1-11 prevede a questo punto la lavanda dei piedi e la comunicazio0ne tra i fratelli di cose necessarie, prima del silenzio rigoroso. RB insiste di piu` sulla riunione di tutta la comunita` che sul silenzio a cui prepara compieta. Questa insistenza sembra giustificata dal fatto che SB introduce l'uso della lettura prima di compieta, uso sconosciuto a RM.

A volte si e` interpretata la lettura in comune solo come un modo di approfittare del tempo mentre i fratelli erano occupati in qualche ufficio (cosi` anche il Lentini); ma non sembra troppo esatto vedere la cosa solo cosi`. SB da` un'importanza evidente a questa lettura vespertina fatta in comune. Indica alcune opere: le "Collazioni" di Cassiano e le "Vitae Patrum" (cf. introduzione generale), testi tipicamente monastici o "altre opere di edificazione" (v.3).Lettura pubblica ed edificazione di chi ascolta vanno sempre di pari passo nella Regola (RB.38,12; 47,3; 53,9), tanto che SB si preoccupa di non far leggere in quell'ora piu` propizia alla tentazione niente meno che alcuni libri della S.Scrittura: l'Eptateuco (i primi sette libri della Bibbia: Pentateuco + Giosue` + Giudici) e il libri dei Re (1-2 Samuele e 1-2 Re); non si considera dannosa la lettura dei libri sacri (difatti bisogna leggerli in altri momenti (v.4) perche` sono parola di Dio), ma si pensa che alcune storie scabrose li` riferite potevano suscitare a 1uell'ora immagini sconvenienti alla fantasia delle "menti deboli" (v.4).

 

SB pensa quindi alla parte spiritualmente debole della comunita`. Anche Cassiano notava che tali letture dell'AT non erano adatte agli "spiriti deboli e infermi" (Coll.19,16).

Significato della lettura

La lettura vespertina ha un valore proprio, di preparazione non tanto per compieta quanto per la notte. La notte da una parte e` segno del male, delle tenebre spirituali e piena di misteriosi pericoli per lo spirito; dall'altra parte e` propizia, come nessun altro tempo, alla riflessione e alla preghiera. SB dice di leggere "quattro o cinque fogli" (v.6) - era molto, sopratutto in quell'epoca - e nel frattempo devono arrivare tutti i fratelli.

Importanza della presenza di tutti i fratelli

Che tutti si ritrovino sembra molto importante per SB; tre volte in questo capitolo si trovano espressioni che richiamano questo fatto: "seggano tutti insieme" (v.3); "si radunino tutti" (v.7); "tutti insieme" (v.8). Perche` questo far arrivare tutti? per assicurare l'osservanza del silenzio notturno? perche` tutti ascoltino (almeno un po`) la lettura preparatoria per la notte? per concludere tutti insieme la giornata al canto di compieta? Impossibile determinarlo con certezza. Certo e` che SB vuole tutti insieme i membri del monastero nel momento conclusivo della giornata.

8: Compieta e silenzio notturno

Quando tutti i monaci sono presenti si dice compieta e poi "a nessuno sia permesso proferire parola" (v.8). La comunita` intera si immerge nel gran silenzio della notte. Disciplina cenobitica antichissima: risale a Pacomio ("Nessuno parli a un altro di notte", Reg.Pachomii 94) e da lui passa in tutte le altre Regole (Cassiano ha: "Nessuno dei monaci ardisca di attardarsi per un po` a scambiare parola con un altro", Inst.2,15); oltre alla salvaguardia del silenzio, si tende a premunire la castita` (si suppone la dormizione in celle separate). Comunque RM e RB sembrano indipendenti da Pacomio, almeno nella motivazione. RM porta una motivazione liturgica: difatti il silenzio rigoroso iniziava con il versetto: "Poni, Signore una custodia alla mia bocca..." (salmo 140,3) e terminava con il versetto: "Signore, apri le mie labbra..." (salmo 50,17) (RM.30,12-16).

RB (e anche RM) tende a favorire il riposo di tutti. E questo si spiega con il passaggio dalla cella al dormitorio comune (cf.pagine precedenti RB.22): stando insieme i monaci debbono stare attenti a non disturbarsi nel sonno (cf.RB.48,5) e nella preghiera (cf.RB.52,2-3), cose che prima i monaci compivano nella loro cella. Quindi il silenzio notturno ormai ha una caratteristica di sensibilita` fraterna piu` che di protezione contro i pericoli della castita`.

9-11: Penalita` ed eccezioni

Conclude il capitolo una prescrizione severa contro i trasgressori del silenzio notturno (v.9) e il caso di due eccezioni: l'arrivo di ospiti e un eventuale ordine dell'abate (v.10), per terminare con un'osservazione circa la gravita` e la delicatezza nell'uso della parola in tali occasioni eccezionali.

 

Nota per noi monaci di oggi

Forse noi, monaci di oggi, dobbiamo rieducarci a riscoprire il "grande silenzio" della notte. Certo, SB vede quanto sia necessario il silenzio notturno per salvaguardare il riposo di dieci o venti monaci che dormivano nello stesso luogo. Ma e` anche certo che pensa alla "spiritualita`" - per cosi` dire - della notte.

La notte e`, infatti il tempo delle grandi rivelazioni di Dio nell'antica e nella nuova alleanza: nel silenzio della notte il Verbo incarnato e` apparso per la prima volta tra noi (cf. la liturgia del Natale); nel silenzio della notte il nostro Redentore e` risorto dal sepolcro; nel silenzio della notte, Cristo si intratteneva a colloquio col Padre. Il monaco dovrebbe, in questo grande silenzio, prolungare la sua preghiera personale che nasce dalla liturgia e delle liturgia e` luce e alimento (cf. di nuovo quanto detto sulla notte e la veglia in vista della preghiera, nell'Excursus sulla preghiera).

Nei nostri monasteri, forse, dovremmo tornare a riflettere con maggiore scrupolosita` su questo capitolo e su questo aspetto della spiritualita` monastica. In tal senso, forse, va riconsiderato l'uso della televisione.




Codice Penitenziale

CAPITOLO 23

La scomunica per le colpe

De excommunicatione culparum

Preliminari su RB.23-30 e 43-46:
Il "codice penitenziale"

Con il nome di "codice penitenziale" o "codice penale" della RB si indicano i cc.23-30 che trattano della scomunica e delle questioni ad essa collegate. A questi si aggiungono in genere i cc.43-46 che trattano della soddisfazione (RB.44) delle pene per i ritardatari (RB.43), per gli sbagli nell'oratorio (RB.45) e per danni provocati ad oggetti vari (RB.46. Ma nella Regola sono frequenti, anche al di fuori di questi capitoli, le menzioni di pene per colpe o mancanze lievi o gravi: vedi ad esempio RB.2,26-29; 11,13; 21,5; 34,7; 42,9; 48,19-20; ecc. Secondo DeVogue` le varie penalita` sparse nella RB sono 27.

La disciplina regularis

I capitoli 23-30 e 43-46 probabilmente formavano in origine un fascicolo a parte per uso dei decani e costituivano la "disciplina regularis" <disciplina regolare>. Che cosa significa precisamente? Vuol dire: punizione secondo la Regola, secondo le norme stabilite dalla Regola, cioe` tutta la procedura ben organizzata nei cc.23-30 e 43-46, che comprende le varie tappe stabilite in RB.23:

- ammonizioni private

- ammonizione pubblica

- scomunica

- oppure battiture.

La frase "sia punito secondo la (oppure: sia sottoposto alla) disciplina regolare" torna altre volte nella Regola, al di fuori del codice penale (vedi ad esempio: RB.3,10; 32,5; ecc.). Nonostante l'apparente aridita` dell'argomento, l'esame di questa sezione e` interessante perche` ci rivela la mentalita` propria di SB e la sua concezione della vita di comunita` con i suoi regolamenti interni e i momenti difficili, di infrazioni, di punizioni, di soddisfazioni, ecc.

Differenze dalla RM

Il codice penitenziale e` una delle sezioni in cui maggiormente appare il lavoro di rielaborazione compiuto da SB rispetto alla RM. In RM il codice penale e` contenuto nei cc.12-15; 64; 73 e qualche altro elemento sparso qua e la`. La diversa posizione delle due Regole e` dovuta soprattutto al fatto che nella RB il codice penitenziale sta dopo il codice liturgico (cioe` RB.8-20), invece in RM sta prima di esso (che e` in RM.33-49). SB organizza e sistema il materiale della RM.

Fonti

Per le fonti, dobbiamo ricordare anzitutto la S.Scrittura. La RM usa largamente la Scrittura come le e` abituale; RB ha delle citazioni proprie, indipendentemente dalla RM, anche nei testi paralleli, soprattutto S.Paolo (1Cor., 2Cor., Gal.); RB e` piu` ricca di citazioni scritturistiche della RM, anche se questa ha due grandi discorsi di estrema ricchezza biblica al c.14. Altra fonte per ambedue le Regole e` Cassiano.

Spirito e caratteristiche della RB nel codice penitenziale

Lo spirito del codice penitenziale nelle due Regole e` molto diverso. RM e` preoccupata dell'ordine e della giustizia: a ciascuno il suo e ciascuno al suo posto; RB, al contrario, si interessa alla salute della persona. Tipica di SB e` difatti la distinzione tra colpe gravi e colpe leggere, tra scomunica maggiore (RB.25) e scomunica minore (RB.24); mettendo ordine alla materia disordinata della RM, SB e` molto legato alla proporzionalita` tra la punizione e la persona a cui e` diretta, cioe` tiene conto dei diversi tipi di persona (cf. anche le osservazioni che a questo proposito SB fa all'abate: RB.2,23-25). Il fine cui SB mira e` esplicitamente il ravvedimento del colpevole; difatti il primo gruppo di capitoli organizza il triplo salvataggio delle anime: scomunicato (RB.27); recidivi (RB.28); apostati (RB.29). Il secondo gruppo di capitoli (RB.43-46) si sviluppa intorno alla soddisfazione degli scomunicati. "Guarire", "educare" sono dunque le parole-chiavi della nuova legislazione penale; mentre la RM si preoccupa soprattutto di esercitare la giustizia e di ristabilire l'ordine, RB e` assillato dalla preoccupazione di correggere e di salvare le anime.

In RB appare chiaramente la cura che l'abate deve prendersi per gli scomunicati (soprattutto RB.27): prima e dopo l'espulsione egli si interessa della salvezza del peccatore. Si vede sempre il senso pedagogico che porta a considerare l'aspetto medicinale della pena. Bisogna pero' anche dire che il numero accresciuto delle pene (in proporzione alla RM) indica una tendenza a punire e a minacciare. Se SB crea una pastorale inedita per la salvezza dei cuori duri, egli ha anche sviluppato la penalizzazione e ha dato alla sua Regola un volto spesso severo. La cosa appare anche dal c.46, dove RB indurisce la pratica di RM, di Cassiano e di Agostino. Almeno questo e` il giudizio di un esperto, come DeVogue`: "l'inchiesta si chiude con questa immagine complessa. RB si stacca dalle sue fonti sia per una tenera e instancabile tenerezza verso i peccatori, sia per un certo rigorismo che tende a moltiplicare le esigenze e le punizioni".

Schema del codice penitenziale

I capitoli del codice penitenziale possono essere cosi` divisi:

RB.23-26: vari casi a proposito della scomunica;

RB.27 : esortazione all'abate sui doveri verso gli scomunicati;

RB.28-29: gli incorreggibili e coloro che escono dal monastero;

RB.30 : come debbono essere trattati i fanciulli;

RB.43 : pene per i ritardatari all'Ufficio e alla mensa;

RB.44 : la soddisfazione che debbono dare gli scomunicati;

RB.45 : pene per chi sbaglia nell'oratorio;

RB.46 : pene per altre mancanze.


Il capitolo 23

Il presente capitolo serve da introduzione. Determina le colpe degne della scomunica e stabilisce la procedura di questa. In che cosa consiste la scomunica monastica lo spieghera` dopo.

Dobbiamo dire che raramente si comprende appieno il significato della scomunica, di cui non viene sufficientemente valutata l'importanza. Eppure e` difficile dire di conoscere bene la comunita`, se non si riconosce il suo contrario, cioe` la "s-comunica": la conoscenza umana procede spesso anche per contrasti (Wathen). Dobbiamo quindi dedurre che nell'antica Chiesa e nell'antico monachesimo si sentiva il valore della scomunica perche` si aveva un forte concetto di Chiesa e di comunita` monastica.

1-5: Colpe e castigo

SB enumera le colpe: si tratta - cio` e` chiaro - di mancanze gravi esterne. La procedura e` ispirata al Vangelo: Mt.18,15-17 (la correzione fraterna), procedura che nel monastero ha la seguente modalita`:

- due ammonizioni private da parte dei seniori (che sono i decani e in genere i superiori, includendovi certamente l'abate) (v.2);

- una terza ammonizione, pubblica, per correggere il colpevole con l'umiliazione davanti a tutti (v.3);

- in caso di pertinacia, si passa alla scomunica, che e` pena piu` morale che fisica; quindi si richiede un animo che comprenda il suo valore (v.4);

- se invece e` un animo cosi` rozzo, una "testa dura" che sarebbe insensibile alla scomunica, si usa la verga o altri castighi corporali.

Per SB le battiture sono per quelli che non comprendono la scomunica, quindi ha un criterio soggettivo, mentre in RM le battiture sono determinate da un criterio oggettivo: colpe enormi commesse. Cio` mette ancora una volta in risalto la cura del soggetto propria di SB.

Le pene corporali non erano novita` propria di SB: basta confrontare le Regole di Pacomio, Macario, le Vitae Patrum, Cassiano e in occidente la Regola di Cesario e la RM. In questo, come detto sopra, SB e` molto severo; ma non pare giustificata l'immagine trasmessa da qualche pittore di un SB con un fascio di verghe in mano, quasi stesse sempre a frustare. Potrebbe interpretarsi di un santo che mortifica se stesso con la "disciplina": concezione facile specialmente dopo S.Pier Damiano; oppure il fascetto di verghe potrebbe rappresentare uno strumento per la sveglia, un qualcosa di simile alla nostra "traccola" (cf. quanto detto alla fine del c.47). Del resto, la discrezione di SB anche in questo appare manifesta, se si pensa alle terribili disposizioni penitenziali di S.Colombano.


CAPITOLO 24

Quale debba essere il grado della scomunica

Qualis debet esse modus excommunicationis

Il titolo non abbraccia il contenuto del capitolo in cui, dopo un principio generale, si parla solo delle colpe meno gravi.

1-2: Criterio per la misura della pena

Si enuncia con chiarezza il principio generale: la scomunica (o la pena corporale) deve essere proporzionata alla colpa (v.1); il giudizio di cio` spetta all'abate (v.2). SB stabilisce due forme di scomunica:

- scomunica minore: esclusione solo dalla mensa comune (c.24);

- scomunica maggiore: esclusione dalla preghiera e dalla mensa comune (c.25).

Naturalmente, in tutti e due i casi, non si tratta di scomunica ecclesiastica, ma solo "regolare", cioe` nell'ambito della comunita`, pena inflitta dal superiore di una comunita` monastica.

3-7: Scomunica minore per le colpe meno gravi

La scomunica minore consiste principalmente nella privazione della mensa comunitaria. Molto piu` che dai pagani, il pasto comune era considerato come qualcosa di sacro dai cristiani, che vi scorgevano una relazione e una richiamo con il banchetto eucaristico e con quello escatologico. L'esclusione era sentita percio` vivamente come pena. Il fratello reo di colpe relativamente leggere, dopo - s'intende - la trafila delle ammonizioni, private e pubblica (cf.c.23), mangera`, si`, come gli altri fratelli, pero` piu` tardi, da solo, non con loro, in quanto si e` reso indegno della loro comunione.

Tale privazione della mensa comportava anche una limitazione in coro: cioe` il reo prendeva parte all'Ufficio divino, ma non poteva fare la parte di solista (recitare a solo o intonare salmi, antifone o lezioni), fino a quando non avesse fatto la dovuta soddisfazione e ottenuto il perdono (queste cose saranno descritte in RB.44,9-10).

 

CAPITOLO 25

Le colpe piu` gravi

De gravioribus culpis

1-6: La scomunica maggiore per le colpe piu` gravi

La posizione del monaco colpito dalla scomunica maggiore impressiona veramente: il colpevole di colpe gravi e` condannato al piu` completo isolamento, tanto piu` brutto in quanto si tratta soprattutto di isolamento morale: sta in comunita` ma nessuno gli parla (v.2); lavora da solo (v.3); nessuno lo benedice nell'incontrarlo ne` viene benedetto il suo cibo (v.6); deve "perseverare nel pianto della penitenza riflettendo sulle terribili parole di S.Paolo" (v.3) che applichera` a se stesso. Il versetto di 1Cor.5,5 si riferisce al famoso incestuoso di Corinto di cui S.Paolo dice: "Sia dato in balia di Satana per la rovina della sua carne", cioe` separato dal regno di Cristo che e` la Chiesa, sicche` ricada nel regno di Satana dove sara` esposto senza difesa spirituale al suo potere ostile, anche ai tormenti del corpo che Satana gli potrebbe procurare. SB dipende qui da Cassiano (Inst.2,16), ma intenzionalmente ha soppresso la parola "Satana", non solo per mitigare l'espressione, ma per dichiarare che il fratello viene abbandonato non a Satana ma alle sue pene afflittive del corpo e di tutte le passioni, purche` si salvi lo spirito. Comunque, anche ammettendo con alcuni codici la presenza della parola "Satana", non pare si possa interpretare questa scomunica nel senso di una censura ecclesiastica, cioe` esclusione dal corpo della Chiesa, ma solo "scomunica regolare", cioe` separazione della comunita` monastica.

Per chi comprende bene il profondo senso della vita in comune, tale pena era veramente terribile: il monaco nelle condizioni descritte in questo capitolo, per poco sensibile che fosse, era veramente distrutto. In confronto a tale isolamento, l'eventuale restrizione del cibo (v.5) appare ben poca cosa.

E' chiaro che il fine, come in S.Paolo, e` medicinale: la correzione e la salvezza del reo. Infatti poco dopo (c.27) SB ricordera` la sollecitudine particolare dell'abate verso questi fratelli colpevoli e dalla vita sappiamo che, appena si fosse riconosciuto umilmente l'errore, egli era pronto a perdonare (cf.II.Dial.12).

 

CAPITOLO 26

Quelli che senza autorizzazione trattano con gli scomunicati

De his qui sine iussione iungunt se excommunicatis

1-2: Senso del capitolo

Un brevissimo capitolo, secco e deciso (di nuovo appare il verbo "praesumere" <ardire, osare>, due soli versetti, una sola severa proposizione che giunge velocemente alla conclusione dopo l'enunciazione della colpa: se un fratello, senza ordine dell'abate (cf. il seguente c.27,2-3, in cui si dice che l'abate deve far arrivare, quasi senza darlo a vedere, dei fratelli prudenti che sostengano e consolino il fratello scomunicato), osasse unirsi con lo scomunicato, parlare con lui o mandargli messaggi, soggiaccia alla stessa pena della scomunica (vv.1-2).

Sembrerebbe a prima vista una sanzione esagerata e senza fondamento. Ma cosi` non e` se si tengono presenti alcune considerazioni: la vita di comunita` e la comunione fraterna, come e' stato rilevato al c.precedente, sono realta` molto importanti nella vita monastica; la pena della scomunica consiste proprio nel privare il monaco reo di questa realta` spirituale; colui che di iniziativa sua si unisce allo scomunicato, rende vana la pena medicinale applicata dall'autorita` pastorale dell'abate. Egli si contrappone all'abate con grave colpa di insubordinazione, ritenendo ingiusta la decisione di lui. E come succede spesso in questi casi, il monaco che cosi` agisce, non e` mosso dal desiderio di aiutare il reo, ma da una passione di connivenza, di scontentezza, di critica verso l'abate; il suo contatto col monaco reo, fatto magari di nascosto e con sotterfugio, si riduce spesso a colloqui di mormorazione, con ulteriore detrimento spirituale del reo e dell'intera comunita`. Alla luce di queste riflessioni, si comprende la drastica decisione del santo Legislator.

 

CAPITOLO 27

Come l'abate debba essere premuroso verso gli scomunicati

Qualiter debeat abbas sollicitus esse circa excommunicatis

Quanto sia dovuto pesare a SB sentirsi obbligato a elaborare un codice penale cosi` severo, appare chiaramente da questo c.27, uno dei piu` belli della Regola. Il testo, quasi senza parallelo nella RM, tutto pervaso di pieta` e misericordia, tratta degli scomunicati, ma e` interamente dedicato all'abate, e` un direttorio abbaziale per un caso concreto, a cui SB da` la massima importanza. Basta far caso al vocabolario: vediamo che abbondano i termini che rivelano una costante preoccupazione, un enorme interesse con la ricerca di tutti i rimedi fino a qualche stratagemma: ogni cura (v.1), "tutti i rimedi" (v.2), "estrema sollecitudine" (v.5), "con ogni mezzo e saggia accortezza" (v.5).

1-4: L'abate sollecito come un medico

All'inizio l'abate e` visto come un medico (la metafora risale a Origene, Ambrogio, Cassiano) che si occupa dei malati, secondo la frase di Gesu` in Mt.9,12. Ora, questo medico saggio, esperto, usera` ogni industria perche` la "medicina" della scomunica abbia il migliore effetto. E SB ne indica una che, mentre salva l'autorita` dell'abate, esercita anche lo spirito di carita` fraterna: mandera` dei monaci anziani ed assennato i quali "quasi di nascosto" (dagli altri confratelli) lo consolino nell'afflizione e lo spingano a riconciliarsi umilmente dando la dovuta soddisfazione.

Al v.2 c'e` l'espressione inmittere senpectas <far arrivare delle senpecte> che, secondo l'etimologia piu` accertata, deriva da "senape" e indicherebbe un impiastro di senape o "senapismo" che ha proprieta` medicinali, refrigeranti e calmanti. Appare cosi` piu` chiaramente il paragone con il medico: questo cataplasma che deve calmare il dolore sono i fratelli anziani inviati "quasi di nascosto" a consolare il reo, perche` "non sia sommerso da eccessiva tristezza". Bella questa preoccupazione presa da S.Paolo (2Cor.2,7) che donota la tenerezza che deve avere l'abate; e` bello anche il v.4 che allarga questa preoccupazione a tutta la comunita`: "si dia prova a suo riguardo di maggiore carita` (citata da 2Cor.2,8) e tutti preghino per lui."

5-9: L'abate sollecito come un pastore

SB ritorna alla raccomandazione dell'inizio quasi con le stesse parole e presenta ora l'abate come pastore: un pastore che non deve "perdere nessuna delle pecore a lui affidate" (v.5). E` notevole la forza con cui la RB sottolinea l'aspetto realistico, autenticamente umano della missione dell'abate. Non c'e` da farsi illusioni: nella comunita` ci sono a volte alcuni monaci santi, la maggior parte vive certamente una vita degna della propria vocazione; pero` l'abate sta li` soprattutto per essere attento a quelli moralmente infermi perche` ha preso "la cura delle anime deboli e non la tirannia su quelle sane" (v.6). Il monastero non e` una societa` chiusa di anime perfette, Dio ci guardi (soprattutto i superiori) dal pretendere una tal cosa! SB ricorda all'abate il rimprovero di Dio ai pastori d'Israele per mezzo di Ez.34,3-4, citato un po' a senso, quasi a dire: ti compiacevi (ti era facile e comodo) governare i sani, cioe` i piu` docili e virtuosi e trascuravi i deboli che cadono o stentano nella via di Dio. Decisamente la RB sta dalla parte dei piu` deboli, di quelli piu` bisognosi di comprensione, di aiuto.

Questo atteggiamento di SB contrasta con quello di RM nelle stesse circostanze: al monaco scomunicato che si mantiene nella sua ostinazione e ricusa la soddisfazione dovuta, la RM da` tre giorni di tempo; poi passa a una buona dose di frustate e all'espulsione dal monastero (RM.13,68-73). SB non ci dice come va a finire se lo scomunicato persevera sino in fondo nella sua ostinazione (in questo senso il c.27 potrebbe sembrare incompleto): SB ha fiducia che il peccatore sia vinto dalla grazia di Dio, dalla sollecitudine dell'abate e dalla carita` di tutti i fratelli. L'immagine del buon Pastore che riporta all'ovile la pecorella smarrita "sulle sue sacre spalle", con cui si chiude il capitolo, pare insinuare soltanto una conclusione felice di questo piccolo dramma.

 

CAPITOLO 28

Quelli che, puniti piu` volte, non vogliono correggersi

De his qui, saepius correcti, emendare noluerint

1-8: Provvedimenti per i recidivi

Il c.27 presentava il caso dei fratelli scomunicati; il c.28 presenta il "secondo atto" - diciamo cosi` - del dramma: i recidivi, mentre nel c.29 avremo il "terzo atto": gli apostati.

Ci possono essere dunque dei monaci recidivi: li si corregge, li si scomunica. Se non si ottiene nulla, si venga a severi colpi di verga: il castigo corporale difatti si riserva per i duri di testa o di cuore, a cui non giovano le pene spirituali (cf.RB.23,5; 30,2). E..., se nonostante questo, non si correggono, ma anzi volessero difendere la loro condotta?

Ritorna qui l'immagine dell'abate come medico, immagine che viene piu` sviluppata: ha applicato i lenitivi (unguenti) delle esortazioni, i farmaci della S.Scrittura, il ferro rovente della scomunica e delle frustate (v.3). Tutto e` stato vano. Allora viene suggerito "un rimedio ancora piu` efficace": chiedere un particolare aiuto della grazia di Dio mediante la preghiera dell'abate e di tutta la comunita` (vv.4-5).

Esauriti tutti i mezzi naturali e soprannaturali, il medico si trasforma in chirurgo: "l'abate ricorra ormai al ferro dell'amputazione" e, per giustificare questa estrema e sgradita decisione, ricorre a due testi di S.Paolo: il primo (1Cor.5,13) si riferisce all'incestuoso di Corinto ed e` ben applicato; il secondo (1Cor.7,15) non calza troppo bene, e` in un senso molto accomodatizio: la` S.Paolo parla del matrimonio tra un cristiano e un non cristiano e dice che, se il coniuge non credente (pagano) si vuole separare, si separi pure. SB gioca sulla parola "infidelis" che li` significa "non credente" e la applica nel senso di "non fedele" alla sua professione monastica.

Si noti la radice profonda di questa drastica decisione: "perche` una pecora infetta non contagi il gregge intero" (v.8). Il concetto e` comune nei Padri: cf.Cipriano: Epistola 59,15; S.Agostino: Epistola 211,11; Regula Orientalis 35; spesso in S.Girolamo: Epistola 2,1; 16,1; 130,19). SB non caccia dal monastero per castigare l'orgoglio e l'ostinazione; in tutto il codice penale la sua preoccupazione e` curare; le pene sono sempre medicinali. Qui pero` si sente frustrato e impotente in quanto la cura a oltranza dell'ostinato comporta dei rischi per la salvezza di tutti gli altri. Nel c.27 si trattava di salvare una pecora smarrita, nel c.28 si tratta di salvare l'intero gregge; l'obiettivo distingue i due capitoli, pero` lo spirito, l'ispirazione, le immagini, la costruzione letteraria e lo stesso vocabolario sono identici.

 

CAPITOLO 29

Se i fratelli usciti dal monastero debbano essere di nuovo accettati

Si debeant fratres, exeuntes de monasterio, iterum recipi

1-3: Riammissione degli apostati pentiti

Il dramma puo` prolungarsi in un "terzo atto": chi di propria iniziativa abbandona il monastero. La RB prevede ed ha fiducia che costui si converta e riprenda il retto sentiero; se sollecitasse la sua riammissione, gli si apriranno le porte del monastero, a due condizioni (sconosciute nel parallelo di RM.64): a) che prometta seriamente di correggersi di quei vizi per cui se ne ando` via; b) che sia messo all'ultimo posto nella comunita` per provare la sua umilta` e, in ultima analisi, la sincerita` della sua conversione. Lo stesso stabilisce la Regola di Pacomio. (Reg.136).

Se tornera` ad uscire, potra` essere riammesso fino a tre volte, secondo il procedimento evangelico delle tre ammonizioni (cf.Mt.18,15-17), ma poi basta: seguitare ad uscire ed entrare sarebbe poco serio e, in certo modo, burlarsi di Dio e dei confratelli. Colui che abusa di questa triplice possibilita` di riabilitarsi, sara` escluso definitivamente dalla societa` cenobitica. S.Basilio non permetteva piu` l'ingresso al disertore, nemmeno come ospite di passaggio (Reg.fus.14).

Possiamo notare che questa linea di condotta seguita per chi se ne usciva dal monastero, doveva valere probabilmente anche per gli espulsi del capitolo precedente.

 

CAPITOLO 30

Come debbano punirsi i fanciulli di tenera eta`

De pueris moniri aetate qualiter corripiantur

1-3: Correzione dei ragazzi o di adulti di scarsa intelligenza

Il titolo non abbraccia tutto il contenuto del capitolo perche`, oltre ai fanciulli di minore eta`, include anche gli adolescenti e gli adulti di scarsa intelligenza, insomma tutti coloro che "non comprendono il valore della scomunica "(v.2): in questi casi la scomunica sarebbe non solo inutile, ma dannosa; allora si usano digiuni o battiture "perche` si correggano" (v.3): si noti sempre il fine medicinale della pena.

Nella RM viene indicata l'eta` dei 15 anni quale limite per le battiture (RM.14,79-87); negli adulti le battiture sono previste solo per motivo oggettivo: colpe enormi commesse. Invece in RB le battiture inflitte agli adulti sono determinate da un motivo soggettivo: il colpevole non comprende la scomunica.

Il principio generale di sapiente governo e di sana pedagogia posto al v.1 giustifica il capitolo e le deduzioni pratiche e semplici che ne derivano. Notiamo che la pena delle battiture era, a quei tempi, un fatto comune tra i monaci e i chierici (come anche tra gli alunni in genere).

 

CAPITOLO 43

Quelli che giungono tradi all'Ufficio divino o alla mensa

De his qui ad Opus Dei vel ad mensam tarde occurrunt

Il significato della soddisfazione per le colpe commesse

Come gia` detto nell'introduzione al "codice penitenziale" (RB.23-30 e 43-46: vedi sopra, Preliminari al c.23), i cc.43-46 formano il trattato della soddisfazione. Cerchiamo di capirne lo spirito.

Come e` proprio dell'uomo sbagliare, cosi` e` proprio del monaco riconoscere umilmente i suoi errori e le sue deficienze davanti a Dio e davanti ai fratelli. Percio` il significato della soddisfazione e` quello di riparare pubblicamente le colpe, gravi o leggere, commesse pubblicamente a detrimento della pace, della concordia, dell'ordine della comunita`; chiedere perdono a Dio delle irriverenze commesse contro di lui o contro le cose a lui consacrate. Il c.43 parla della soddisfazione di chi arriva tardi alla preghiera comune o alla mensa. Ha il parallelo in RM.73.

1-3: Sollecitudine ad intervenire all'Ufficio divino

La puntualita` costituisce un elemento fondamentale per l'ordine. Essa va usata soprattutto per la preghiera. Qualunque sia l'occupazione del monaco, al segnale dell'Ufficio divino, bisogna lasciarla subito perche` la dignita` della preghiera comune e` superiore a tutte le altre cose. Per inculcare la piu` scrupolosa puntualita`, SB dice di "correre con somma sollecitudine" (v,1), ma sempre con la gravita` caratteristica del monaco, ricordata molte volte nella Regola (cf.RB.6,3; 7,60; 22,6; 42,11; 47,4).

Nulla percio` si anteponga all'Opera di Dio <Ergo nihil Operi Dei praeponatur> (v.3): la celebre massima benedettina si trova in questo capitolo. Per il monaco la preghiera liturgica comunitaria ha un primato indiscutibile e il monaco e`, e deve tendere ad essere, essezialmente uin uomo di preghiera (cf. tutta la sezione "L'Opera di Dio" con l'Excursus sulla preghiera monastica).

L'espressione "Nihil Operi Dei...", e soprattutto il concetto stesso, erano tradizionali nel monachesimo. Nella II.Reg.Patrum,31 si legge: "Niente si deve anteporre all'orazione"; l'orazione qui denota l'Ufficio divino. "Non anteporre nulla all'orazione in tutto il giorno" e` una massima dell'abate Porcario di Lerins.

4-9: I ritardatari all'Ufficio notturno

Nonostante tutte le avvertenze e la solidita` del principio generale, e` inevitabile per la natura umana che ci siano delle mancanze. SB si mostra comprensivo e indulgente e vuole anche all'Ufficio notturno il salmo 94 (l'Invitatorio) si reciti molto lentamente per dar modo ai sonnolenti di giungere prima del Gloria. Chi arriva piu` tardi si mettera` all'ultimo posto o in un luogo speciale a cio` destinato dall'abate e dia soddisfazione al termine dell'Ufficio (vv.5-6). SB si mostra qui innovatore: secondo l'uso di molti monasteri attestato da Cassiano (Inst.3,7), i ritardatari (dopo il secondo salmo) erano costretti a rimanere fuori e a unirsi solo da lontano alla preghiera e a prostrarsi ai piedi di tutti quando uscivano. SB li pone in un posto particolare perche` per la vergogna di vedersi cosi` notati siano portati a correggersi (v,7); altrimenti, se rimangono fuori, ci sara` chi se ne torna beatamente a letto, oppure si sdraia li` per terra godendosi, d'estate, il fresco della notte o chiacchierando con qualche altro del suo stampo (v.8).

Il S.Patriarca e` veramente un pittore arguto in questa scenetta: conosce l'uomo; la sua esperienza, la sua fine penetrazione psicologica gli hanno insegnato molte cose: "Che entrino, invece, perche` non perdano tutto" (v.9).

10-12: I ritardatari all'Ufficio diurno

Per gli Uffici diurni SB e` piu` severo, perche` i monaci sono allora meno scusabili, essendo gia` tutti in piedi; non solo si riduce il margine per il ritardo (il Gloria del primo salmo), mentre di notte c'era il salmo 3 di attesa e il salmo 94 cantato lentamente), ma si proibisce ai ritardatari di associarsi al coro dei fratelli salmodianti (v.11), a meno che l'abate, per ragioni particolari, non lo concede; rimane comunque l'obbligo della soddisfazione (v.12).

13-17: I ritardatari alla mensa

Anche la mensa comune e` uno degli atti piu` importanti per la societa` cenobitica. Chi arriva tardi, dopo la preghiera, o esce prima della preghiera di ringraziamento, mangera` da solo e senza vino; pero` tale punizione si applica soltanto dopo due ammonizioni (v.14).

18-19: Disciplina nel prendere il cibo

Approfittando dell'occasione, SB aggiunge una nota (per se` non c'entra con il tema del capitolo): che nessuno ardisca mangiare o bere fuori dagli orai regolari. Anche Cassiano parla di monaci che osservavano cosi` rigorosamente tale norma da non toccare neppure i frutti caduti a terra (Inst.4,18). S.Basilio dice: "Attento a non incorrere nel peccato di mangiare clandestinamente: (Reg.15). Fa eccezione il caso in cui il superiore offre qualcosa, per esempio per un lavoro straordinario o per altro motivo: sarebbe allora orgoglio e superbia non accettare e si sarebbe passibili di punizione.

 

CAPITOLO 44

Come debbono fare la soddisfazione gli scomunicati

De his qui excommunicantur quomodo satisfaciant

Il capitolo parla della soddisfazione e riconciliazione dei monaci scomunicati. Cassiano prevede un rito molto semplice: una semplice prostrazione alla fine dell'Ufficio e l'ordine dell'abate di alzarsi (Inst.4,16). RM.14 e` piu` complicata: prostrazione alla porta durante l'Ufficio, preghiera della comunita` all'abate, rimprovero al penitente e sua promessa di correggersi, preghiera della comunita`, versetto "Confitemini..." <Confessatevi...>, lunga preghiera, nuovo avvertimento, versetto "Erravi..." <Ho peccato...>. RB in parte ritorna alla semplicita` di Cassiano, in parte conserva il cerimoniale di RM.

1-8: Soddisfazione degli scomunicati: scomunica maggiore

I colpiti da scomunica maggiore (RB.25) devono seguire questa procedura in quattro fasi: anzitutto la prostrazione alla porta dell'oratorio "in silenzio, con la faccia rivolta a terra, ai piedi di tutti i fratelli man mano che escono"; e non una volta sola, ma fino a quando lo giudica l'abate (vv.1-3). Potremmo qui notare la falsariga della procedura della Chiesa per i penitenti pubblici i quali aspettavano davanti alla porta della basilica). Poi, chiamati dall'abate, si prostrano davanti a lui e a tutti per chiedere preghiere: e` un rito silenzioso, non si pronuncia nessuna orazione a voce alta (a differenza della lunga orazione di RM.14,25-73). Quindi, se l'abate lo concede, tornano al loro posto in coro. Pero` non potranno recitare salmo o lettura come solista in coro e alla fine di ogni ora canonica si prostrano a terra al loro posto.

Questa soddisfazione durera` fin quando l'abate lo giudichera` opportuno. Cosi` la procedura potra` essere piu` o meno lunga; e` da notarsi l'insistenza di S.Benedetto sul giudizio personale e la responsabilita` pastorale dell'abate, il quale deve essere spinto solo dal desiderio di provare la sincerita` e la perseveranza del monaco penitente e assicurare meglio la sua conversione. SB si ispira alla medesima carita` e al realismo dei cc.27-29; e` piu` pedagogico rispetto a RM, perche` conosce meglio la psicologia e ha esperienza diretta.

9-10: Soddisfazione degli scomunicati: scomunica minore

Gli scomunicati solo dalla mensa (scomunica minore: RB.24) fanno la soddisfazione nell'oratorio fino a quando l'abate con la sua benedizione dice che basta. Consisteva nella prostrazione alla fine dell'Ufficio e probabilmente nel non intonare salmi e antifone, come nella terza e quarta fase del rituale sopra descritto (vv.6-7).

 

CAPITOLO 45.

Quelli che sbagliano nell'oratorio

De his qui falluntur in oratorio

1-3: Sbagli durante la preghiera comune

Non si tratta piu` di mancanze provocate da cattiva disposizione, ma da disattenzione o negligenza. Secondo Cassiano (Inst.4,16), costituivano una colpa lieve da ripararsi subito mediante pubblica penitenza. Anche SB esige una riparazione pubblica per quegli "sbagli commessi per negligenza" (v.2), ma non dice in che cosa essa consista; probabilmente in una prostrazione a terra. Ancor oggi nei monasteri si conserva l'uso di questo atto di umilta` per gli errori durante l'Ufficio: si porta la mano al petto o si genuflette al proprio posto... Sono, oltre che espressioni di umilta`, atti di riverenza verso la santita` di Dio (cf.RB.19 e 20). Chi non voleva sottoporsi a questa umiliazione e riparazione veniva punito piu` severamente, a giudizio dell'abate (forse con la soddisfazione degli scomunicati).

3: I fanciulli, per mancanze di questo genere, siano battuti

Bisogna intendere per gli sbagli in coro, oppure per non essersi umiliati dopo gli sbagli? Sembrerebbe piu` probabile la seconda ipotesi: anche i ragazzi hanno il loro amor proprio. Ma bisogna anche ammettere che SB possa aver inteso infliggere le battiture ai ragazzi per gli sbagli durante la recitazione. Si pensi che l'uso della verga era normale per gli alunni, e` rimasta celebre la verga con cui S.Gregorio correggeva gli irrequieti fanciulli che formava al canto sacro (cf. anche la famosa esperienza di S.Romualdo). E, del resto, fino a non molti anni fa`, sulla cattedra del maestro elementare faceva bella mostra la bacchetta e qualcuno degli ancora viventi potra` ricordare di aver imparato le declinazioni latine a forza di bacchettate!

 

CAPITOLO 46

Quelli che sbagliano in una qualsiasi altra cosa

De his qui in aliis quibuslibet rebus delinquunt

1-4: Colpe esterne in qualunque luogo del monastero

Quest'ultimo capitolo della sezione disciplinare considera tutte le altre colpe e negligenze che possano commettersi in qualunque parte del monastero. Il castigo per i falli esterni qui previsti - rompere qualche oggetto o perderlo - non costituisce nessuna novita` per la legislazione monastica: Pacomio (Reg.13-17,131) e Cassiano Inst.4,16) lo menzionano. Cio` che e` nuovo e` l'esigenza di spontaneita` e l'immediatezza della soddisfazione (non previste in Cassiano e in RM). SB prevede due gradi: il primo e` la soddisfazione immediata; il secondo, nel caso della non soddisfazione, e` la scomunica.

SB si ispira a S.Agostino (Epistola 211,11) che prevede, per il monaco che riceve regali di nascosto, tutti e due i casi: se lo confessa spontaneamente, verra` perdonato; se si viene a sapere da altri (per esempio da un decano o da qualche altro fratello, sara` punito piu` severamente. Tuttavia, mentre Agostino parla di una colpa abbastanza grave (doni ricevuti di nascosto da una donna), SB applica la norma a casi piu` banali ed estende il suo campo di applicazione. Ricordiamo che nella vita del S.Patriarca, abbiamo un esempio di ambedue i casi: la confessione spontanea del buon goto, che venne subito confortato da SN (II.Dial.6) e il monaco che aveva ricevuto dei fazzoletti e non disse nulla e ne ebbe una solenne lavata di capo (II.Dial.19).

5-6: Colpe interne o peccati occulti

Il monaco deve dunque confessare spontaneamente le proprie mancanze, anche le piu` materiali, e soddisfare per esse. Se invece si tratta di "peccati occulti" commessi nel segreto della propria coscienza, non devono essere pubblicati. Bisogna, si`, confessarli, ma solo all'abate o ai "padri spirituali".

Non e` facile stabilire precisamente cio` che si intende per "peccati occulti". Si puo` fare riferimento a RM.15 (pensieri cattivi) e a Cassiano (Coll.2,11.13: furto, pensieri impuri). In RM la confessione si fa all'abate, ed e` preparata dai preposti (decani); in RB si fa all'abate e ai "seniori spirituali": questi possono essere i decani, ma non solo loro. "Anziani spirituali" nella tradizione monastica (trasmessa soprattutto da Cassiano), sono quei monaci molto avanti nella vita spirituale, alla fine del cammino della scala dell'umilta`, quindi oggetto di una particolare ispirazione dello Spirito Santo. Non si tratta dei sacerdoti del monastero (RB.62), ne` si parla qui della confessione sacramentale, ma di vera direzione spirituale che, secondo La Regola, non e` solo monopolio dell'abate. La manifestazione dei pensieri cattivi e dei peccati occulti e` ricordata altre volte nella RB: in uno strumento delle buone opere (RB.4,50) e nel 5^ gradino dell'umilta` (RB.7,44-45).

Tutta questa finale del c.46 si ispira in qualche modo a RM.15 (e a S.Agostino, soprattutto per la spontaneita` dell'accusa), ma e` originale nella distinzione netta tra la confessione pubblica per le mancanze esterne e la confessione privata per i peccati interni. Quando SB dice: "sappia curare le piaghe proprie e altrui", include in tale scienza la nozione della Scrittura (come RM), ma soprattutto la capacita` di tacere sulla confessione ricevuta, e in piu` ricorda all'abate e al seniore spirituale la propria fragilita`: anche loro sono peccatori come gli altri.




(segue Conclusione sul Codice Penitenziale (RB.23-30 e 43-46)

CONCLUSIONE SUL CODICE PENITENZIALE

Concludendo, richiamiamo alcuni valori fondamentali del codice penitenziale benedettino:

*** Importanza della persona. Piu` volte nel codice penale - come anche nel capitolo sull'abate (cf.RB.2,23-25.27.28-31) - SB ritorna sul fatto che la punizione deve essere adeguata all'indole di ciascuno, proprio perche` non si tratta di vendetta, ma di un modo per aiutare e curare il fratello che sbaglia. Percio` SB, a malincuore e dopo numerosi tentativi, si decide ad espellere il monaco colpevole e solo per timore che altri si perdano a causa sua (RB.28,6-8); e in seguito, se quegli si pente, e` disposto a riprenderlo in comunita` anche piu` volte. (RB.29,1-3).

*** Dimensione comunitaria. Un fatto emerge dal codice penitenziale, al di la` delle forme e delle consuetudini dovute alla societa` del tempo: ogni trasgressione alla Regola, ogni mancanza grande o piccola commessa in monastero, e` un attentato alla vita della comunita` e come tale deve essere corretta e riparata; e` sulle condizioni e sui modi di appartenenza alla comunita` che scatta la scomunica, la cui pena e` proprio l'esclusione dalla vita di comunione nei suoi gesti principali: preghiera e mensa.

 

Che cosa rimane oggi?.

Che cosa possiamo e dobbiamo ritenere oggi di tutto il codice penitenziale della RB? Certo, la presenza stessa di un codice penale nella Regola puo` risultare sgradevole alla nostra mentalita` odierna; e di fatto l'accentuazione dell'aspetto giuridico e casuistico ha portato ad immagini di monastero troppo distanti dallo spirito del Vangelo e del monachesimo: monasteri quasi caserme o scuole nel senso peggiore (la storia ce ne fornisce degli esempi) e non comunita` di volontari, aggregazione libera per seguire Cristo.

Tuttavia ci sono alcuni valori nel codice penitenziale che non dovrebbero andare perduti. Poniamo delle riflessioni in forma di questioni:

1. La pratica della scomunica implicava delle regole molto strette e precise di appartenenza alla comunita`. Il fatto di aver abolito ogni penalita` non potrebbe indicare che questi criteri di appartenenza sono divenuti molto labili? che, cioe`, si tende a vivere in modo individualistico?

2. Con le punizioni e le penitenze, la Regola intende dare soprattutto un aiuto al monaco perche` egli possa prendere coscienza dei propri difetti e correggersi (aspetto medicinale della pena). Abbiamo trovato, oggi, altri modi concreti di aiuto? O ciascuno e` lasciato "libero" (cioe` solo) con i propri limiti e il desiderio di superarli?

3. Nella RB pena e penitenza hanno un carattere pubblico, come detto sopra. Abolite, per la mentalita` dei tempi, tutte le pratiche della Regola, non c'e` pericolo che vi sia una mancanza di sensibilita` riguardo al confronto e alla correzione fraterna? O, peggio, dato che ci si conosce molto bene, non ci riduciamo forse soltanto a fare mormorazione e critica "privata"? Dobbiamo - credo - educarci di piu` al senso della responsabilita` reciproca: la comunita` intera come organismo deve salvare i suoi membri deboli e infermi, non con un malinteso senso di pieta` o peggio con una colpevole solidarieta` con i vizi, ma con una carita` genuina che comprende la correzione fraterna - la "verita` nella carita`", cf.Efes.4,15) - con una preghiera insistente e con un supplemento di santita`. Dio ci ha riuniti insieme perche` lo cerchiamo nella preghiera, nel lavoro, nella vita comune. Ognuno deve sentirsi ormai inseparabile dai suoi confratelli e solidale con essi per sempre. Bisogna dunque che egli lavori, preghi, si sacrifichi non solo per raggiungere la propria santificazione personale, ma anche per aiutare quella degli altri.

Possiamo ritenere almeno queste riflessioni dall'esame dei dodici capitoli del codice penitenziale della RB.




CAPITOLO 32

Gli arnesi e gli oggetti del monastero

De ferramentis vel rebus monasterii

 

Preliminari: I beni materiali e La poverta` individuale

Questa sezione comprende i capitoli: 32-34; 54-55; 57. La vita monastica, pur essendo soprannaturale nelle sue motivazioni e nel suo fine, e` una vita incarnata. I monaci non sono angeli, hanno un corpo, hanno bisogno di cibo per nutrirsi, di vestiti per coprirsi, di strumenti per lavorare. Per cui nel monastero ci sono molte cose di cui non si puo` fare a meno.

Ma nei capitoli che trattiamo in questa sezione appare l'importanza che SB da` allo spogliamento individuale, alla disappropriazione. Per SB la poverta` individuale e` considerata anzitutto come dipendenza dall'abate: la rinunzia alla proprieta` proviene dalla rinunzia alla propria volonta`, idea collegata con quella, soprattutto di Agostino, della comunione fraterna dei beni, secondo il modello degli Atti degli Apostoli.

Fonti

Le fonti di RB per questi capitoli sono RM, Cassiano e S.Agostino. La tendenza di RB e` quella di abbreviare, oppure di riassumere in una formula generale molteplici norme e dettagli. Inoltre RB e` piu` dura rispetto ai testi precedenti, con frequenti riferimenti alle pene (ce ne sono in tutti questi capitoli, anzi RB.32.33.34 terminano sempre con la mensione delle pene).

Lo spogliamento individuale e` inculcato con grande forza e vasto e` il ruolo dell'abate in questa materia. Sotto l'influsso di Agostino, poi, SB ha uno spiccato senso della diversita` delle persone (gia` visto anche nella sezione penale e in molti altri punti della Regola) e una cura delle relazioni fraterne che mancano in RM.

1-5: Gli oggetti del monastero

Vediamo aleggiare in questo breve capitolo la preoccupazione e la scrupolosita` per l'ordine e lo spirito di fede. Niente nel monastero e` "profano": l'ordine, la pulizia, la buona amministrazione devono regnare nel monastero, che e` "casa di Dio" (RB.31,19) e in cui tutte le cose debbono essere viste, nella fede, come cose sacre (RB.31,10). Percio` ogni strumento deve stare al suo posto e ci debbono essere degli addetti che se ne occupano. L'abate stesso e` il responsabile ultimo e tiene l'inventario di tutto. RM.17 prevede un solo custode al quale l'abate consegna gli oggetti; SB ha in mente una comunita` piu` grande.

Lo spirito di fede e di poverta` esigono che gli oggetti del monastero non siano lasciati sporchi e fuori posto (la RM ha una frase plastica quando dice che "gli attrezzi di ferro si arrugginiscono se non si rimettono a posto puliti", RM.17,9); per cui chi manca, dopo essere stato ammonito come al solito, sia punito secondo le sanzioni previste dalla Regola (letteralmente: "sia sottoposto alla disciplina regolare", v.5).

 

CAPITOLO 33

Se i monaci debbano avere qualcosa di proprio

Si quid debeant monachi proprium habere

1-4: Il vizio della proprieta`

E' uno dei capitoli piu` duri della Regola, una pagina energica, radicale, in cui SB porta a conseguenze estreme l'insegnamento di Cassiano: il monaco non deve possedere nulla di proprio, ed e` in totale dipendenza dalla volonta` dell'abate. Senza mezze misure SB esordisce all'inizio del capitolo con una frase secca: "Nel monastero bisogna soprattutto strappare fin dalle radici questo vizio" (v.1).

Gia` la tradizione monastica anteriore riconosceva concordemente la poverta` come elemento essenziale dello stato monastico; e la condanna della proprieta` privata e` uno dei temi piu` comuni nelle Regole monastiche e nei trattati di spiritualita`: cosi` Pcomio, Basilio, Agostino, Cassiano. Pero` le espressioni cosi` forti di SB hanno un parallelo solo in alcune frasi virulente di S.Girolamo.

Notiamo in questo capitolo: nessuno ardisca (v.2); nulla nel modo piu` assoluto; nulla insomma (v.3). La ragione di cio` e` detta nel v.4: poiche` il monaco si e` dato integralmente a Dio, ormai a lui non appartengono piu` ne` la sua volonta` ne` il suo corpo, tanto meno quindi i beni esterni e materiali. Nel testo originale latino c'e` un gioco di parole (forse un po` troppo sottile); letteralemente sarebbe: perche` i monaci non hanno sotto la loro volonta` ne` i propri corpi, ne` le proprie volonta` (cioe` i propri desideri).

5-6: Il vero senso della poverta` monastica

La poverta` monastica si esprime in termini di dipendenza dall'abate. Si notino le due espressioni del v.5: "tutto sperare" e ""dal padre del monastero" (= l'abate; pero` non e` fuori luogo ricordare in questo contesto che anche del cellerario viene detto: "sia come un padre per tutta la comunita`", RB.31,2). L'altro aspetto della poverta`: cio` che si ha, reputarlo come bene comune del monastero, non come proprio (v.6); e viene citato l'ideale della comunione dei beni della Chiesa di Gerusalemme (Atti 4,32: la citazione e` con qualche adattamento).

7-8: Penalita` per i trasgressori

Un capitolo cosi` deciso e radicale non poteva non terminare con le sanzioni contro chi "va dietro a questo pessivo vizio" (vv.7-8).

Oggi.....

Oggi si deve intendere che il monaco abbia molte cose a suo uso personale con il permesso implicito del superiore; cioe` anche se il superiore non ha dato direttamente un libro o un capo di vestiario o la macchina da scrivere, si suppone il suo benestare e la sua benedizione per un certo spazio in cui il monaco responsabilmente usa le sue cose.

Tuttavia, commentando questo capitolo della Regola, non e` male interrogarci, noi monaci del XX secolo, sullo spirito di distacco e di poverta`. Ricordiamoci che la vocazione di Antonio il Grande comincio` con la pratica letterale delle parole di Gesu`: "Va, vendi quello che hai..." (Mt.19m21); ricordiamoci che una delle note qualificanti del monachesimo era lo spogliamento totale, per vivere nella semplicita` e nel distacco piu` assoluto; pensiamo che ancora oggi per il monachesimo hindu e buddhista farsi monaci significa spogliarsi veramente di tutto, non avere assolutamente nulla. Le notre camere non sono rifornite un po` troppo? Non diventiamo forse troppo esigenti o alla ricerca di tante piccole cose, anche non strettamente necessarie? La nostra poverta` - di cui facciamo ora un voto esplicito - a che cosa veramente si riduce? Nonostante tutti i cambiamenti dei tempi, lo spirito del voto di poverta` rimane sempre lo stesso: il distacco reale e sincero da tutti i beni temporali ed esterni, anche minimi, per avere libero il cuore ed aderire esclusivamente a Dio.

Oggi, poi, siamo chiamati, molto piu` che una volta, a una testimonianza anche collettiva di poverta`. A questo, il mondo di oggi e` molto sensibile (fanno problema le grandi proprieta` e le vistose costruzioni dei seminari e degli istituti religiosi...). E` bene che non solo il singolo monaco nella semplicita` della sua stanza, nel vestito, negli oggetti di suo uso, ma anche tutta la comunita` dia conventualmente testimonianza dello spirito e della pratica della poverta`, tenendo conto del luogo in cui e` situato il monastero. Cosi` e` bene che superiori, singoli monaci, comunita` tengano in considerazione che due terzi dell'umanita` non hanno di che procurarsi il necessario sostentamento, anzi vivono in condizioni sub-umane; di fronte alla poverta`, non sono che inezie che dovrebbero diventare motivo - per dirla con SB, c.40,8 - "di benedire Dio e non mormorare", perche` ci danno modo, in forza del Corpo Mistico, di condividere piu` intimamente le sofferenze dei fratelli piu` poveri.

 

CAPITOLO 34

Se tutti debbano ricevere il necessario in uguale misura

Si omnes aequaliter debenat necessaria accipere

1-5: Si deve dare secondo il bisogno

Il capitolo inizia con la risposta alla domanda posta dal titolo (v.1); l'ideale della prima comunita` cristiana di Gerusalemme (Atti 4,35) diventa per SB un criterio. Il cammino monastico non e` anarchico ne` livellatore; i monaci non sono fatti in serie o con lo stampo. L'abate, che deve dare ai monaci il necessario (RB.33,5), deve considerare le varie personalita`; non che deve fare preferenze (v.2), ma tener conto delle debolezze (v.3). Ancora una volta SB e` dalla parte dei piu` deboli (cf. anche RB.37,2-3; 55,21; ecc.): piu` che esigere molto o il massimo da tutta la comunita`, nella legislazione si parte dalla necessita` dei meno dotati.

Nei versetti seguenti appare se lo spirito di poverta` e di distacco si pratica in nome dell'amore verso il Signore che non guarda i suoi interessi o se si pratica per un motivo esterno, meschino e invidioso; cioe`: chi necessita di meno, ringrazi Dio e non si lamenti credendosi non considerato o disprezzato e sentendosi invidioso per le delicatezze verso gli altri (v.3); chi necessita di piu`, non si insuperbisca credendo di essere il preferito o il piu` meritevole, ma si umili perche` le speciali attenzioni sono un segno della sua debolezza e della carita` del monastero nei suoi riguardi.

In tutto il brano e` evidente l'influsso di S.Agostino (Reg.9,54-55). La Regola di Agostino non si occupa solamente della distribuzione del necessario, ma soprattutto delle relazioni tra i fratelli che potevano provenire dalla casta dei ricchi (la minima parte) o dai ceti inferiori (la maggior parte). Tutto il capitolo

risente delle idee, del vocabolario, della fine psicologia del grande spirito di Agostino.

5: e cosi` tutte le membra saranno in pace.

Bellissima frase, di evidente parallelo con RB.31,19: "affinche` nessuno si turbi o si rattristi nella casa di Dio". E` il richiamo alla PAX benedettina.

6-7: Condanna della mormorazione

Nonostante le cosi` nobili e ragionevoli osservazioni, SB sa che i monaci rimangono uomini e, come tali, sono portati ad essere invidiosi. Per questo, a proposito della disuguale - pero` giusta! - distribuzione del necessario, cioe` delle cose in dotazione al singolo monaco, - cose quindi diverse e in misura diversa -, introduce una severa condanna del vizio della mormorazione. SB insistera` altrove (cf.RB.40,8-9) contro la mormorazione, "cancro delle comunita`". Si notino le forti espressioni con l'accumulo di termini: "ante omnia" <soprattutto>; "pro qualiscumque causa" <per qualsiasi ragione>; "in aliquo qualicumque verbo vel significatione" <in qualsiasi parola o altro gesto>. Le rivendicazioni, il malcontento, l'acidita` nel monastero sono veramente l'antitesi della PAX che invece deve regnare. La carita` insomma, e solo la carita`, rende possibile "l'utopia" di avere tutto in comune, secondo il meraviglioso - e purtroppo di breve durata - esempio della prima Chiesa di Gerusalemme.

 

CAPITOLO 54

Se il monaco possa ricevere lettere o altre cose

Si debeat monachus litteras vel aliquid suscipere

1-5: Non ricevere nulla senza permesso

Questo breve capitolo non e` che l'applicazione di quanto prescritto in RB.33,2: "Nessuno ardisca dare o ricevere qualcosa senza il permesso dell'abate". Si e` gia` detto quanto SB sia severo in materia di poverta`, per lo spogliamento e il distacco del monaco. La fonte e` soprattutto S.Agostino (ma anche Pacomio, Cassiano, Cesario); tuttavia, mentre Agostino parla della castita` (ricevere alcunche` da qualcuna, cioe` da una donna) e della clausura, RB si riferisce alla poverta` (e all'obbedienza: non disporre di nulla senza il permesso dell'abate).

Per il monaco destinatario si aggiunge la raccomandazione di non lamentarsi (cfr. RB.34,3) nel caso che l'abate dia il permesso di accettare il regalo e poi lo dia a un altro fratello che forse ne ha piu` bisogno, secondo lo spirito del c.34: e` un caso concreto di distribuzione delle cose in comune. Pertanto quel monaco a cui era inviato il regalo non deve rattristarsi, "per non dare occasione al diavolo" (cf. Ef.4,27; 1Tim.5,14), cioe` per non cedere alla tentazione del malcontento, dell'agitazione, della mormorazione.

2: eulogia

Il termine "eulogia" (letteralmente: "buona parola", "benedizione") ha tanti significati: designava anzitutto l'Eucarestia e il pane benedetto durante la messa che si inviavano vicendevolmente vescovi e presbiteri, in segno di comunione e di amicizia. S.Paolino da Nola ne mandava ai suoi amici, come S.Agostino. Anche quel briccone di Fiorenzo, quando incio` a SB il pane avvelenato, simulo` di mandare un'eulogia (II.Dial.8). Designava ancora il pane offerto dai fedeli che non veniva consacrato per l'Eucarestia e veniva distribuito al termine della liturgia. Il vocabolo servi` poi ad indicare ogni pio dono, come reliquie, medaglie, immagini e anche frutta e piccoli doni tra i piu` vari. In questo testo, dunque, significa piccoli regali, magari con incluso il carattere quasi sacro di regalo tra ecclesiastici e persone consacrate a Dio (SB pensa probabilmente ai regaletti fatti ai monaci dalle monache o pie donne, cf.II.Dial.19).

 

CAPITOLO 55

Vesti e calzature dei fratelli

De vestiario vel calciario fratrum

1-8: I vestiti dei monaci

Anche S.Agostino, subito dopo le norme sull'accettazione di lettere o regali, parla del vestiario dei monaci: un punto su cui e` piu` facile che si insinui il vizio della proprieta`. Questo capitolo della RB si ricollega a RM.81 e, nella seconda parte, a RM.82.

Che cosa deve avere dunque ciascun monaco per uso suo personale? Vestiti, calzature e pochi utensili: lo stretto necessario. RB.55 intende precisarlo, ma solo fino a un certo punto. Perche` SB ha troppa esperienza, prudenza e sensatezza per imporre un vestito uniforme, un "abito religioso" nel senso moderno della parola, valido e obbligatorio per tutti i luoghi e per tutte le persone. SB vuole che si tenga conto del clima (vv.1-3), e cio` fa capire che egli ha una prospettiva ampia (non pensa solo al monastero di Montecassino o di Terracina); esprime la sua opinione su cio` che basta in un clima temperato (vv.4-6); non gli interessano il colore e la qualita`, e vuole che i monaci non se ne curino (vv.7-8). Cio` che gli interessa e` la poverta`, o meglio la semplicita`: che ci si accontenti del necessario; difatti SB insiste sulla sobrieta` (sufficit <basta> dei vv.4 e 10) e sul ruolo dell'abate nel fornire il vestiario (v.8).

L'elenco del vestiario fornito dalla Regola e` abbastanza ridotto: una cocolla di lana per l'inverno e un'altra piu` leggera o consumata per l'estate, la tunica, lo scapolare "per il lavoro" <propter opera>, scarpe e calze (vv.4-6). Tutto sembrerebbe chiaro, e invece non lo e` affatto, perche` nessuno dei capi di vestiario menzionati corrisponde a quelli in uso oggi nei monasteri; anche se i nomi sono rimasti, il significato e` mutato. Vediamo in breve:

L'evoluzione dell'abito monastico

(Queste note sono desunte da G.M.Colombas: "L'abito monastico", in D.I.P. I,50-56).Gli storici disputano sul senso degli antichi testi relativi all'abito dei monaci. Alcuni dicono che esso era certamente riconoscibile e che, sin dai testi pacomiani, "prendere l'abito", o riceverlo dalle mani di un altro monaco equivaleva a impegnarsi nello stato monastico. Altri dicono che l'abito monastico non aveva nulla di specifico, in quanto cio` non era ammissibile per gli usi del tempo. La cosa e` discutibile e i testi sono interpretati nell'uno o nell'altro senso. Certo e` che l'abito monastico doveva mettere in risalto la poverta`, l'umilta`: ora il problema e` sapere se facevano questo prendendo un abito particolare, oppure scegliendo l'abito comune della gente piu` povera e piu` semplice.

In oriente

In oriente gli anacoreti usavano la massima liberta`. Forse il primo abito monastico distintivo fu la "melota": una specie di zimarra larga, fatta di pelli di capra o di altro animale, stretta al corpo da una cintura di cuoio; ricordava - e senza dubbio voleva pure imitare - il vestito di Elia (cf.2Re 1,8) e di Giovanni Battista (cf.Mt.3,4), i due precursori dei monaci cristiani. I monaci d'Egitto continuarono per molto tempo a usare la melota, pero`, in genere, solo come difesa dal freddo. Abitualmente invece indossavano una tunica con o senza maniche, una cintura di cuoio e un cappuccio <"Koukoullion"> che copriva il capo e il collo. Cosi` la maggior parte degli eremiti e cenobiti di S.Pacomio. S.Basilio non prescrive un abito tipico, ma un vestito povero, semplice, simbolo della rinunzia alla vanita` del mondo.

In occidente

In occidente l'abito monastico e` stato il piu` vario. S.Girolamo descrive - esagerando un po` - le bizzarrie e le stravaganze nel vestire dei vari monaci che giravano per Roma. S.Martino di Tours e i suoi monaci indossavano una tunica tessuta con pelle di cammello e un "pallium" o mantello nero. Il pallium era a quel tempo il contrassegno piu` comune del monaco in Gallia e nell'Africa romana. CASSIANO attribuisce grande importanza all'abito monastico, cui dedica tutto il primo libro delle Institutiones. In occidente comunque fini` per imporsi il cappuccio, tanto che i monaci furono conosciuti come gens cucullata <persone incappucciate>, e si conservava anche la melota: S.Benedetto eremita a Subiaco andava vestito di pelli (II.Dial.1) e da abate continuo` a portarla (II.Dial.7). La RM (90,82-86) usa le espressioni "vestiti santi", "abiti sacri", "abito di Cristo", abito del santo proposito", cioe` per il Maestro esiste un abito distintivo.

La RB

Al contrario, la RB non ha nulla di esplicito: probabilmente ne` la cuculla, ne` la tunica, ne` lo scapulare che i primi monaci di S.Benedetto indossavano , erano abiti specificamente monastici. La "tunica" di lana era l'indumento piu` importante, insostituibile; tutti i romani l'avevano; gia` fin dal secolo III d.C. si usava un cinturone di cuoio: "bracile"; in RB.22,5 si parla di corde o tunicelle: "cingulis aut funibus"). La "cuculla" consisteva originariamente in un semplice cappuccio che copriva la testa, il collo e parte delle spalle; piu` tardi si modifico`. La cocolla di SB era forse un mantello semicircolare chiuso (molto simile alle ampie casule); costituiva il vestito esteriore del monaco, come lo prova il fatto di averne due, una per l'inverno e ?una per l'estate. Probabilmente se la toglievano per lavorare, sostituendola con lo scapolare. Lo "scapulare" e` il pezzo piu` discusso: alcuni lo identificano con lo "analabos" di cui parla Evagrio Pontico, cioe` la cinta di lana che girava intorno al corpo per aggiustare e adattare il vestito alla persona; altri pensano a un modello piu` ridotto di cocolla, piu` adatto per il lavoro manuale, una cocolla particolarmente corta da coprire poco piu` che le spalle ("scapulare", appunto). Quest'ultima opinione e` la piu` probabile. Per i piedi si parla di pedules et caligae <calze e scarpe>, ma non si e` affatto d'accordo sul significato dei termini usati da SB. Secondo alcuni, i "pedules" sarebbero una specie di sandali legati al collo del piede con lacci (come le "ciocie" usate nella zona di Cassino I(che e` la "Ciociaria"); le "caligae" invece erano stivaletti da viaggio He da campagna. Sembra piu` probabile che "pedules" fossero un indumento di stoffa che avevano l'ufficio delle nostre calze, e "caligae" fossero le scarpe simili alle calzature militari, stivaletti che coprivano interamente il piede H Comunque, a parte queste considerazioni archeologiche di importanza relativa, certo e` che SB lascia una grande liberta` per quanto riguarda la qualita`, il colore, la foggia dei vestiti (v.7). Da questo e da altri indizi, pare che nessuno dei capi di vestiario citati Din questo capitolo appartenga esclusivamente ai monaci: l'abito dei primi benedettini non differiva essenzialmente da quello dei contadini, dei poveri e degli schiavi, cioe` delle classi inferiori della societa`. E` sintomatico che SB non parla mai dell'abito monastico, se non nel momento della professione (RB.58,26), il che e` tanto piu` strano in quanto Cassiano, il suo autore preferito, e la RM trattano di esso lungamente ed esaltano il valore religioso e il simbolismo dell'abito monastico come segno distintivo (cf. Inst.1: tutta la descrizione dell'abito e il suo simbolismo; RM.81; 90,82-85; 95,21; ecc...) M Per SB il distintivo del monaco e` la tonsura (RB.1,7; vedi commento). Se nella professione il monaco viene spogliato del suo abito De ne riceve un altro completo (e notiamo che li` non si dice "abito monastico" o "abito santo" o simili, ma semplicemente "vestiti" - anzi "rebus" <le robe> - del monastero, RB.58,26), cio` vuol significare direttamente che egli ha perduto il diritto di proprieta`. Insomma, SB non da` importanza a queste cose. Fare una storia dell'evoluzione dell'abito monastico lungo i secoli e` pressoche impossibile. Certamente nel sec.VI non era usato il colore nero, che era ritenuto un lusso (S.Cesario lo proibisce spressamente). Oggi quasi tutti i benedettini usano il nero; i Camaldolesi, gli Olivetani e i monaci di Montevergine usano il bianco; i cisterciensi e i Trappisti usano tonaca bianca e scapolare nero . L'abito nella Congregazione Silvestrina K Nella Congregazione Silvestrina, all'inizio l'abito era de gattinello, cioe` di un panno di lana di colore misto risutante dalla combinazione del grigio o cenerino con il lionato. Per questo nel Emedioevo i Silvestrini furono chiamati, come i Vallombrosani, monaci ="grisei" <grigi>. Col passare del tempo il lionato prese il w sopravvento sul grigio, fino a diventare tane`, come si puo` vedere da numerose pitture esistenti. Nel 1663, al tempo dell'unione con i Vallombrosani, fu adottato il colore nero. Le Costituzioni del 1690 stabiliscono l'abito di colore tane` o lionato che pieghi allo scuro. In seguito, non sappiamo precisamente quando, si adotto` il colore bleu fino al 1933. Attualmente, a partire da quella data, l'abito e` nero e la cocolla (abito corale) e` di colore turchino tendente al nero. In India e Sri Lanka, viene usato il bianco. In Australia, da qualche anno, usano, opzionale d'estate, anche il colore bianco.

9-14: Disciplina per rilevare e consegnare i vestiti

SB vuole evitare che i monaci accrescano il guardaroba. "Bastano due tuniche e due cocolle". Sappiamo che i monaci dormivano vestiti, per essere pronti a recarsi all'Ufficio notturno (RB.22), e quindi avevano la tunica e forse anche la "cuculla"... Notiamo il vigoroso sufficit <basta> all'inizio del v.10 e tutto il v.11: quel che e` in piu` e` superfluo e si deve eliminare (cosi` anche in Pacomio, Reg.81). Al v.13 si parla di femoralia <femorali>: corrispondono pressappoco alle odierne "mutande". Ordinariamente non erano usati, ma solo in viaggio, soprattutto per cavalcare. Nei monasteri il loro uso fu pero` assai vario: in alcuni luoghi li portavano abitualmente tutti (come a Cluny); in altri chi li voleva, in altri era addirittura proibito. Notiamo anche la delicatezza e la signorilita` di SB nel prescrivere vestiti migliori per chi viaggia (v.14).

15-19: Fornitura del letto e precauzioni contro il vizio della proprieta`

La stessa semplicita` che distingue l'abito del monaco, deve contrassegnare il suo letto: sufficiant <bastano>, (di nuovo, per la terza volta, appare questo verbo!), un pagliericcio, una coperta leggera, un cuscino (v.15). Il letto era allora l'unico mobilio personale del monaco, e pare che servisse da nascondiglio per le piccole cose che i monaci sottraevano all'uso comune. La RB, come tutti i documenti monastici antichi, invita l'abate a ispezionare con frequenza e a punire

severamente i colpevoli di un vizio cosi` odioso, cioe` la proprieta` (vv.16-17). Sono rimasti famosi alcuni fatti di monaci trovati in possesso di denaro dopo la morte e trattati molto rudemente per tale motivo (privati della sepoltura ecclesiastica!): cf.S.Girolamo in Epist.22,23 e il fatto di S.Gregorio Magno quando era abate al Celio. L'ispezione "opus peculiare" del v.16, si ispira a Cassiano (Inst.4,14), dove significa: guadagno procurato con lavori particolari. In RB, invece, ha il senso di "cose ritenute senza il permesso dell'abate".

20-22: L'abate deve provedere ai singoli

Pero`, per estirpare dalle radici il "vizio della proprieta`" (di nuovo appare l'espressione usata in RB.33,1), l'abate deve dare a tutti i fratelli il necessario. Osservazione molto pertinente: altrimenti se lo procurano di nascosto! e` stato sempre cosi`!. In tal modo invece, non hanno alcun pretesto per compiere atti di proprieta`. Le disposizioni precedenti ricordano l'energico c.33; solo che, invece di dirigersi ai monaci, qui la Regola parla all'abate: dia egli tutto il necessario, secondo la frase di Atti 4,35 gia` citata nel c.34: "veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno". E di nuovo la Regola parla a favore dei deboli che necessitano di piu`. A queste necessita` deve badare l'abate nel dare le cose, e "non alla cattiva volonta` degli invidiosi" (v.21); cioe` non deve omettere di soddisfare le necessita` dei monaci piu` deboli per dare retta a quelli che, mossi da invidia, non tollerano eccezioni o agevolazioni. Cosi` il trattato sulla proprieta` (spogliamento di se`) costituito dai cc.33-34 riceve nel c.55 un complemento indispensabile, che potrebbe intitolarsi "la responsabilita` dell'abate nel mantenimento della vita comune" (DeVogue`).

 

CAPITOLO 57

Gli artigiani del monastero

De artificibus monasterii

Trattiamo in questa sezione anche del c.57, a prima vista difficile da classificare. La poverta` individuale del monaco, lo spogliamento di se` acquista qui un aspetto piu` spirituale che materiale: il monaco deve essere distaccato dalla proprieta` privata anche nei suoi pensieri.

1-3: Gli artigiani del monastero

La base di sussistenza del monastero, secondo la RB e` la terra lavorata da operai a pagamento o dai monaci stessi (cf.RB.48). Tra i fratelli potrebbero trovarsi alcuni che o gia` nel mondo o in monastero si sono resi abili in un'arte. SB non specifica nulla; pare gli interessi poco; cio` che a lui interessa e` il bene spirituale, quindi evitare il rischio della mancanza di umilta`: cose che sono al di sopra di ogni considerazione di guadagno per il monastero. Percio` potranno questi monaci esercitare la loro arte, ma solo con il consenso dell'abate (v.1) e senza ritenersi indispensabili, vantandosi di portare un utile al monastero.

Forse SB si ispira a S.Agostino, il quale parla di monaci che hanno portato delle sostanze al monastero e che potrebbero insuperbirsi di cio`. Potrebbe ispirarsi anche a Cassiano (Inst.4,14) che parla del lavoro dei monaci egiziani. Per SB, se gli artigiani non sono capaci di disinteresse e di distacco, deve proibirsi loro di esercitare la loro arte (v.3).

4-9: Vendita dei prodotti del lavoro

Per la vendita dei prodotti del monastero sono due i vizi da evitare: la frode e l'avarizia. La frode potevano commetterla o gli artigiani stessi o altri monaci o altri intermediari. L'avarizia, sotto il pretesto di maggiori introiti per il monastero, sarebbe una cosa grave sia per i monaci singoli che per il buon nome del monastero stesso. Per evitare cio`, si vendera` aliquantulum <un pochino> di meno di quanto vendono i secolari. S.Girolamo (Epist.22,34) parla con ironia dei monaci sarabaiti, i quali, "come se fosse santo il loro lavoro, e non la vita, vendevano a prezzi maggiori"!

9: Ut in omnibus glorificetur Deus ...

... <affinche` in tutto sia glorificato Dio>. Anche nel trattare interessi cosi` secondari e temporali, il fine e l'ispirazione devono essere di carattere soprannaturale. La bella sentenza, presa da S.Pietro (1Petr.4,11), ricordata quasi incidentalmente in un passo secondario della Regola e a proposito di un argomento cosi` poco spirituale, esprime bene lo spirito di fede del S.Patriarca, ed e` divenuta un programma e un motto dei nostri monasteri, dove si trova spesso anche abbreviata in sigla: U. I. O. G. D.




ALIMENTAZIONE DEI MONACI

CAPITOLO 35

I settimanari di cucina

De septimanariis coquinae

Preliminari alla sezione RB.35-41: L'alimentazione dei monaci

Sette capitoli consecutivi, dal 35 al 41, hanno come denominatore comune la trattazione del tema dell'alimentazione dei monaci. I padri del monachesimo antico danno all'alimentazione grande importanza: sia nel senso che tale necessita` corporale serviva loro come palestra per esercitarsi nella mortificazione e nella penitenza; sia nel senso che compresero il ruolo che una giusta alimentazione ha per le attivita` spirituali del monaco. Cassiano, con la sua esperienza dei diversi ambienti monastici, riassume nelle sue Institutiones alcune norme; in un capitolo pone espressamente la questione: come debba essere il pasto del monaco. E risponde che si deve scegliere una alimentazione: a) che mortifichi gli ardori della concupiscenza; b) che possa prepararsi facilmente; c) che sia la piu` economica... (Inst.5,23).Riassumendo il suo insegnamento, possiamo dire che il regime alimentare dei monaci deve avere tre obiettivi: a) dominare direttamente la passione della gola e, indirettamente, quella della lussuria, cosi` collegata con la gola; 2) essere in coerenza con la poverta` che si e` professata; 3) favorire l'orazione e in generale tutta l'attivita` spirituale del monaco.

Schema della trattazione in RB

SB dipende da Cassiano e dalla RM, la quale in questa sezione e` molto particolareggiata e lunga (RM.cc.18-28 e 69-70). La RB contiene comunque abbastanza elementi per capire l'importanza che anche il S.Patriarca dava a una alimentazione adatta per i monaci e, in generale, alla cura del corpo. Lo schema: il c.35 parla dei settimanari di cucina, cui logicamente segue il c.38 sul lettore di mensa; SB ha inserito il c.36 sugli infermi e il c.37 sui vecchi e i fanciulli, cioe` coloro per cui bisogna fare eccezioni al regime alimentare comune. Dell'alimentazione propriamente detta si parla nel c.39: la misura del cibo, cui segue il c.40 sulla misura del bere, e conclude il c.41 sull'orario dei pasti conventuali.

Introduzione al c.35

Il sistema settimanale per il servizio della cucina e della mensa era comune tra i monaci d'oriente e d'occidente. A questo capitolo corrispondono in RM almeno sette capitoli, in cui con ogni minuziosita` e` descritto il modo di entrare a tavola, il cesto dei pani che scende dall'alto con una fune, la distribuzione del pane e delle bevande, quando sedersi, ecc., con tutti i significati simbolici e spirituali: la mensa comune e` vista proprio in spirito di fede, come una grande liturgia. SB dipende chiaramente da RM (e da Cassiano), ma e` molto piu` breve, con dei punti in comune e altri punti diversi.

1-6: Servizio di cucina

SB afferma il principio generale: e` importante che i fratelli si servano a vicenda (v.1) e si servano in spirito di carita` (v.6). Chiaramente non si poneva neppure l'ipotesi che il lavoro di cucina potesse essere affidato ad estranei. Per lungo tempo la tradizione benedettina e` stata costante su questa linea, anche se le contingenze dei luoghi e la scarsezza numerica hanno ammesso l'aiuto di domestici laici. In tempi piu` recenti, si e` affidata tale opera ai laici, uomini e anche donne: inoltre tale servizio, che richiede speciale competenza - anche nei monasteri dove si continua a svolgere dai monaci - in genere non e` piu` settimanale, pur rimanendo settimanale il servizio a tavola o il lavaggio dei piatti.

Notiamo subito, come in tanti altri passi della Regola, la sollecitudine verso i piu` deboli. Ci sono coloro che possono essere dispensati: i malati (v.1) - oltre al cellerario (v.5) - e ai piu` deboli si diano comunque aiuti perche` non siano oppressi

dalla tristezza o siano tentati di mormorazione. Evitare la tristezza, l'eccessiva fatica, la mormorazione: SB mette sempre un motivo valido e ragionevole e soprannaturale a fondamento delle varie mitigazioni che introduce nell'osservanza monastica. (Si noti che il v.2 si puo` interpretare o riferito al principio generale del servizio di tutti i fratelli o anche alla eccezione che si ammette).

7-11: Norme per chi termina il turno

Chi termina il turno settimanale, il sabato fa le pulizie generali e la lavanda dei piedi (insieme a chi entra). Il singolare che c'e` nel testo fa supporre come condizione ordinaria quella di un solo settimanario titolare; gli altri sono considerati aiutanti. Nella RM il turno settimanale e` organizzato per decanie: tutta la decania e` coinvolta, anche se due soli vi si dedicano abitualmente e in caso di necessita` il decano mandava qualche aiuto sempre della stessa decania.

12-14: Provvedimenti di indulgenza a favore dei settimanari

Questi versetti sul supplemento ai settimanari sono qui fuori luogo e andrebbero meglio o prima dei vv.7-11 o dopo i vv.15-18; sono stati aggiunti dopo (come fa spia anche il plurale, mentre nei vv.7-11 si parla del settimanario al singolare). La motivazione del supplemento si ispira a S.Agostino (Reg.13,160-162). Il lavoro di cucina e` gia` pesante di per se`; inoltre i settimanari devono lavorare in cucina e servire a tavola mentre i fratelli mangiano; il pasto era al piu` presto a mezzogiorno, spesso assai piu` tardi, o anche verso sera (la colazione mattutina non si conosceva): cio` spiega perche` SB conceda uno spuntino: un po` piu` di pane e un bicchiere di vino, oltre la misura fissata per tutti. Cosi` anche in Cesario (Reg.Virg.14). RM non accorda il supplemento, perche` i settimanari mangiano assieme ai fratelli.

14: "missas", diverse interpretazioni ...

Il v.14 e` di interpretazione discussa. Il problema e` la parola "missas", che spesso anche nella RB significa: la fine, le orazioni finali, l'azione di grazie; e qui

sarebbero le preghiere di ringraziamento dopo il pranzo. In tal caso il v.14 si traduce: "nei giorni festivi, invece, aspettino fino alla fine del pranzo" (cosi` DeVogue`, Colombas e altri). Ma non si vede allora che senso abbia la concessione; altri traducono: "fino alla Messa", "fino alla comunione della Messa", interpretando "missas" come le orazioni che precedono la comunione (cosi` Penco, Steidle, Lentini, e altri). Da questo passo, in tal caso, ma anche da altri indizi, si rileverebbe che al tempo di SB non c'era nel monastero la Messa conventuale quotidiana (ne` tanto meno si parlava allora di Messe private); nei giorni festivi ce n'era una sola, solenne, per tutti, in cui ci si accostava alla Comunione (la RM descrive in maniera particolareggiata come fare per la comunione dei servitori).

15-18: Rito liturgico per i settimanari

Il servizio di cucina e di mensa, pur cosi` modesto, deve essere visto con spirito di fede, e quindi riceve l'impronta di sacro e viene benedetto da Dio. Al rito SB (come Cassiano, RM e tutta la tradizione monastica) da` un carattere ufficiale e liturgico. Nella RB tale rito si svolge dopo le lodi domenicali. RM lo divide: sabato sera, l'uscita; domenica, dopo Prima, l'entrata. Anche i versetti scritturistici usati sono diversi.

Concludendo: il trattato sui servitori di RB e` molto povero di dettagli rispetto a RM. Per SB "non si tratta di regolare l'uso del tempo dei settimanari, come fa il Maestro, ma di stabilire il principio di mutuo servizio nella carita`. Questa visione principalmente spirituale obbliga a tener conto delle intime disposizioni dei servitori, dunque delle condizioni concrete del loro lavoro. Da cio` la concessione di dispense, l'aiuto e i supplementi, al fine di evitare la tristezza e la mormorazione. Il trattato benedettino prende cosi` un volto piu` spirituale e piu` umano del minuzioso e pittoresco regolamento del Maestro" (DeVogue`).


CAPITOLO 36

I fratelli infermi

De infirmis fratribus

Preliminari

I capitoli RB.36 e 37 sarebbero dovuti venire dopo il 41, perche` prevedono deroghe alla legge dei digiuni; e inoltre separano due capitoli (il 35 e il 38) che dovrebbero essere uniti. RB ha anticipato perche` in essi ci sono temi affini a quelli del c.35: il servizio, la ricompensa, la fuga della tristezza; c'e` la solita preoccupazione per la cura soggettiva e per il servizio vicendevole tra i fratelli.

1-6: Principi generali per la cura degli infermi

Il capitolo si apre con due solenni principi fondati su due frasi del Signore: bisogna aver cura dei malati prima di tutto e soprattutto - espressione assoluta ed energica - e servire a loro come a Cristo in persona (v.1); seguono le due citazioni di Mt.25,36 e 40. I monaci opereranno di conseguenza, ma SB aggiunge una frase, grave, ma pacata, anche per gli infermi a non essere petulanti e troppo pretenziosi o addirittura capricciosi. Comunque, anche ammesso che i fratelli malati diventino cosi` strani - come puo` succedere a causa del male - gli altri devono sopportarli in ogni caso. La prima parte del capitolo si chiude con una ammonizione categorica all'abate affinche` si prenda "somma cura" degli infermi (v.6).

7-10: Disposizioni pratiche per i malati

SB scende ad alcuni particolari concreti e stabilisce: primo, che nel monastero ci sia una infermeria affidata a un infermiere "timorato di Dio, diligente e premuroso" (v.7); secondo, l'uso dei bagni ai malati ogni volta che e` necessario (v.8); terzo, che si permetta di mangiare carne, anche se soltanto a quelli molto deboli (v.9). Tanto l'uso dei bagni che il mangiare carne sono una concessione: costituivano infatti un'eccezione allo stato di monaci. Una parola su tutte e due le cose.

L'uso dei bagni

Fin dalle origini del monachesimo, notiamo una esplicita avversione per l'uso dei bagni. Non dobbiamo dimenticare che per gli antichi, i bagni, piu` che una pratica igienica, erano un passatempo, un lusso e un piacere (sappiamo che cosa erano le terme dei romani). Per mortificarsi e per non cadere nella sensualita`, i monaci esclusero per principio i bagni dal loro genere di vita, riservandoli solo ai malati. La tradizione cenobitica e` unanime (Vita di Antonio, Pacomio, Agostino, Reg.Masch., Cesario, Fulgenzio, Leandro, Isidoro); un'unica eccezione, la Regola femminile di Agostino (Epist.211,13) che concede alle monache il bagno una volta al mese. SB si trova su questa linea e autorizza il bagno a tutti, anche se "piu` di rado, soprattutto ai giovani" (v.8). Non possiamo stabilire la frequenza di questi bagni per i sani, ma certo, considerando il tempo e l'ambiente, SB e` eccezionalmente liberale, quasi rivoluzionario.

L'uso delle carni

Per lo stesso motivo che dai bagni, i monaci si astenevano dalle carni (perche` i bagni e le carni riscaldano il corpo e solleticano la sensualita`: "il bagno scalda la carne, il digiuno la raffredda", scrive S.Girolamo). Anche su questo punto SB si mostra molto liberale verso gli infermi. Il brano, considerando soprattutto il parallelo con RB.39,11, si deve interpretare nel senso della proibizione assoluta solo per le "carni dei quadrupedi", cioe` non riguarda il pollame e i pesci. La distinzione tra carne di quadrupedi e carne di uccelli era gia` antica nella dietetica monastica: la seconda si considerava piu` leggera, e quindi meno pericolosa per la virtu`; si equiparava praticamente ai pesci, ricordando la Scrittura secondo cui pesci e uccelli furono creati insieme (Gen.1,20-21). Il capitolo termina inculcando di nuovo all'abate la "massima cura" che si deve avere per gli infermi, vigilando anche perche` gli incaricati adempiano bene il loro dovere, secondo il principio generale che sul maestro ricade la responsabilita` ultima di tutto (v.10).

Conclusione

Il c.36 sui malati e` uno dei meglio riusciti della RB, sotto l'aspetto letterario e contenutistico. Molti esempi ci sono nella legislazione monastica della sollecitudine per i malati, pero` nessuna Regola riunisce in cosi` mirabile sintesi il trattato sugli infermi come RB, che elimina anche ogni nota negativa rispetto ai fratelli malati (RM prevede soprattutto il caso delle... finzioni e non parla ne` di infermeria, ne` di infermieri). "Questo trattato mostra in modo chiaro che RB nella sua brevita` possiede delle istituzioni piu` evolute di quelle di RM. E siamo portati a pensare che questo sviluppo istituzionale e spirituale sia il riflesso di una conoscenza piu` ampia della letteratura cenobitica anteriore e contemporanea" (DeVogue`).

 

CAPITOLO 37

I vecchi e i fanciulli

De senibus vel infantibus

1-3: Condiscendenza per i vecchi e i fanciulli

E` evidente la connessione col capitolo precedente: i vecchi e i fanciulli, per la debolezza insita nella loro stessa eta`, sono da avvicinarsi molto ai malati. SB ricorda un principio generale, cioe` la naturale tendenza dell'uomo a compatire i vecchi e i fanciulli. Pero` vuole che intervenga anche l'autorita` della Regola perche` - l'esperienza glielo avra` insegnato - in una comunita` monastica ci puo` essere sempre chi vede di malanimo le eccezioni e certi temperamenti rigidi vogliono che la Regola si applichi fedelmente e scrupolosamente in tutto e a tutti. SB con la sua grande discrezione e la considerazione della soggettivita`, vuole che si tenga conto sempre dei piu` deboli e si usi un'affettuosa condiscendenza (v.3).

SB fa` poi una sola applicazione pratica riguardo al vitto: anticipino le ore stabilite per il pasto comune. Per i vecchi e i fanciulli sarebbe stato troppo grave sostenere il digiuno fino al tardo pomeriggio o rifocillarsi con un forte pasto verso sera o anche solo aspettare fino a mezzogiorno (ricordiamo che non esisteva la colazione). SB si ispira a S.Girolamo (Epist.22,35) ed e` molto largo nell'eccezione concessa, senza scendere in particolari (RM.28.19-26 fissa l'eta` e limita le eccezioni); rimane volutamente poco esplicito, confidando nella discrezione di coloro che guidano la comunita` monastica, in cui ci sono sempre anime "forti" e anime "deboli", come infermi, vecchi e fanciulli.

 

CAPITOLO 38

Il lettore di settimana

De hebdomadario lectore

1-9: Ufficio del lettore e silenzio a tavola

Un altro ufficio connesso con la refezione dei fratelli e` quello del lettore di mensa. Anche questo ufficio e` settimanale, come quello dei servitori. La lettura a tavola era sconosciuta in Egitto (Pacomio). Secondo Cassiano, l'uso di leggere a tavola lo avrebbero introdotto i monaci di Cappadocia per evitare le discussioni frivole e le dispute (Inst.4,17). S.Basilio (Reg.Brev.180) si appella al motivo spirituale, seguito poi da tutta la tradizione monastica: cioe` di rifocillare anche lo spirito insieme al corpo (vedi la scritta nel nostro refettorio del monastero di S.Silvestro: "Dum corpus reficitur, mens ieiuna non maneat" <mentre si rifocilla il corpo, lo spirito non rimanga digiuno>; cosi` S.Agostino, S.Cesario, ecc.

SB inizia il capitolo con una norma generale presa da RM.24, la quale aggiunge il famoso principio della doppia mensa (come detto sopra), citando Mt.4,4 (Lc.4,4): "Non di solo pane...". Il lettore di mensa prende servizio la domenica con un rito liturgico sobrio che si svolge in chiesa dopo la Messa (in RM si svolge in refettoio), in cui si chiede di vincere lo spirito di superbia e di vanagloria. Perche`, essere scelto per la lettura pubblica era - soprattutto a quei tempi - di pochi, in quanto non potevano farlo tutti, ma solo chi era in grado di farlo in maniera degna: SB lo dira` espressamente alla fine del capitolo (v.12) e lo dice anche altrove (RB.47,3).

RM.24 dice espressamente che si doveva leggere sempre la Regola molto lentamente, in modo che i fratelli su ogni brano potevano domandare spiegazioni all'abate; l'abate inoltre poteva interrogare sulla lettura. Quando invece vi erano ospiti che non avrebbero potuto capire i "secreta Dei" e quindi deridere forse il monastero, si leggeva altro. SB sopprime tutte queste prescrizioni, non dice cosa si deve leggere (della lettura della Regola parlera` in RB.66,8) e introduce la prescrizione del silenzio assoluto, rifacendosi a Pacomio e a Cassiano; solo l'abate puo` - se vuole - intervenire con qualche esortazione (sulla lettura anzitutto, s'intende, o su altro), ma molto brevemente (v.9). Bisogna dire che tutta la tradizione monastica e` concorde nel prescrivere il silenzio al refettorio comune; e la tradizione benedettina e` stata fedele alla disposizione del S.Patriarca. Solo negli ultimi tempi in alcuni monasteri si usa dispensare dal silenzio (da noi Silvestrini piu` frequentemente); pero` anche in questi casi non manca la lettura all'inizio e alla fine.

10-11: Benevola concessione al lettore

Abbiamo qui ancora un tratto di umanita` di SB, che concede al lettore - come gia` ai servitori - un piccolo favore: un bicchiere di "mixtum" <acqua e vino> "sia per la santa comunione sia per poter sopportare il digiuno" (v.10). RM.24,14 dice espressamente "propter sputum sacramenti" <per lo sputo del sacramento>, per paura, cioe`, che durante la lettura a voce alta, fra le stille di saliva che potevano emettere, uscissero anche particelle della sacra specie rimaste eventualmente in bocca. SB corregge l'espressione brutale di RM e porta una motivazione piu` completa aggiungendo il motivo del digiuno e della fatica.

12: Criterio per la scelta del lettore

Il v.12 e` una postilla sul criterio per la scelta del lettore di mensa (e, per estensione, di tutti i lettori e i cantori in chiesa e in refettorio), parallelo a RM.47,3: legga e canti come solista solo chi puo` farlo con utilita` ed edificazione degli uditori.

 

CAPITOLO 39

La misura del cibo

De mensura cibi

1-5: Razione quotidiana del cibo

SB prova disagio e ritegno nel determinare la misura del vitto (lo dira` espressamente all'inizio del capitolo seguente, RB.40,1-2). Percio` inizia con un modesto sufficere credimus <pensiamo che bastino>. Identico inizio in RM.26,1, con la differenza che RB e` un po` piu` restrittiva mettendo come occasionale il terzo piatto che in RM e` sempre previsto. Caso strano: poi: RB e` piu` lunga di RM. Al v.1 la frase omnibus mensis e`, per l'interpretazione, tra le piu` tormentate della Regola. Puo` significare (piu` letteralmente prendendo "mensis" come ablativo regolare da "mensa, mensae"): a tutte le mense, cioe` a quella della comunita`, a quella dei servitori e del lettore che mangiavano dopo (RB.38,11), e a quella dell'abate e degli ospiti (RB.56,1); come anche, e piu` probabilmente, a tutte le tavole, dove erano seduti i fratelli per gruppi (soprattutto considerando il parallelo con la RM secondo la quale i monaci stavano a tavola in tavoli diversi secondo le decanie). Cosi` DeVogue`, Colombas e altri. Altri invece (come Penco, Lentini, ecc...) intendono "mensis" come ablativo volgare al posto del regolare "mensibus" (da "mensis, mensis") e interpretano: in tutti i mesi, cioe` sia d'estate che d'inverno. (Per l'orario dei pasti che poteva essere a sesta, a nona e anche dopo, cf. RB.41).

SB vuole due pietanze cotte, per assicurare il necessario ai fratelli malati (v.2), ma chi aveva stomaco forte poteva senza dubbio fare onore ad ambedue. L'eventuale terzo piatto era di legumi teneri che in Italia del Sud il popolo soleva mangiare anche crudi: fave, ceci, lupini, ed anche carote, cipolle, ravanelli, ecc. Per il pane si parla di una "libbra", peso tradizionale presso tutti i monaci (cf.Cassiano, Coll.2,19; RM.26,2). La libbra romana equivaleva a un terzo di chilogrammo, ma variava secondo i tempi e i luoghi. Pare che la misura di SB sia molto piu` grande: il pane costituiva il cibo principale per i monaci di allora, dediti quasi tutti a lavori manuali. A Montecassino si conserva ancora un peso di bronzo, di cui un'antica e seria tradizione attestata gia` da Paolo Diacono (sec.VIII) dice adoperato fin dai tempi di SB, portato a Roma nella prima distruzione dell'abbazia (577) e restituito da Papa Zaccaria. Tale peso corrisponde a kg.1,055: esso valeva per il pane crudo; per il cotto, l'equivalente si puo` calcolare intorno agli 800 grammi. SB ricorda al cellerario di conservare la terza parte della razione di pane a testa per i giorni in cui c'era anche la cena (ma non si dice in che cosa questa consistesse).

6-10: Eventuale aggiunta e quantita` per i fanciulli

Questo era il regime normale. Ma ci potevano essere dei supplementi per qualche motivo: SB cita solo il caso di un lavoro eccessivo, RM.26,11-13 anche un motivo gioioso (domenica, giorni di festa, ospiti particolari; e parla anche del "dolce" (!) ricordando un episodio di "Vitae Patrum"); purche`, osserva SB, non si esageri fino all'eccesso o all'indigestione (vv.7-9).

I fanciulli seguono un regime particolare (v.10): si sa che essi hanno bisogno piu` di cibo frequente, che di cibo abbondante. SB ha gia` provveduto in loro favore (RB.37).

11: Astinenza dalle carni

Come gia` detto in RB.36,9, l'astinenza dalle carni era normale per i monaci; si intende "carni di quadrupedi" (v.11). Il divieto delle carni si e` andato nel corso dei secoli piu` o meno attenuando, a causa della crescente debolezza generale dell'organismo, e oggi di fatto e` quasi annullato nella legge ecclesiastica. Le Costituzioni delle singole Congregazioni fissano le norme per l'astinenza nei monasteri.

 

CAPITOLO 40

La misura del bere

De mensura potus

1-7: Il vino per i monaci

Il capitolo e` legato al precedente. Inizia con la citazione di 1Cor.7,7 a dimostrare la titubanza di SB a legiferare su questi argomenti. S.Paolo, nel brano, si riferisce direttamente alla sessualita`. SB l'applica al vitto: come la verginita`, cosi` anche l'astinenza dal vino e` un dono che proviene dall'alto; percio` non si puo` imporre come obbligo, ma solo proporre come sacrificio meritorio davanti a Dio (v.4). Per la comunita`, considerando le varie esigenze, SB fissa (ma si noti l'espressione di ritegno come al c.39 "sufficere credimus" <pensiamo che basti>) una emina di vino al giorno, misura incerta c he i commentatori calcolano intorno ai 3/4 di litro. Secondo l'uso, vi si mesceva l'acqua, generalmente calda.

Nei vv.5-7 SB prevede un supplemento in caso di lavoro e di calore eccessivi, ma sempre con l'invito a fuggire l'eccesso e l'ubriachezza. Qualcosa di simile in RM.27,43-46, dove tuttavia il supplemento e` dato per motivi gioiosi e l'ebbrezza e` posta in relazione con l'impossibilita` di stare attenti alla preghiera e con la libidine. (Notiamo qui che RM e` molto particolareggiata nell'uso del vino: stabilisce quanti bicchieri si danno a ciascuno e il modo di darli, quanti pezzi di pane vi si possono intingere prima dell'arrivo delle vivande, il numero delle bevute dopo nona per il lavoro, e tanti altre particolarita`). Al v.6 SB fa un'osservazione riguardo all'uso del vino per i monaci, manifestando i suoi scrupoli e facendo il confronto tra monachesimo antico e monachesimo del suo tempo (cosi` anche in RB.18,24-25 a proposito della perfezione).

Il vino nella tradizione monastica

Sull'uso del vino nella tradizione monastica, si va dalla totale proibizione (Vita di Antonio, Pacomio, Basilio - solo per i malati -, Giovanni Crisostomo...), alla progressiva (Agostino, Ilario di Arles...) e pacifica ammissione (Cesario, Aurichiano, Isidoro, Fruttuoso...). Nelle "Vitae Patrum" (V, IV,31) si legge la sentenza dell'abate Pastore che "vinum monachorum omnino non est" <il vino non conviene affatto ai monaci>, e SB la ricorda con un certo disagio; tuttavia accetta le cose come sono e vi si adatta, pur ricordando e lodando l'austerita` antica. E aggiunge la norma di Basilio (Reg.9) di non bere almeno fino alla sazieta`, citando la frase del Siracide 19,2 che, presa integralmente, suona cosi`: "vino e donne fanno traviare anche i saggi". A SB, in questo punto, il secondo termine (le donne) non e` pertinente!

8-9: Casi di scarsezza o di mancanza di vino

SB aggiunge un piccolo paragrafo per il caso di scarsezza di vino a causa della situazione del luogo o anche della poverta` del monastero. Qui interviene la fede: benedicano Dio che presta loro l'occasione di un po` di penitenza (v.8); doversi affliggere per cosi` poco! Tanto meno mormorare! (v.9).


CAPITOLO 41

In quali ore i fratelli debbano prendere cibo

Quibus horis oportet reficere fratres

Preliminari

La sezione dell'alimentazione si chiude con un capitolo sull'orario dei pasti e sui tempi del digiuno. E` parallelo a RM.28, ma con notevoli varianti: SB mitiga molto la legge dei digiuni. Per l'orario dei pasti, RB segue un ordine cronologico, distinguendo quattro periodi:

1: Primo periodo: da Pasqua a Pentecoste

Il tempo pasquale, per il carattere di particolare letizia, esclude il digiuno; percio` SB prescrive il pasto principale a sesta e la cena alla sera. Per i romani il pasto principale era la sera; ma i monaci subito dopo la refezione serale, avevano la lettura e compieta, e quindi il riposo; percio` l'inversione dei due pasti era anche una buona norma igienica. Riguardo ai monaci primitivi (Egitto), S.Girolamo dice che "da Pasqua a Pentecoste le cene si cambino in pranzi", cioe` l'ora veniva anticipata da nona a sesta (Epist.22); cosi` anche Cassiano (Coll.21,23). Anche RM prevede il pranzo a sesta nel tempo pasquale e concede la cena, ma solo giovedi` e domenica (RM.28,37-40). SB e` piu` largo: pranzo e cena per tutto il tempo pasquale.

2-5: Secondo Periodo: da Pentecoste al 13 (o 14) settembre (estate)

Il periodo estivo ha il pranzo a sesta ed ha, in via ordinaria, il digiuno che anche i semplici fedeli osservavano ogni settimana, cioe` il mercoledi` e il venerdi`, digiuno che consisteva nel fare il pasto a nona e non avere la cena. Mentre i giudei digiunavano il lunedi` e il giovedi`, i cristiani, fin dai primi tempi, digiunavano il mercoledi` e il venerdi`, e questa usanza fu tenuta in grande onore presso i monaci;

per la chiesa romana e alcune altre anche il sabato (cosi` anche RM). Ma anche questo digiuno mitigato ha per SB delle deroghe: mercoledi` e venerdi` si digiuni (nel senso detto sopra), purche` i lavori campestri e la calura estiva non richiedano una dispensa; l'abate consideri la cosa. Si noti il v.5 che intende dire: se e` vero che i monaci non devono mai mormorare (RB.34,6; 40,8-9), e` anche bene che l'abate disponga le cose in modo da evitare ogni motivo fondato di mormorazione.

6: Terso Periodo: dal 13 (o 14) settembre a quaresima (inverno)

In inverno RB prevede il digiuno continuo (cioe` pranzo a nona e senza la cena), esclusa la domenica (in RM anche il giovedi`). Questo periodo si suole chiamare "quaresima monastica". Nel testo, le "idi di settembre" possono intendersi il "13 settembre", come e` piu` ovvio, ma anche considerare le "idi chiuse", cioe` terminate, e quindi supporre l'inizio di tale periodo di digiuno il "14 settembre", pratica comunissima nei monasteri, anche perche` legata alla festa della S.Croce.

7-9: Quarto periodo: Quaresima

In quaresima l'unico pasto si prendeva dopo vespro. Era l'ora comune per tutti i cristiani: si tratta della "quaresima ecclesiastica", in cui si celebrava il sacrificio eucaristico nel tardo pomeriggio, e quindi si faceva a vespro l'unica refezione del giorno. SB aggiunge che la cena si faccia con la luce del sole e che il vespro, percio`, venga anticipato (v.8); anzi mette come norma generale che tutto si faccia con la luce del giorno <luce fiant omnia>. E` una disposizione che eccita la nostra curiosita`. Perche`? Anche se non si escludono ragioni di ordine economico (risparmiare olio) o anche il motivo di abbreviare un po` il tempo del digiuno che doveva essere pesante per gente che faceva lavori manuali, pare che il motivo principale sia di tipo morale: la convinzione che la notte non e` un tempo adatto per mangiare, come per parlare (RB.42,8-11); SB ha in mente probabilmente molte frasi di S.Paolo (cf. Rom.13,12-13; Ef.5,8-14; 1Tess.5,5-8) sulla notte come simbolo di tutti i peccati: in particolare di quelli della bocca.

Riassumendo: i monaci avevano:

- 1) giorni senza digiuno con pranzo e cena: in tutte le domeniche e le feste; nel periodo pasquale; in tutta l'estate (cioe` da Pentecoste al 13 o 14 settembre, eccetto il mercoledi` e il venerdi`.

- 2) giorni di digiuno moderato con un'unica refezione a nona: nei mercoledi` e venerdi` da Pentecoste al 13 o 14 settembre (purche` non ci fosse lavoro eccezionale nei campi o molta calura); in tutti i giorni feriali dal 13 o 14 settembre fino a quaresima.

- 3) giorni di digiuno stretto con unica refezione a vespro, in tutte le ferie di quaresima.

Conclusione sulla sezione dell'alimentazione dei monaci

Nell'insieme dobbiamo dire che il sistema dei digiuni in RB e` molto attenuato rispetto a RM, mentre e` piu` severo per cibi e bevande. Nei tre capitoli sui pasti, troviamo tre volte l'accenno a dispense: RB.39,6-9 (aggiunta di cibo); 40,5-7 (aggiunta di vino); 41,4-5 (dispensa dal digiuno in estate). Il motivo della dispensa e` il lavoro, perche` RB prevede il lavoro di agricoltura (mentre RM limita il lavoro dei monaci all'artigianato o al giardinaggio). RB.41,4-5 raccomanda all'abate molta discrezione (cf. anche RB.64,17-19), perche` i monaci evitino la mormorazione e perche` i deboli non si scoraggino.

Certo, cio` che SB concede al cibo e alla bevanda avrebbe scandalizzato i Padri del deserto. L'ideale del S.Patriarca, pero`, non e` una santita` riservata a pochi, ma accessibile anche agli infermi di corpo e ai deboli di animo. Nel suo programma di perfezione ascetica non entrano di proposito rigorose macerazioni del corpo ed eroici digiuni. I suoi monaci devono poter attendere alla preghiera corale, alla lettura e al lavoro senza eccessivo peso. Certo, il prolungamento del digiuno fino a nona per parecchi mesi dell'anno e la qualita` stessa dei cibi differenziavano abbastanza i monaci dai laici; ma per la quantita` del vitto come del sonno, SB in definitiva non richiede molto di piu` di quanto si esigeva allora dai buoni cristiani.

E noi monaci di oggi?

Il regime di SB potra` forse apparire severo oggi; ma si pensi che l'astensione perpetua dalle carni, come l'unico pasto a nona (e i quaresima a vespro) non erano allora ritenuti cosi` duri come adesso. La tendenza di SB a concedere attenuazioni ed eccezioni indica il sapiente adattamento alle condizioni fisiche e morali dell'occidente. La discrezione consigliata gia` da Basilio (Reg.19) e dall'abate Mose` in Cassiano (Coll.2,16) fa` in SB un ulteriore passo in avanti. Nello stesso spirito. noi monaci di oggi dobbiamo anche per il vitto tener conto del regime alimentare medio del luogo in cui si vive, delle mutate condizioni di tempra fisica, delle necessita` dei fratelli piu` deboli, ecc., in modo da non avere una visione angelicata o manicheista della vita monastica. Ma forse non e` nemmeno inopportuno richiamarci a una certa austerita`, evitando di indulgere a una continua e ordinaria sovrabbondanza, o peggio ad uno spreco di evidente matrice consumistica moderna, per serbare sempre fede alla temperanza e alla frugalita` dello stato monastico, pensando anche a quanti nel mondo soffrono oggi la fame. La riflessione su questi capitoli della Regola puo` essere una sfida per il nostro quotidiano.

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N.B.: il c.42 e` stato trattato dopo il c.22; i cc.43-46 sono stati trattati dopo i cc.23-30 nel codice penitenziale; il c.46 e` stato trattado dopo il c.20, nella sezione dell'Opus Dei.




LA GIORNATA IN MONASTERO

CAPITOLO 48

Il lavoro manuale quotidiano

De opera manuum cotidiana

Preliminari

L'Opus Dei e` l'occupazione principale del monaco, pero` non e` l'unica. Il rimanente tempo va distribuito tra lavoro manuale e lectio divina. Quindi il titolo non abbraccia tutto il contenuto del capitolo. In realta` in queste pagine abbiamo tutto l'orario della giornata, con la saggia distribuzione del tempo tra OPUS DEI, LECTIO DIVINA, LAVORO MANUALE, i tre grandi cardini della vita monastica.

RB.48 corrisponde a RM.50. In quest'ultima l'orario e` visto soprattutto alla luce dell'Ufficio divino: si tratta di occupare il tempo tra un ufficio e l'altro; nella RB ha uno scopo eminentemente pratico: interessandogli l'ordinamento delle occupazioni dei monaci tra lavoro e lectio, SB non teme neanche di spostare alcune ore dell'Ufficio divino (terza, sesta e nona), cosa che altrove era soltanto eccezionale. RB considera piuttosto il ritmo della vita umana con le sue alternanze di sforzo e di riposo, di lavoro spirituale e di lavoro materiale.

Schema

La struttura del capitolo e` logica:

- un principio generale (v.1);

- orario da Pasqua a ottobre (vv.2-6) e norme in caso di lavori eccezionali (vv.7-9);

- orario da ottobre a quaresima (vv.10-13);

- orario di quaresima )vv.14-16);

- la lectio quaresimale, che riveste particolare importanza, fa aggiungere a

SB delle norme per la scrupolosa osservanza del tempo ad essa dedicato

(vv.17-21);

- chiudono il capitolo alcune direttive sul lavoro e la lettura in casi speciali:

uno temporale (la domenica, vv.22-23), l'altro personale (infermi vv.24-25).

1: Principio generale: necessita` del lavoro;

Apre il capitolo un assioma fondamentale: la necessita` e l'obbligo del lavoro. La sentenza "l'ozio e` nemico dell'anima" si trova nella Regola di S.Basilio stampata nella versione latina di Rufino (Reg.192) e viene citata come un detto di Salomone, ma non si trova nella Scrittura e non si legge nell'opera originale in greco di S.Basilio (Reg.37). La Bibbia ha frasi simili: "l'ozio insegna molte cattiverie" (Sir.32,21; cf. Prov.26,13-14; Sir.22,1-2). Si noti che nel testo della RB, per "ozio" c'e` la parola latina otiositas e non otium, perche` l'"otium" latino non corrisponde al nostro "ozio", ma significa "essere libero per dedicarsi ad attivita` di carattere spirituale" (quali lo studio, la contemplazione, ecc.; da qui l'espressione "otia monastica" <ozi monastici> come tempo per la lectio divina, la riflessione, ecc.). Attenzione quindi a non equivocare.

"Percio` i fratelli in determinate ore...": la frase richiama un passo di Agostino (De opere monachorum, 37). SB vuole distribuire bene il tempo: tutte le ore non impiegate nell'Ufficio divino devono avere un ben determinato uso: o lavoro manuale o lectio divina. Senza parlare qui di queste due componenti dell'orario monastico, rimandiamo alle riflessioni in: Appendice I: "Excursus sulla lectio divina" e Appendice II: "Excursus sul lavoro monastico". Ambedue questi excursus si trovano alla fine di questi appunti, con numerazione propria.

2-6: Orario estivo : da Pasqua a Ottobre.

Scendendo al concreto, SB stabilisce l'orario per i vari tempi dell'anno. Nei mesi di primavera estate, dopo Pasqua (verso le 5) i monaci andavano al lavoro. Non si fa menzione dell'Ufficio di Terza, che probabilmente veniva celebrato sul luogo stesso del lavoro (cf.RB.50), oppure si celebrava al termine del lavoro verso le 10. (Sara` bene ricordare, a proposito di ore e di orario, che si tratta di computo romano, con l'ora variabile secondo le stagioni in funzione della luce solare (cf. Introduzione generale alla sezione sull'Opus Dei, posta prima dei cc.8-11).

Dall'ora quarta (verso le 10) fino a sesta (verso mezzogiorno) i monaci si dedicavano alla lectio. Si noti la discrezione di SB che d'estate fa lavorare i monaci nelle prime ore del giorno quando non e` troppo caldo. Dopo sesta, i monaci mangiavano e poi avevano la siesta, per compensare qualcosa alle meno ore di sonno durante le brevi notti dell'estate (cf. commento al c.8). SB non tiene conto qui del mercoledi` e venerdi`, in cui non si mangiava fino a nona (RB.41,2-4) per ragione del digiuno; sembra pero` che la siesta nel periodo estivo ci fosse tutti i giorni, digiuno o non digiuno, come appare dal parallelo RM.50,56-60. Quelli a cui non piaceva dormire o che amavano astenersene per ascetismo, erano autorizzati a leggere presso il proprio letto, ma non a voce alta: la raccomandazione non e` superflua, perche` gli antichi erano soliti leggere, anche privatamente, pronunziando le parole. Da questo testo deduciamo che tutti i monaci, dormissero o leggessero, dovevano rimanere nel dormitorio comune (come appare anche da RM.44,12-19). La siesta durava fino a nona, ma detta ora canonica si anticipava un po` e poi i monaci tornavano al lavoro fino a vespro.

7-9: Norme in caso di lavori eccezionali

SB aggiounge una parentesi di singolare importanza: contempla il caso di lavoro eccezionale, come la raccolta delle messi e dei frutti. I monaci di quel tempo non si occupavano direttamente dei lavori dei campi, che invece affidavano ad operai prezzolati (i monaci si limitavano al lavoro dell'orto, del giardino, ...). Ora, le circostanze in cui si trovava l'Italia - la guerra tra Goti e Bizantini, la poverta`, la mancanza di mano d'opera o l'impossibilita` di pagarla - potevano costringere i monaci a fare da se stessi la mietitura, la trebbiatura, la vendemmia, ecc. Quindi, malgrado le riserve dell'ambiente monastico italiano, SB si vede costretto a introdurre il lavoro agricolo (come ha dimostrato DeVogue`), e riscopre nel suo tempo la grande legge del monachesimo primitivo di sostenersi con il proprio lavoro: allora sono veri monaci, quando... (v.8). La necessita` del lavoro inculcata prima come una massima negativa - evitare l'ozio, nemico dell'anima (v.1) - si basa ora su un principio positivo: attendere alla propria sussistenza, conforme all'esempio dei "nostri Padri e degli Apostoli (v.8).

Quindi il lavoro manuale dei monaci non consistera` solo nelle diverse occupazioni domestiche (in cucina, nel forno, nel mulino); o nei diversi incarichi in monastero (ospiti, ammalati); o nella semplice coltivazione dell'orto sufficiente per le verdure per la mensa comune; o ancora nell'esercizio di un'arte: tutti lavori, questi, che non davano un'entrata al monastero (anche gli stessi artigiani, cf.RB.57,4-7); si tratta anche di coprire le necessita` del monastero con il prodotto del proprio lavoro, di provvedere al proprio sostentamento con fatica, secondo la grande legge del lavoro. In tal caso, dice SB, i monaci si dedichino a tali lavori pesanti non soltanto senza mormorare, ma col santo orgoglio di sentirsi veri monaci (vv.7-8); pero` non si ecceda, e si pensi ai meno dotati di vigore fisico o morale (v.9).

10-13: Orario invernale: da ottobre a quaresima

In autunno-inverno si ha un altro ordinamento. I monaci dedicavano le prime ore della mattinata alla lettura, dalle lodi fino alla fine dell'ora seconda, che, calcolando il solstizio invernale con la levata del sole molto piu` tardi, dovrebbe corrispondere alle nostre ore 8,30-9. Poi si celebrava terza e quindi c'era un lungo orario di lavoro fino a nona, verso le 14,30-15.

Si parla solo qui di due segnali per l'Ufficio divino, pero` si puo` supporre che erano sempre due i segnali per chiamare alla preghiera i monaci quando stavano lavorando. Come gia` si e` visto, (RB.41,6), in questo periodo i monaci mangiavano solo dopo nona, e non c'era la siesta; percio` dopo il pasto si riprendeva la lettura o lo studio dei salmi: vacent psalmis significa "mandare a memoria il salterio" a forza di recitarlo (SB a questo scopo ha gia` stabilito il tempo tra l'Ufficio notturno e le lodi in inverno, cf.RB.8,3). La lettura durava certamente fino a vespro; dopo vespro, breve intervallo, quindi riunione dei monaci con la lettura delle Collazioni e compieta (cf.RB.42,5).

14-16: Orario durante la quaresima

Come si vede, l'orario invernale era piu` austero che quello estivo. In quaresima questo carattere severo si accentua: la quaresima e` un tempo penitenziale. La refezione era dopo il vespro, che pero` veniva un po` anticipato (cf.RB.41,7-8). L'orario cosi` e` meno spezzettato: lettura tutta di seguito fin verso le 9; poi lavoro continuo fino alle 16 (interrotto solo dagli Uffici di sesta e nona recitati probabilmente sul posto di lavoro); seguiva il vespro, la refezione, quindi la lettura comune e compieta. Ciascuno dei giorni di penitenza preparatori alla Pasqua (eccettuata la domenica) costituiva una dura giornata di lettura e di lavoro sopportata a digiuno fino a vespro.

Bibliotheca: interpretazione controversa

I vv.15-16 hanno un'interpretazione controversa. "All'inizio della quaresima - dice la RB - ciascuno riceva un libro della biblioteca da leggere di seguito e per intero". Il testo e` perfettamente chiaro. La disputa e` intorno alla parola biblioteca. Si e` interpretato fino a qualche anno fa sul senso originario e comune di biblioteca del monastero. Recenti studi (A.Mundo` "Bibliotheca" Bible et lecture d'apres S.Benoit in "Revue Benedictine" 60 (1950) 65-92; A.Mundo` Las Reglas monasticas latinas del siglo VI y la "lectio divina" in SM 9 (1967) 247-249 (articolo pp.230-255); A.Olivar in Revue de Archiv.Bibl y M. (1949) 513-522) fanno pendere per un'altra interpretazione. Si dice che se la parola "bibliotheca" nella letteratura classica indica la biblioteca nel senso nostro, cioe` deposito di libri, nella letteratura cristiana significa l'insieme dei libri sacri, cioe` la Bibbia. Nei testi cristiani dal VI al IX secolo, cioe` durante il periodo patristico e il primo medio evo, questo significato e` piu` frequente che non l'altro. In tutta la Regola non si parla mai di biblioteca del monastero, quasi sicuramente perche` non esisteva (al tempo do SB i monasteri piu` grandi avevano in genere un centinaio di codici. Si pensi pero` a Cassiodoro e alla sua fondazione). Inoltre i cataloghi medioevale di libri non chiamano quasi mai "bibliotheca" l'insieme dei codici che elencano, mentre usano la parola nel senso di Bibbia e citano difatti Bibliotheca integra <=l'intera Bibbia>, Bibliotheca II <=il secondo volume>, ecc. Si dice ancora che interpretare in questa frase della RB la parola "bibliotheca" come deposito di libri non ha senso, in quanto risulta evidente da tutta la tradizione cenobitica (Pacomio, Agostino, Ordo Monasterii, Isidoro...), che i libri venivano distribuiti tutti i giorni, perche` i monaci leggevano sempre; che significato ha una sola distribuzione all'inizio di quaresima? E negli altri periodo dove leggevano? Invece con la nuova interpretazione di Bibliotheca = Bibbia, tutto apparirebbe piu` logico. Prima e dopo SB, la Scrittura soleva dividersi in nove codici (SB ne cita alcuni: "Eptaticum" = i 7 primi libri; "Regum" = 1Re; cf.RB.42,4, oltre al "Psalterium"). Orbene se ne dava uno a ciascun monaco all'inizio di quaresima, perche` la Scrittura costituiva il suo alimento spirituale piu` che negli altri tempi dell'anno; e cosi` in capo a nove anni si era letta la Bibbia completa, un "codice" per quaresima, seguendo un certo ordine, come e` indicato dalle parole per ordine e per intero del v.16. Anche S.Cesario invitava a leggere la Scrittura specialmente durante la quaresima. Tuttavia l'interpretazione della parola rimane discutibile.

17-21: Vigilanza durante la lettura

Dedicarsi per tre ore al giorno (e in quaresima per tre ore di seguito) alla lectio divina implicava un certo sforzo per molti monaci, specialmente in quei tempi in cui la cultura e la lettura non erano alla portata di tutti. SB delega uno o piu` anziani a vigilare perche` i monaci facciano la lectio (forse... bisognerebbe rimettere questa norma nei nostri monasteri!!!). La disposizione - che vale evidentemente per tutto l'anno e non solo per la quaresima - prova che non si leggeva in un luogo comune, ma ciascuno prendeva il suo libro e si ritirava dove voleva. Nei secoli posteriori, poi, si uso` studiare e leggere insieme nel chiostro o in una sala apposita. Al tempo di SB sarebbe stato impossibile, anche perche` si usava in genere pronuncuare a voce alta le parole che si leggevano: ecco perche` era piu` facile che uno approfittasse dell'occasione e si metteva bellamente a chiacchierare.

Il fratello accidioso

SB qualifica un tale fratello come accidioso, cioe` vittima dell'accidia. E` l'unica volta che tale parola appare nella Regola; ed e` strano, dato l'enorme uso della parola e del concetto negli ambienti monastici. La parola "accidia" (<akedia> in greco, <acedia> in latino) letteralmente significa "mancanza di cura", "incuria", e divenne un termine tecnico presso i monaci. Si trova nella famosa classificazione di Evagrio Pontico, trasmessa da Cassiano sotto il titolo "Gli otto vizi principali o capitali", ed ha un posto di molto rilievo: si tratta di una passione o infermita` dello spirito composta di inquietudine, tedio, vuoto interiore, instabilita`, torpore, ecc.; si potrebbe pensare alla moderna "noia" (quando uno non ha voglia di fare nulla, e` arido e vuoto spiritualmente). Evagrio e Cassiano la analizzano con precisione clinica. Per gli antichi era la tentazione per eccellenza degli anacoreti, il cosiddetto "demonio meridiano". Ai cenobiti poteva (e puo`) venire soprattutto durante la lectio, quando essi sono piu` soli con se stessi, piu` simili agli anacoreti. Cassiano ugualmente nota che la "acedia" non permette di dedicarsi alla lettura (Inst.10,2). SB vuole che un tale fratello, "inutile a se stesso e dannoso agli altri" (un "frate-mosca" lo chiamava S.Francesco), sia punito in modo esemplare, si` "da far timore amche agli altri" (v.20); l'espressione ricorda 1Tim.5,20.

21: parlare in ore non competenti

Al v.21 segue un principio generale: che i monaci non comunichino tra di loro in ore non competenti, tanto meno durante il tempo della lettura, che deve essere dedicato a parlare con Dio, ad ascoltare e approfondire la sua parola.

22-25: Lavoro e lettura in casi particolari

Due casi particolari, al termine del capitolo. La domenica e` dedicata interamente al Signore. S.Girolamo scriveva ai monaci d'Egitto: "Nei giorni di domenica attendono solo all'orazione e alla lettura" (Epist.22,35). SB segue questa pratica; naturalmente alcuni dei fratelli dovevano attendere ad uffici necessari: cellerario, infermiere, cuoco, ecc. Pero`, nel caso di qualche fratello molto svogliato o anche poco incline a leggere per disposizione naturale (pensiamo che forse alcuni sapevano appena appena leggere), SB prescrive un lavoretto qualsiasi, anche di domenica, tanta era la paura della "otiositas". Ricordiamo che "meditare" (v.23) non significa tanto meditare nel senso nostro, ma piuttosto "esercitarsi nello studio dei salmi", "ripetere per imparare a memoria". Tale e` il senso del v.23 e probabilmente di RB.58,5 a proposito dei novizi (cf. anche l'excursus sulla lectio divina, in appendice). Quanto agli infermi e ai fratelli di salute fragile, bisogna provvedere un lavoro che mentre fa evitare l'ozio (di nuovo la paura della "otiositas"!), non li opprima o schiacci (v.24). Il capitolo termina con una nota di umanita`: l'abate deve considerare la loro debolezza (v.25).

Conclusione

Se si paragona ad altre Regole monastiche, l'orario di SB appare molto piu` complicato; ma questo non e` un difetto, rivela una grande discrezione nell'autore, che fissa tanti particolari, anche minuziosi, tenendo conto dei tempi e delle circostanze. Per SB vale il principio "Nulla si anteponga all'Opera di Dio" (RB.43,3); pero` non teme di spostare alcune ore dell'Ufficio (terza, sesta, nona e anche vespro) per meglio inquadrare le altre due occupazioni principali del monaco, secondo tutta la tradizione monastica: lectio e lavoro.

RB si preoccupa molto della lectio divina. Ad essa assegna il tempo migliore in durata e qualita`; d'inverno le sono dedicate le prime ore della giornata (senza contare il tempo tra l'Ufficio notturno e le lodi, cf.RB.8,3) e un'altra ora circa tra nona e vespro; d'estate le ultime ore della mattinata e, chi vuole, il tempo della siesta. Complessivamente sono tre ore al giorno (in quaresima di piu` e la domenica tutto il tempo libero). SB vuole evitare una durata eccessiva in continuita` e quindi fa in modo che la lectio sia spezzettata. Sarebbe inutile cercare nella RB una dottrina sulla lectio divina: era una cosa naturale conosciuta da tutti i monaci (e dai cristiani), era la maniera della Chiesa di accostarsi al testo sacro in vista non tanto dell'intelletto, quanto piuttosto della preghiera (cf. in appendice l'Excursus sulla lectio).

RB, poi, si preoccupa che i monaci lavorino: il lavoro dura circa sette ore in inverno e in quaresima, sei ore e mezzo in estate ed e` piu` intervallato a causa del clima estivo. Non si specifica quale era il lavoro manuale che i monaci facevano. SB non ne assegna uno esclusivo: oltre a quello necessario per i servizi del monastero (forno, cucina, ecc.), poteva essere quello dei vari artefici (cf.RB.57) e certamente - in certe occasioni o per circostanze storiche - quello dei campi.; e` considerato comunque eccezionale quello estivo della raccolta. Nel corso dei secoli i monaci hanno intrapreso i piu` vari generi di lavoro manuale e intellettuale (cf. in appendice l'Excursus sul lavoro monastico).

Nell'orario fissato con tanti particolari da SB non figura la messa quotidiana nei giorni feriali, nemmeno in quaresima. Nel monastero al tempo di SB la messa conventuale e solenne si celebrava solo la domenica e le feste. Questo non deve sorprendere. Solo posteriormente a SB si ando` estendendo l'uso della messa quotidiana (cominciando dall'Africa e dalla Spagna). Naturalmente, oggi la messa conventuale e` il centro della giornata monastica.

Nell'orario di SB manca pure ogni accenno ad un tempo per la cosiddetta ricreazione per allentare un po` l'arco teso di preghiera-lectio-lavoro e per aumentare i rapporti fraterni. Certamente non esisteva di orario. Pero` sara` bene ricordare che SB non interdice affatto l'uso della parola, ma ammonisce solo per l'uso saggio, discreto e assennato della parola (cf.RB.6; 4,51-54; 7,56-61 e relativo commento). Inoltre le "ore non competenti" di RB.48,21 fanno spia che dovevano esserci anche delle "ore competenti" in cui i monaci potevano avvicinarsi, parlare, trattare insieme. Con l'andare del tempo, la tradizione monastica ha fissato un particolare "tempo competente" scritto anche nei nostri orari come "tempo libero" o "sollievo", per scaricare un po` la tensione della preghiera e del lavoro e per trascorrere qualche momento in fraterna conversazione.

Per la ricostruzione di una giornata monastica nel monastero benedettino del medioevo, si puo` vedere il libro (molto breve e di facile lettura) di: L.MOULIN, La vita quotidiana secondo S,Benedetto, Jaca Book, Milano 1980.


CAPITOLO 49

L'osservanza della quaresima

De quadragesimae observatione

Preliminari

Nel determinare l'orario, SB ha tenuto conto del particolare carattere della quaresima (RB.48,14-16; 41,6-7). L'importanza data a tale periodo lo induce a scrivere un capitolo a parte sulla quaresima, quale tempo forte dell'anno liturgico per il quale senza dubbio egli aveva particolare devozione e che considerava come molto adatto per il rinnovamento spirituale dei monaci.

Cassiano, da idealista impenitente, applicando la sua esegesi allegorica, dice che la quaresima e` come la "decima", il tributo che i cristiani nel mondo debbono pagare annualmente al Signore; immischiati come sono nelle cose della terra, negli affari e nei piaceri, si fa loro obbligo di consacrare al servizio di Dio almeno questi giorni. I monaci sono esenti dal pagare tale decima, perche` hanno fatto a Dio donazione della loro vita intera con tutto quanto possiedono, e vivono tutto l'anno con il regime che i laici conducono in quaresima, obbligati dalla legge. La quaresima fu istituita solo per gli imperfetti: difatti non esisteva fin quando si mantenne la perfezione della Chiesa primitiva degli Atti. Cosi` Cassiano, in Coll.21,24-30.

Uomo pratico secondo Gesu` Cristo, SB pensa che anche per i monaci - uomini che aspirano alla santita`, ma sempre uomini dalla testa ai piedi! - capita molto a proposito questo periodo di rinnovamento e di intensificazione della vita cristiana che ogni anno prepara i catecumeni al battesimo e tutti i fedeli a una degna celebrazione della Pasqua. E` stato notato che, ad eccezione dei vv.8-10 che sono come una appendice e di carattere chiaramente cenobitico, il capitolo dipende, tanto nelle idee quanto nelle espressioni, dai "Discorsi sulla quaresima" di S.Leone Magno, soprattutto i primi quattro (sono dodici).Cosi` il contrasto iniziale tra la vita da tenersi in quaresima e quella piu` leggera da tenersi nel resto dell'anno; cosi` il "tale virtu` e` di pochi" (v.2) a proposito di una vita sempre a un livello spirituale molto alto; soprattutto l'idea della "purezza di vita", di purificazione, di espiazione in quaresima delle colpe di tutto l'anno sono il 'leit-motiv' della predicazione di S.Leone. Appare chiaro che SB ha assimilato la dottrina quaresimale del vescovo di Roma, e` impregnato del suo vocabolario e ripete spontaneamente le sue espressioni senza che si preoccupi di citarle letteralmente. Quello che S.Leone predicava a tutti i cristiani, SB lo scrive per i monaci; e` una ulteriore prova che la vita monastica e` un modo di realizzare la vita cristiana e che la dottrina della perfezione evangelica predicata dai Padri della Chiesa e` ugualmente valida per il cristiano che vive nel mondo e per quello che, seguendo la sua vocazione, vive in monastero.

SB quindi in questo capitolo e` piu` preoccupato di sottolineare l'importanza della quaresima e lo spirito che deve animare la vita in tale periodo, che di fare precise pratiche penitenziali alla comunita` o determinare in che cosa deve consistere l'intensificarsi della vita di preghiera, come invece fa la RM (cf.RM.51 e 53). Dobbiamo percio` classificare il capitolo 49 della RB piu` tra la parte ascetica e spirituale che tra la parte propriamente legislativa e disciplinare.

1-3: Lo spirito che deve animare la quaresima

"La vita del monaco dovrebbe essere una continua quaresima", quasi a dire: tale sarebbe l'ideale, magari fosse cosi`! Qual'e` il significato esatto di queste parole? Non dobbiamo credere che SB pensi a un carattere eccessivamente severo e melanconico della vita monastica; per lui la quaresima - come appare in seguito - non ha un volto triste, ma significa anzitutto un tempo in cui si vive con purezza (v.2) e integrita` la vita cristiana, o per lo meno si cerca. Uomo pratico e realista, SB sa che sono pochi quelli dotati di tanta virtu` e fortezza di spirito da mantenersi completamente fedeli al Vangelo durante tutto l'anno. Allora durante la quaresima sforziamoci non solo di vivere come monaci autentici, ma anche di fare qualcosa in piu`, quasi a compensare e cancellare le negligenze degli altri periodi. Questo e` insomma l'ideale quaresimale per i monaci: vivere perfettamente come tali e riparare con pratiche supererogatorie alle infedelta` della "quaresima" precedente. (Per i paralleli con S.Leone Magno, cf. "Discorsi sulla quaresima", I,2; IV,1; V,2.6).

2: Custodire la propria vita con somma purezza

"Puritas" qui e` nel senso piu` ampio: la mondezza di mente e di cuore, per cui si e` spogli da ogni attacco che distragga da Dio. La bellissima sentenza richiama il 48.mo strumento delle buone opere: Actus vitae suae omni hora custodire <vigilare continuamente sulle azioni della propria vita>, RB.4,48; e` la vigilanza assidua di chi ama seriamente Dio e vuole che nessuno dei suoi atti possa ostacolare l'unione con Lui; e` praticamente il primo gradino dell'umilta`, con la famosa "memoria Dei" (cf. RB.7,10-30, vedi commento).

4-7: Pratiche quaresimali

SN scende al particolare. Anzitutto astenersi da ogni peccato: e` la prima e piu` necessaria astinenza (cf. S.Leone M., Discorso IV,6); la lotta contro i vizi - estirpandoli dalle radici, se e` possibile - e` uno dei fini dell'ascetismo cristiano. Poi dedicarsi con speciale impegno a certe pratiche. SB ne segnala quattro: tre di carattere spirituale, una di carattere corporale.

- 1) Preghiere con lacrime, si tratta dell'orazione privata, in unione alle lacrime e alla compunzione del cuore, suggerita spesso da SB (cf. RB.4,56-57; 20,3; 52,4);

- 2) Lettura (divina), appunto percio` ha prescritto la consegna di un libro a ciascun monaco all'inizio della quaresima (RB.48,15-16) e ha unificato le ore di "lectio", circa tre ore di seguito: "dal mattino fino a tutta l'ora terza" (RB.48,14).

- 3) compunzione del cuore, e` lo spirito di compunzione, cioe` il chiedere perdono a Dio dei propri peccati con lacrime e gemiti, come ha gia` detto nel 57.mo strumento delle buone opere (RB.4,57), evidentemente con maggiore frequenza e intensita` che negli altri periodi.

- 4) astinenza, e` l'astinenza corporale, come specifichera` meglio nei versetti seguenti:

5: Aggiungiamo qualcosa...

"Aggiungiamo qualcosa al consueto debito del nostro servizio" (v.5). C'e` un debito, una "tassa" stabilita, delle prestazioni normali - diciamo cosi` - nel servizio di Cristo, che e` la vita monastica; durante la quaresima, aggiungiamo qualcosa alla tariffa ordinaria. E abbiamo qui altri due elenchi (oltre a quello del v.4) nel v.5 e nel v.7. L'idea di aggiungere qualcosa e` continua pure in S>Leone Magno (cf. Discorsi, II,1). Tutte le cose elencate si ritrovano negli strumenti delle buone opere (RB.4).

7: Sottraiamo qualcosa...

Nel terzo elenco (v.7) si parla di sottrarre qualcosa alla loquacita` e alla scurrilita` o leggerezza. Ma non aveva SB completamente condannato queste cose nel c.6 sull'amore al silenzio? (RB.6,8, vedi commento). Come mai ora si suggerisce di reprimerle "un poco" <aliquid> durante la quaresima? Una cosa e` la teoria, un'altra e` la pratica. Qui pare affacciarsi sorridente il volto paterno di SB. La vita dovette insegnare al santo - sempre grave e solenne, ma anche molto umano - che ci sono dei tipi per natura leggeri e portati allo scherzo e alla buffoneria, e privarli del tutto di queste cose equivarrebbe a reprimerli. Basta che si moderino un po`, almeno in quaresima!

Due caratteristiche appaiono in questi versetti:

- a) il senso della gioia nell'impegno quaresimale e nell'attesa della Pasqua. "Col gaudio dello Spirito Santo" (v.6): citazione da 1Tess.1,6. Anche a proposito dell'obbedienza SB ha ricordato (RB.5,16) che "Dio ama chi dona con gioia" (2Cor.9,7). Questa nota di letizia, frutto della sincera generosita` ispirata dallo Spirito Santo, rende piu` profumato l'atto di offerta. Si ricordi, poi, a proposito del digiuno, l'insegnamento di Gesu`: "Tu invece, quando digiuni,, profumati..." (Mt.6.17). Al v.7 la frase "con gioia di soprannaturale desiderio aspetti la santa Pasqua" ricorda alcune espressioni liturgiche. L'attesa della Risurrezione di Cristo dona a tutta l'osservanza quaresimale l'abito della gioia; preparato dall'impegno e dalle osservanze della quaresima, il monaco giungera` maturo a godere pienamente la S.Pasqua.

- b) carattere individuale e volontario: e` l'altra caratteristica di questi versetti. Le pratiche quaresimali non sono imposte obbligatoriamente a tutti i monaci dall'autorita` della Regola o dall'abate. A differenza dalla RM, in cui si prescrivono orazioni e astinenze comunitarie, la RB non ha un programma preciso e obbligatorio per la comunita` intera (a parte quanto detto nell'orario, RB.48,14-16). Si tratta di opere supererogatorie che ciascuno <unusquisque> offre a Dio volontariamente <propria voluntate> e col gaudio dello Spirito Santo <cum gaudio Sancti Spiritus>; non sono un peso supplementare imposto dalla legge, ma un segno della generosita` con cui ciascun monaco, con cuore largo e gioioso, intende darsi a Cristo Signore a compensazione delle deficienze nel servizio santo che ha professato.

8-10: Appendice sul ruolo dell'abate

"Cum spiritalis desiderii gaudio sanctum Pascha expectet" <aspetti la santa Pasqua nella gioia del desiderio spirituale> (v.7). Con queste magnifiche parole si chiudeva probabimente il capitolo nella sua prima redazione. SB in seguito vi aggiunse un'appendice. Chissa`, forse alcuni monaci, approfittando della liberta` di scelta, si davano a delle pratiche ascetiche o a penitenze eccessive. (Ricordiamo quello che vide Macario tra i monaci di Tabennisi durante la quaresima, cf. Palladio, Storia Lausiaca, c.18,14-15). La Regola, pur lasciando quella liberta` individuale di cui sopra, guida il monaco per i sentieri dell'obbedienza: le piccole mortificazioni individuali siano sottoposte al permesso e alla benedizione dell'abate (si evita cosi` il pericolo di illusione e di esagerazione) e siano accompagnate dalla sua preghiera. E` questa un'idea propria del monachesimo antico: il discepolo attribuiva alla preghiera del "padre spirituale", richiesta al medesimo prima di iniziare qualche opera, la riuscita dell'opera stessa. SB si mantiene nella linea della tradizione autentica. E termina con un principio di carattere generale: tutto deve compiersi con il consenso dell'abate (v.10; cf. anche RB.67,7).

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Nota: I cc.50 e 52 sono stati trattati nella sezione sull'Opera di Dio.




CAPITOLO 66

I portinai del monastero

De ostiariis monasterii

Relazioni con l'esterno: clausura, viaggi, ospiti

Preliminari

Il monastero nella primitiva tradizione era considerato come un luogo chiuso, separato dal mondo, costituito - secondo la RM - da "santi", da "fratelli spirituali" che non si debbono mescolare ai secolari. I fratelli percio` vivevano tutta la loro vita nei "recinti" del monastero, ai margini della vita del mondo. Cosi` per anacoreti e cenobiti, cominciando dai pacomiani. Tuttavia anche per il monastero di RM e di RB, alcune relazioni con l'esterno sono inevitabili: accogliere poveri e pellegrini, quindi l'importanza dell'ufficio del portinaio (RB.66), ricevere tutti gli ospiti (RB.53 e 56), uscire per breve tempo per qualche commissione (RB.51) o anche per viaggi piu` lunghi (RB.67).Tutto cio` trattiamo in questa sezione; e iniziamo proprio dall'organizzazione autosufficiente del monastero, quale ci appare dal c.66, prevista appunto per ridurre al minimo le uscite.

Il capitolo sui portinai

Il capitolo sui portinai del monastero ci testimonia - come si e` detto - di tutta una mentalita` sulla concezione del monastero come unita` auto-sufficiente, separato dal mondo, ecc. Difatti non si limita a tracciare le qualita` del portiere (vv.1-5), ma ricorda che il cenobio deve essere organizzato con ogni cosa all'interno (vv.6-7); una nota finale prescrive la lettura frequente della Regola in comunita` (v.8).

1-5: Persone e ufficio del portinaio

L'ufficio del portinaio, secondo la Regola, e` molto importante e delicato: il portinaio e` intermediario tra il monastero e il mondo, e` il guardiano della pace dei monaci e, nello stesso tempo, il rappresentante della comunita`; il primo contatto della gente col monastero avviene attraverso il portinaio, anzi a volte (almeno nelle brevi visite, non in caso di ospitalita`), egli e` il solo monaco avvicinato e conosciuto; spesso dal suo modo di rispondere e di trattare dipende l'edificazione degli estranei e il buon nome del monastero. Gli antichi davano grande importanza a tale ufficio e sceglievano per esso i migliori monaci. A Montecassino SB spesso fu trovato a leggere presso la porta (II.Dial.31); e li` pure S.Willebaldo (sec.VIII) fu per parecchi anni portinaio.

La Regola enumera alcune qualita`: saggezza, assennatezza, prontezza e sollecitudine nel rispondere "con tutta gentilezza e fervore di carita`". Si parla di "saggio" come per l'abate (RB.27,2; 28,2), per il celleraio (RB.31,1), per il foresterario e in generale per quanti amministrano la "casa di Dio" che e` il monastero (RB.53,22). Notiamo che alla fine del v.1 alcuni codici danno vagari, altri vacari, e il senso sarebbe: "la cui eta` non gli permetta di rimanere ozioso" ('vacari': Penco, Colombas); oppure: "la cui eta` matura non gli permetta di andare gironzolando" ('vagari': Lentini e altri). De Vogue` legge "vacari", ma solo come variante ortografica di "vagari".

Nota per l'oggi

Oggi molti monasteri per l'ufficio di portinaio viene assunto un laico; pero` nella riscoperta che oggi si sta facendo del monastero come luogo di accoglienza, non sarebbe male ripensare la cosa e rifare all'ufficio del portinaio quel posto delicato e importante che gli da` la Regola. Cosi` pure sara` bene rieducare tutti alla disponibilita` e gentilezza nel rispondere alla porta e al telefono; anche rispondere subito e con delicatezza al telefono puo` essere oggi un'ottima forma di accoglienza.

6-7: Clausura

Gia` alla fine del c.4 SB ha ricordato che tutti gli strumenti dell'arte spirituale enumerati vanno usati nell'"officina" che e` il recinto del monastero e la stabilita`. Percio` ora aggiunge che il cenobio deve essere provvisto di tutto il necessario - enumera difatti alcune cose principali - per ridurre al minimo le uscite, "cosa questa che non giova affatto alle loro anime" (v.7). (La frase riecheggia alcune espressioni della "Historia Monachorum in Aegypto"). Ricordiamo anche come SB ha parlato male dei monaci girovaghi (RB.1,10-11). Gia` Antonio il Grande diceva che "un monaco fuori del monastero e` come un pesce fuor d'acqua" (Vita, 85; Apoftegmi, Antonio, 10).

Nota per l'oggi

Certamente l'evoluzione storica, le circostanze, il ritmo di vita diverso, i segni dei tempi, ecc., inducono a una rilettura di questo brano e a una concezione diversa dei contatti con l'esterno. Oggi non e` piu` possibile, e neanche opportuno, organizzarsi in un sistema economico chiuso e in una vita completamente avulsa dal contesto sociale ed ecclesiale. Pero` non e` fuori di luogo richiamare a noi il principio generale che i monaci devono abitualmente stare in monastero. E questo non come indizio di una mentalita` ristretta e meschina (che potrebbe affiorare in noi) che il "mondo" e` la sentina di tutti i vizi e il monastero il luogo dei santi, dei puri, cosa che non e` nello spirito di SB e della genuina tradizione monastica. Nei Detti dei Padri, spesso si trova il fatto del santo eremita, vissuto per lungo tempo nella solitudine, a cui viene rivelato che in citta` c'era un semplice e comune artigiano che era piu` santo di lui; e Gregorio ci presenta SB avere dei rapporti semplici e liberi con le persone di fuori. Si tratta semplicemente di coerenza con il proprio stato di vita: una certa separazione dal mondo puo` considerarsi come una componente essenziale della professione monastica, ma naturalmente la cosiddetta "fuga-mundi" deve essere rettamente intesa. Per quanto possa sembrare paradossale, questo modo di essere tutto di Dio senza alcun pensiero in cuore al di fuori di quello della sua presenza e` il modo piu` pieno e assoluto di essere tutto dei fratelli. "Monaco e` colui che e` separato da tutti e unito a tutti", dice Evagrio. E per irradiare genuinamente Cristo (anche nel lavoro pastorale, per alcuni monasteri) il modo migliore e` questa fedelta` a un certo distacco, a una certa separazione, a una vita "piu` nascosta in Dio".

8: Prescrizione di leggere la Regola in comunita`

Questa nota finale prescrive la lettura frequente della Regola in pubblico, anche se non specifica i modi e i tempi. Secondo la RM (RM.24,15), tale lettura si faceva a refettorio durante il pasto. Da questa finale si deduce che qui terminava la prima stesura della RB: difatti RB.66 corrisponde a RM.95, sempre sui portinai, che e` l'ultimo capitolo della RM.

 

CAPITOLO 67

I fratelli inviati in viaggio

De fratribus in viam directis

1-7: Norme per i fratelli in viaggio

I viaggi senza dubbio sono inevitabili. E` curioso notare che proprio immediatamente dopo il c.66 che insiste rigorosamente nulla necessita` di rimanere in monastero, il primo dei capitoli aggiunti (ricordiamo che i cc.67-73 sono stati aggiunti dopo la prima redazione della Regola che terminava al c.66) parla dei fratelli mandati in viaggio. Necessita` di apostolato, di carita`, di interessi del monastero e anche di famiglia possono esigere che i fratelli viaggino. RB.67 si limitava comunque a far notare i pericoli spirituali a cui puo` andare incontro il monaco fuori del suo ambiente piu` naturale, e SB richiama continuamente l'aiuto soprannaturale. I partenti si raccomandano alla preghiera della comunita` (v.1); essi poi durante l'assenza vengono ricordati alla fine dell'ufficio (v.2: questo si fa ancor oggi con il "Divinum auxilium...); al ritorno chiedono perdono delle eventuali colpe commesse fuori (vv.3-4).In questo contesto si comprende la prescrizione seguente (vv.5-6), di non riferire le cose viste o udite fuori ai fratelli rimasti dentro, sempre per evitare il pericolo di far entrare la mentalita` del mondo nel monastero. Il v.7 aggiunge la pena regolare per chi esce dal monastero senza il permesso dell'abate, o per chi compie qualsiasi cosa (l'interpretazione secondo il contesto sembra essere: qualsiasi cosa fuori dal monastero), senza il permesso dell'abate. Il santo Patriarca non perde occasione per riaffermare l'autorita` del "padre del monastero". Tuttavia SB non prescrive niente di straordinario: i Regolamenti di Pacomio hanno disposizioni molto simili. Anche per questo brano va tenuto conto, oggi, della nostra situazione diversa; va interpretato secondo quanto gia` detto al capitolo precedente.

 

CAPITOLO 51

I fratelli che vanno fuori non molto lontano

De fratribus qui non longe satis proficiscuntur

1-3: Viaggi brevi

Questo capitoletto parla di viaggi meno importanti e, senza dubbio, piu` frequenti, per piccole commissioni. In pratica si limita a proibire di fermarsi a mangiare fuori, qualora si pensi di rientrare in giornata, senza espressa licenza dell'abate. Nel testo c'e`: il suo abate, ad escludere l'invito proveniente anche da un altro abate, nel caso il monaco sia andato a fare una commissione in un altro monastero. Ricordiamo l'episodio dei fratelli che accolsero l'invito di una pia donna e furono rimproverati (ma poi subito perdonati!) da SB. E S.Gregorio inizia quel capitolo proprio ricordando che "era consuetudine del monastero che ogni volta che i fratelli uscivano per qualche commissione, non prendere ne` cibo ne` bevanda fuori del monastero" (II.Dial.12).

Notiamo che questo capitolo si trova dopo il c.50, con cui appare la connessione, perche` li` si diceva come si devono comportare riguardo all'Ufficio divino i fratelli che lavorano non molto lontano o sono in viaggio. Notiamo ancora che nel testo del presente capitolo si parla di monaco, al singolare, mentre al c.67 sempre al plurale: probabilmente nei viaggi piu` lunghi e importanti i monaci non andavano mai da soli, ma almeno in due.

CAPITOLO 53

Come debbano essere accolti gli ospiti

De hospitibus suscipiendis

Preliminari

Il c.53 sull'ospitalita` e` in linea con tutta la tradizione monastica. La S.Scrittura parla dell'accoglienza degli ospiti come di un esercizio fondamentale della carita` fraterna (cf. Rom.12,13; 13,8; ecc.) e Gesu` dice che nelle persone di ospiti e pellegrini si riceve lui stesso (Mt.25,35-43). Fin dalle origini del monachesimo, ricevere poveri, pellegrini e ospiti fu ritenuta una pratica sacrosanta della vita quotidiana: cosi` presso i Padri del Deserto (abbiamo tanti esempi e aneddoti nei "Detti"), presso anacoreti, presso i cenobiti pacomiani. SB si mostra degno erede di questa tradizione. Per il c.53 della RB abbiamo nella RM vari capitoli (RM.65; 71-72; 78-79), in cui da una parte notiamo grande comprensione e carita` (addirittura il Maestro fa anticipare il pasto dei fratelli a sesta, se l'ospite si trattiene); d'altra parte notiamo differenza nei confronti di ospiti che si fermano piu` giorni: in essi potrebbero nascondersi parassiti e ladri. SB ha soppresso tanta casistica e parla dell'ospitalita` in un solo capitolo unitario e ben compatto, tutto pieno di un profondo spirito di fede, di calore umano e di carita` fraterna.

Struttura del capitolo

RB.53 si divide in due parti: a) la prima (vv.1-15) descrive l'accoglienza con una piccola teologia dell'ospitalita` (e` ispirata soprattutto alla "Historia Monachorum in Aegypto" tradotta da Rufino); b) la seconda (vv.16-24) parla dell'organizzazione dell'ospitalita` nel monastero, con le ripercussioni per la vita interna del cenobio e la pace dei fratelli.

Appare, anche dalla struttura e dal vocabolario, che questa seconda parte dovette essere composta in un secondo tempo da SB; in seguito alla pratica continua dell'ospitalita`, alle varie esperienze, agli inconvenienti notati, il santo Patriarca dovette aggiungere alcune precisazioni. Le campagne italiane non erano certo il deserto dell'Egitto, gli ospiti a Montecassino affluivano incessantemente e a volte in buon numero; tale afflusso avra` pregiudicato il clima di preghiera e il silenzio in cui vivevano i monaci. Da qui alcune restrizioni aggiunte alla prima stesura, per armonizzare le irrinunciabili tradizioni dell'ospitalita` monastica con le esigenze della vocazione cenobitica.

1-15: Accoglienza degli ospiti: teologia dell'ospitalita`

Esaminiamo ora il testo "Ero pellegrino e mi avete ospitato" (Mt.25,35). La frase di Matteo domina tutta la prima parte del capitolo e costituisce la base per il principio generale che tutti gli ospiti che giungono al monastero siano accolti come Cristo in persona (v.1). Mettiamo l'accento su quel "tutti" con cui si apre il capitolo. SB intende bandire ogni distinzione di grado sociale. Ognuno poi sia ricevuto con l'onore dovuto, "soprattutto i nostri fratelli nella fede e i pellegrini" (v.2). Domestici fidei <fratelli nella fede> sembra si debba interpretare nel senso di monaci o anche chierici e in genere quelli che fanno professione di speciale servizio a Dio (cio` sarebbe confermato anche da passi di Pacopmio, Cassiano, Girolamo). Pellegrini: quelli che vengono da lontano a scopo di pieta` e di devozione. I pellegrinaggi ai luoghi santi della Palestina e di Roma erano allora frequenti e i monasteri erano il naturale rifugio nelle soste dei pii viaggiatori. Dunque i "domestici fidei", per la loro professione sacra, e i "peregrini", per il loro sacro scopo di viaggio, meritano particolare cura ed onore. A questi SB aggiunge i "poveri" (v.15), specificando che specialmente nei poveri e nei pellegrini si riceve Cristo.

Posto il principio, SB passa a descrivere il rito dell'accoglienza, i cui vari atti erano nella tradizione della Chiesa primitiva e del monachesimo: accorrere a ricevere l'ospite, umilta` nel riceverlo, preghiera, bacio di pace, lettura della S.Scrittura, lavanda dei piedi... (vv.3-14).A proposito della lavanda dei piedi (vv.12-14), ricordiamo che essa era anticamente assai comune ed era necessaria a causa del viaggiare a piedi. Praticamente dobbiamo ritenere che non ad ogni ne-venuto tutta la comunita` andasse a compiere questo atto, ma che per tutti insieme i nuovi venuti si eseguisse la lavanda in un solo tempo della giornata, e che i fratelli la facevano a turno, in modo che "tutta la comunita`" adempisse questo atto di servizio e di umilta`. A tal riguardo gli usi nei monasteri furono i piu` vari. Bello lo spirito di fede che aleggia nel v.14: i monaci vedono nell'ospite arrivato una manifestazione della grazia e della benevolenza di Dio: "Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia <=grazia>..." (salmo 47,10).

16-24: Organizzazione dell'ospitalita`

Dato che nel monastero bisogna accogliere tutti coloro che chiedono ospitalita` - (ricordiamo l'8.vo strumento delle buone opere: "onorare tutti gli uomini" (RB.4,8) che si riferisce senz'altro all'ospitalita`, come ha dimostrato DeVogue`) - potrebbero derivare inconvenienti per la vita comune, poiche` gli ospiti, "che non mancano mai in monastero" (v.16), arrivano alle ore piu` impensate. Ecco allora la necessita` di una certa organizzazione, per compiere bene l'esercizio dell'ospitalita`. Abbiamo quindi la cucina a parte con un personale specializzato, la foresteria e il foresteriario, con eventuali aiutanti: ambedue le cose sono creazioni di S.Benedetto rispetto alla RM. Il santo patriarca vuole che la casa di Dio sia amministrata da saggi e saggiamente (v.22). Sappiamo che nel mandare alcuni monaci a fondare il monastero di Terracina, SB parlo` di posto per l'"oratorio, il refettorio per gli ospiti, la foresteria..." (II.Dial.22); e ancor oggi non si concepisce monastero benedettino senza una parte riservata a foresteria.

Il capitolo si chiude con la proibizione ai monaci di parlare con l'ospite, e sembra una nota un po` negativa in un testo iniziato con tanto slancio spirituale. SB e` guidato dall'intenzione di salvaguardare l'osservanza regolare; non si tratta solo del silenzio, ma anche di evitare il contatto col mondo esterno, come gia' visto in RB.66,7 e 67,4-5. Pero` l'osservanza della Regola non significa mancanza di educazione: incontrando l'ospite, il monaco non omettera` di salutare gentilmente e di domandare umilmente la benedizione, secondo l'uso del tempo.

Conclusione e applicazione oggi

Il bel capitolo sull'ospitalita` ha generato la gloriosa tradizione dell'ospitalita` benedettina, una delle manifestazioni caratteristiche dello spirito e dello stile benedettino, che ha svolto anche un'opera di altissimo valore sociale nella storia d'Europa. Oggi, certo, la situazione e` cambiata: rapidissimi mezzi di comunicazione, organizzazioni turistiche e alberghiere... Eppure, anche oggi si viene al monastero. Che cosa vengono a cercare gli uomini del XX secolo nelle nostre foresterie? Quella dimensione spirituale che non puo` trovarsi in un albergo. Il problema dell'accoglienza va ripensato, e seriamente, nelle nostre comunita`. E notiamo che gli ultimi versetti del c.53 non sono in contraddizione con il concetto di "comunita` aperta". Aprirsi significa soprattutto donare quanto di meglio si possiede, in uno scambio fraterno di carita`. Questo tuttavia e` possibile solo se l'accoglienza degli ospiti si svolge in modo da salvaguardare la pace e il raccoglimento della comunita`, altrimenti non si offre altro che il vuoto della propria dissipazione. La foresteria poggia sulla interiorita` dei monaci; una foresteria monastica non puo` essere tale se dietro di essa non c'e` la presenza silenziosa e irradiante di una comunita` riunita nel nome di Cristo; una comunita` che sappia, in uno spirito di fede, essere disponibile, sappia accogliere tutti come Cristo in persona (cf.v.1), e mettere a parte coloro che vengono al monastero, in semplicita` e umilta`, della propria vita di preghiera, di meditazione, di lavoro.

 

CAPITOLO 56

La mensa dell'abate

De mensa abbatis

1-3: Senso del capitolo

Il breve capitolo va considerato come complemento del capitolo dell'ospitalita`: c'e` una cucina e una mensa propria per i forestieri e per l'abate. Questi mangia sempre con gli ospiti e, nel caso questi fossero pochi, l'abate puo` invitare alcuni dei fratelli, purche` rimangano sempre uno o due seniori a tutelare la disciplina nel refettorio comune.

Il capitolo, uno dei piu` brevi di tutta la Regola, e` stato il tormento dei commentatori, antichi e moderni. Alcuni hanno ritenuto inammissibile che SB faccia mancare abitualmente l'abate dalla mensa comunitaria, che e` uno dei segni maggiori della vita fraterna e della comunita` radunata nel nome di Cristo. DeVogue` ha interpretato che gli ospiti fossero introdotti nel refettorio monastico e mangiassero alla "tavola" ("mensa" = nel senso di tavola) dell'abate, in giorno di digiuno con orario diverso (in modo che l'abate - solo lui - interrompesse il digiuno), negli altri giorni insieme alla comunita`. Ma questa ipotesi renderebbe incomprensibile il v.3 e non risponderebbe alla "mens" di SB, il quale vuole che gli ospiti non disturbino con la loro presenza la vita regolare dei monaci.

Dobbiamo dire che separare l'abate dai fratelli in un momento cosi` significativo della vita della comunita` come la refezione comune, costituisce il prezzo che SB si considero` obbligato a pagare affinche` l'esercizio dell'ospitalita` non intralciasse lo svolgimento normale del ritmo della giornata monastica. Certo, la cosa genero`, nel corso dei secoli, abusi e inconvenienti: si pensi alla grande stortura che piu` tardi si verifico` dando alla "mensa abbatis" il senso di "beneficio ecclesiastico", con patrimonio proprio, distinto da quello della comunita`; fu il pretesto per una lunga serie di gravi abusi che influirono molto negativamente sullo spirito monastico, specialmente nel periodo dei cosiddetti "abati commendatari".

Naturalmente, oggi, tutto cio` e` sorpassato e l'abate presiede abitualmente ai pasti comuni; gli ospiti o mangiano a parte o sono ammessi al refettorio monastico assieme alla comunita`.

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Nota: I cc.54-55 e 57 sono stati trattati dopo i cc.32-34 nella sezione della poverta`.




CAPITOLO 58

Procedura per l'ammissione dei fratelli

De disciplina suscipiendorum fratrum

Introduzione: L'AGGREGAZIONE AL MONASTERO (RB.58-61+62)

Abbiamo visto nella sezione precedente la paura che i monaci antichi avevano dei rapporti con l'estrno, per il pericolo che si infiltrasse nel monastero una mentalita` mondana (vedi soprattutto RB.66,7 e 67,5). Per questo motivo i Padri del cenobitismo erano portati a provare duramente i postulanti, a saggiarne lo spirito e la consistenza dei propositi, a negare loro ripetutamente l'ingresso e, una volta ammessi, obbligarli a restare come in quarantena per un periodo piu` o meno lungo perche` riflettessero sulla serieta` della propria vocazione e si abituassero al nuovo genere di vita.

Cassiano descrive in questo modo l'ammissione dei postulanti nei monasteri d'Egitto: prima si facevano aspettare almeno dieci giorni alle porte del cenobio, provandone la pazienza con ogni sorta di ingiurie; poi si facevano entrare e venivano spogliati di tutto il denaro e dei loro abiti, sostituendovi quelli del monastero; pero` con tale "vestizione" non erano ancora incorporati alla comunita`, ma venivano affidati all'"anziano" che sovrintendeva alla foresteria, e per un anno intero aiutavano a servire gli ospiti, esercitandosi nell'umilta` e nella pazienza; infine passavano a far parte di una decania ed erano candidati ormai membri della comunita` cenobitica e ricevevano una formazione specifica (Inst.4,3-7). SB adotto` piu` o meno questo schema, ma con molte modifiche, o sue originali o attingendo ad altri autori, come la RM, che in questa sezione e` lunghissima e particolareggiata.

Trattiamo qui dell'ammissione piu` comune e ordinaria (RB.58), e poi alcuni casi speciali di ingresso in comunita`: l'oblazione dei fanciulli (RB.59),

l'ammissione dei sacerdoti e chierici (RB.60) e di monaci di altri monasteri (RB.61); per associazione di idee, si parla poi dei sacerdoti del monastero (RB.62).

Preliminari al c.58

E` uno dei piu` importanti capitoli della Regola, perche` non parla solo della procedura per l'accettazione, ma del contenuto stesso della vita monastica, con le idee fondamentali secondo SB: il QUAERERE DEUM, la STABILITAS, la CONVERSATIO MORUM, la OBOEDIENTIA. A questo capitolo corrispondono RM.87-88 e 89-90, molto lunghi, con tutti i dialoghi tra postulante e abate e le esortazioni di quest'ultimo, soprattutto il c.90, in cui quasi tutti i 95 versetti (!) sono occupati da un'omelia dell'abate. SB ha modificato molte cose, ha abbreviato moltissimo, ha soppresso la distinzione tra i postulanti iam conversi <gia` conversi, cioe` coloro che vivevano nel mondo alla maniera dei monaci con una vita penitente, semplice e nel celibato) e i postulanti ancora laici.

1-4: L'ingresso

Non bisogna essere facili all'accettazione: la sincerita` e la solidita` di una vocazione devono essere provate, come suggerisce l'Apostolo (che in questo caso non e` S.Paolo, ma S.Giovanni, 1Giov.4,1; il testo si riferisce direttamente ai falsi profeti). Al v.1 per "vita monastica" c'e` il termine "conversatio" che e` termine tecnico: per il senso preciso, vedi piu` avanti (commento al v.17). Il nuovo venuto, dunque, comincia a trovare difficolta` davanti alla porta. SB pero` e` piu` discreto: i "pochi giorni" di cui parla Pacopmio (Reg,49) e che erano diventati "una settimana" secondo la Reg.IV.Patrum 2,25 e "dieci giorni" secondo Cassiano (Inst.4,3), diventano quattro o cinque giorni (v.3). Non e` verosimile che in tali giorni restasse sempre all'aperto e allo scoperto, forse veniva ricoverato presso la "cella" del portinaio. Dopo una prima fase davanti alla porta, un'altra breve fase nella foresteria (v.4).

5-16: Il noviziato

Comincia quindi un periodo di prova piu` definito e specifico, che si svolge in un locale apposito, cella novitiorum <noviziato> per un anno intero, sotto la guida di un "anziano" (che col tempo si chiamera` maestro dei novizi): tutte queste cose sono innovazioni proprie di SB. Nel locale a parte, i novizi passano tutto il tempo libero dall'Ufficio divino e dal lavoro: li` mangiano, dormono e "meditano": un termine tecnico, quest'ultimo, che comprende sia la lectio divina, sia l'imparare a memoria i testi (la "exercitatio"), l'apprendere, quindi tutto il lavoro di studio e di formazione (vedi commento a RB.48,23 e nell'Excursus sulla lectio divina).

6: ... un anziano capace di guadagnare le anime

L'espressione di questo v.6 e` di origine biblica (Mt.18,15; 1Cor.9,20) e richiama un passo analogo della "Vita Pachomii",25. Il metodo da seguirsi nel noviziato consta di due parti: da un lato il candidato stesso deve verificare (e il maestro deve osservare questo) se e` disposto a cercare Dio attraverso un cammino spirituale specifico; dall'altro il maestro gli deve porre davanti le difficolta` che tale cammino comporta.

7-8: Punti fondamentali di verifica

I vv.7-8 sono molto importanti: abbiamo alcune linee fondamentali della vita monastica.

- Si revera Deum quaerit <se veramente cerca Dio>: e` colta qui tutta l'essenza e il programma della vita monastica. Si viene al monastero non per uno scopo particolare o per una missione specifica di bene (predicazione, insegnamento, ecc...), ma solo per la ricerca di Dio: e` un atteggiamento generale di fondo, un'attitudine religiosa essenziale. Per i monaci, l'assidua ricerca di Dio, dopo che essi sono stati cercati da Lui (cf.Prol.14), diventa la loro ultima ragion d'essere. L'espressione ha moltissime sfumature nella letteratura biblica, ellenistica e patristica. Vedi, per citare alcune opere: G.Turbessi, Quaerere Deum. Il tema della ricerca di Dio nella S.Scrittura, Rivista Biblica (1962) 282-296; G.Turbessi, Cercare Dio, Ed.Studium, Roma 1980; E. De Sainte-Marie, Si revera Deum quaerit, Vita Monastica 10 (1956) 173-177.

- Se e` pronto all'Opus Dei, all'obbedienza, alle umiliazioni: tre esplicitazioni della sincera ricerca di Dio che il novizio deve verificare; il maestro, poi, dovra` non nascondere le difficolta` del cammino: omnia dura et aspera per quae itur ad Deum <tutte le difficolta` e le asprezze attraverso le quali si va a Dio> (v.8): anche questa frase e` rimasta proverbiale e programmatica nell'iter di formazione del monaco.

SB divide l'anno di noviziato in tre periodi disuguali: primi due mesi (v.9), i successivi sei mesi (v.12), gli ultimi quattro mesi (v.13). Alla fine di ciascun periodo si legge al novizio l'intera Regola, "perche` conosca bene che cosa affronta entrando" (v.12). Oggi si usa leggere la Regola durante tutto il noviziato, accompagnata dalla spiegazione particolareggiata del maestro; gli antichi, anzi, raccomandavano di impararla a memoria, e l'uso e` rimasto presso alcuni monasteri. Cosi` il novizio va maturando la sua esperienza "in ogni pazienza" (v.11), ascolta la triplice lettura della Regola (vv.9.12.13), delibera (v.14) di osservare tutte le prescrizioni della vita comune, della legge sotto la quale intende militare (v.10). Allora, al termine del noviziato, lo si ritiene degno di essere aggregato alla comunita` monastica (vv.14-16).

17-29: La professione monastica

Il suscipiendus <colui che deve essere ammesso> (v.17) fara` ufficialmente professione di vita monastica. Al tempo di SB e per molti secoli non esisteva che una unica professione. La Chiesa e` intervenuta, per vari motivi, ad obbligare un periodo di voti temporanei, della durata di almeno tre anni. Quanto e` ordinato e descritto qui da SB vale oggi pienamente solo della professione "solenne", che si usa chiamare anche consacrazione monastica.

17: Contenuto della professione

SB fa promettere al candidato tre cose, che impropriamente furono definiti "i tre voti monastici". In realta` SB non intende qui stabilire tre voti distinti, ma solo indicare l'oggetto della promessa del monaco. Nei pacomiani non si parla mai di voti, anche se c'era la pratica dei consigli evangelici; Basilio parla di consacrazione al Signore fatta per voto (Reg.14), ma non menziona "voti" espliciti. Certamente la disposizione di SB ha avuto il merito di polarizzare la pratica dei voti monastici (castita` e poverta` erano inclusi nel fatto stesso di farsi monaco, nella "conversatio") ed ha influito sulla organizzazione posteriore della vita religiosa. E passiamo al contenuto. Il novizio promette: "de stabilitate sua et conversatione morum suorum et oboedientia" <stabilita`, conversione dei costumi, obbedienza>.

Stabilitas

Che cosa e` veramente la "stabilita`"? Senza dubbio e` anzitutto la perseveranza (cf.v.9), cioe` stabilita`, costanza, fermezza, permanenza in uno stato determinato. La cosa e` piu` complicata (e controversa) quando si vuol determinare con precisione l'oggetto della perseveranza. Tenendo presente il contesto, risulta abbastanza chiaro che si tratta di perseverare nel monastero come monaco sotto la Regola che si accetta di professare, praticamente e` il "compromettersi totalmente nella vita monastica", perseverando fino alla morte, in una comunita`, in una permanenza abituale nei recinti del monastero, con l'accettazione della vita comune e l'osservanza regolare. Ricordiamo la finale del Prologo: "perseverando nel monastero fino alla morte, parteciperanno con la pazienza ai patimenti di Cristo" (Prol.50). Ricordiamo ancora il 4.to grado di umilta`: "conservare la pazienza... chi perseverera` sino alla fine..." (RB.7,36). Ricordiamo ancora la finale del c.4: "... stabilitas in congregatione" <la stabilita` nei recinti del monastero>, che e` l'"officina" dove si adoperano gli strumenti dell'arte spirituale (RB.4,78). Contro il disordine dei monaci girovaghi (RB.1,10-11), contro la "in-stabilitas" lamentata da Cassiano (Inst.7,9), SB vuole come una delle sue caratteristiche una stabilita` di luogo e di famiglia che aiuta a superare la instabilita` del cuore.

Il concetto di stabilita` ha oggi un significato piu` allargato, secondo le diverse Congregazioni monastiche, e ammette delle eccezioni anche dove si e` legati ad un singolo monastero. Rimane comunque il senso primordiale e fondamentale della perseveranza, con la pazienza, sull'esempio di Cristo: "In ultima analisi, promettere la stabilita` e` compromettersi nel partecipare alla pazienza, nella obbedienza, nella perseveranza di Cristo che furono totali, assolute, senza limiti..." (J.Leclerq). "E` l'incarnazione, la cristallizzazione di un'attitudine, e di un'attitudine puramente spirituale...; la vita religiosa e` un compromettersi per tutta la vita...; si entra in uno stato cristiforme...; si rimane in monastero perche` si rimane in Cristo" (H.U.Von Balthasar).

La conversatio morum

Prima si leggeva conversio monastica, cioe` il novizio prometteva di cambiar vita, lasciare i costumi del mondo per acquistare quelli di un vero monaco. I recenti studi critici fanno ritenere genuina la lezione conversatio, piuttosto che conversio. Il termine "conversatio" puo` derivare dall'intransitivo "conversari" e significa: modo, tenore di vita, condotta; oppure dal transitivo "conversare", da "convertere", nel senso di rivoltare, rigirare, e allora equivale a "conversio", sia in senso proprio che figurato. Come termine specifico monastico puo` quindi significare, oltre il semplice "modo di vivere", anche l'entrata, la dimora in monastero, l'appartenenza allo stato monastico, oppure, in senso piu` limitato, la vita ascetica nello stato monastico; infine, come equivalente di "conversio", significa la conversione, il mutamento di vita. Nella RB queste sfumature ci sono; nei passi in cui appare il termine, puo` valere in genere "vita monastica": Prol.49; RB.1.3; 1,12; 2,18; 21,1; 22,2; 58,1; 63,1; 63,7; 73,1-2. Pero` qui, in RB.58,17, l'aggiunta morum suorum <dei propri costumi> crea difficolta`.

Secondo Steidle, la "conversatio" designa qui ugualmente la vita monastica stessa (secondo un gran numero di testi antichi) e "morum suorum" non e` che un "genitivo di ridondanza", cioe` una forma letteraria in cui nome e genitivo non sono realta` diverse, ma due sinonimi che si rafforzano reciprocamente. Il novizio cosi` promette di osservare quella "conversatio" che aveva voluto abbracciare bussando la prima volta alla porta del monastero (v.1). D'altronde la Mohrman ha dimostrato egregiamente lo scambio avvenuto tra i due termini e l'uso di "conversatio" anche nel significato di "conversio". Tra "conversione dei costumi" come condotta virtuosa, oppure come stile di vita, applicati ambedue all'esistenza del monaco, non c'e` dunque grande differenza, ma vogliono in fondo significare la medesima cosa. Potremmo vedere nel termine due prospettive secondo le due etimologie: la prima indicherebbe l'aspetto statico (cioe` uno "stile" da monaci secondo la Regola); l'altra indicherebbe l'aspetto dinamico (la promessa di andare dal male verso il bene, e dal bene verso il meglio, l'impegno nel continuo superamento, nel rifiuto di fermarsi o di stagnarsi nella "corsa spirituale").

Ricapitolando, all'origine del termine c'e` l'idea del genere di vita, la vita in comune, la maniera di vivere ("conversari"); ma questa maniera di vivere suppone e implica un cambiamento della condotta ("conversare", da cui "convertere"), per cui il monaco e` cosciente sempre di dover tendere ad perfectionem conversationis. Cosi` "conversatio morum" non indica solamente il passaggio dal mondo alla vita monastica, ma la vita monastica stessa in ogni momento della sua tensione dinamica (e include e trascende i tre voti di poverta`, castita` e obbedienza). La vita monastica deve essere una corsa continua, un progresso nella "conversatio" e nella fede, come dice Prol.49; la "conversatio morum" assicura l'"allargamento del cuore" <il "dilatato corde"> di cui parla ancora Prol.49: per correre nella ineffabile dolcezza dell'amore di Cristo (cf.RB.7,68-70 con Prol.49), nel cammino del ritorno verso il Padre (Prol.2).

La Oboedientia

Dei tre voti essenziali ad ogni stato religioso e gia` inclusi nella precedente "conversatio", e` espressamente nominata l'obbedienza, perche` e` il dono piu` elevato, perche` indispensabile alla interna organizzazione del cenobio, perche` per SB e` la cosa piu` importante; praticamente ne ha parafrasato la materia nei vv.14-16. Il novizio allora, al termine di un anno di prova e di matura riflessione, promette solennemente di perseverare nel recinto del monastero e nella comunita`, a cui da allora in poi appartiene (stabilitas), in un costante progresso nelle virtu` monastiche (conversatio) e nella docilita` ai precetti della Regola e ai comandi dell'abate (oboedientia). Oggi la professione si emette "secondo la Regola di S.Benedetto e le Costituzioni della Congregazione ... " cui si appartiene, perche` le Dichiarazioni e le Costituzioni approvate dalla S.Sede integrano e interpretano la Regola secondo le particolari esigenze di tempo e di luogo e le tradizioni proprie di ciascuna Congregazione.

17-29: Rito della professione

Dopo la riflessione sopra il contenuto della professione monastica, esaminiamone brevemente il rito come descritto da SB. Il novizio fara` la sua professione davanti a tutti (v.17) e soprattutto davanti a Dio e ai suoi Santi (v.18). Deve redigere un documento giuridico, la "petitio" <oggi diciamo "la carta di professione"> scritta possibilmente di suo pugno, da lui firmata e che poi egli stesso portera` sull'altare (vv.19-20). Benche` la Regola non lo dica espressamente,, da questo e da altri indizi (soprattutto da RB.59,2 e 8 in cui si dice di unire la "petitio" alla "oblatio", cioe` il pane e il vino per l'Eucarestia), si deduce che la professione avveniva durante la Messa, al momento della presentazione dei doni: la tradizione benedettina e` unanime su questo punto. In tal modo la professione monastica acquista la sua dimensione teologica piena: nel contesto eucaristico viene espresso pienamente il dono di se stesso che il monaco fa a Cristo e in unione al sacrificio di Cristo.

Dopo la deposizione del documento sull'altare vicino alle offerte, il triplice canto del Suscipe (salmo 118,116) intonato dal novizio e ripetuto dalla comunita` intera (vv.21-22), e` molto significativo: Accoglimi, Signore, secondo la tua parola..., canta il monaco al momento supremo della sua consacrazione a Dio, in risposta alla chiamata che il Signore gli ha diretto (cf.Prol.14-20). Non c'e` monaco che non senta riempirsi l'anima di commozione e di dolcezza al ricordo del suo "Suscipe". La rubrica seguente (v.23) contiene ugualmente un significato profondo: il neo professo si prostra ai piedi dei fratelli chiedendo preghiere; quanto piu` arduo e` il cammino, tanto piu` c'e` bisogno della Grazia, e la preghiera fraterna costituisce il primo aiuto che riceve dalla comunita` di cui ormai fa parte. Nei vv.24-25 si parla della disappropriazione che deve essere fatta o distribuendo i beni ai poveri (prima della professione) o cedendoli al monastero con una donazione legale, dato che "da quel giorno non sara` piu` padrone nemmeno del proprio corpo" (v.25).

Poi si parla della "vestizione" in maniera alquanto sorprendente e diversa da come aspetteremmo noi oggi e anche da quanto appare in Cassiano e in RM. SB non parla di "abito monastico" (l'espressione non appare mai nella Regola), ma solo che "sia svestito dei propri abiti e rivestito con quelli del monastero" (v.26): e` solo un segno e una conseguenza della totale disappropriazione; a lui non resta di proprio assolutamente nulla, neanche i vestiti con cui giunse al monastero; SB insomma non da` importanza all'abito monastico (vedi a questo proposito quanto detto nel commento a RB.55). Il capitolo si conclude alludendo al caso di abbandono e, incidentalmente, sappiamo che l'abate prende dall'altare la "petitio" e la fa conservare nel monastero per sempre, anche nel caso di infedelta` del monaco. Tale prescrizione ha un senso giuridico ed economico: siccome nella petitio era inserita la "donatio" dei beni, la carta non veniva restituita per evitare reclami da parte dell'uscito.


CAPITOLO 59

I figli dei ricchi o dei poveri che vengono offerti

De filiis nobilium aut pauperum qui offeruntur

Introduzione: grosso problema alla nostra mentalita` di oggi

Il capitolo risulta incomprensibile, se prescindiamo dal contesto storico in cui e` nato. Alla nostra mentalita` sembra assurdo, anzi inumano e crudele, che si possa decidere cosi` della sorte di una creatura umana prima che questa sia in grado di compiere responsabilmente un certo passo. Il c.59 della RB e` sembrato tanto duro che si e` cercato di attenuarlo dicendo che il fanciullo, una volta giunto all'eta` della discrezione, poteva ratificare la sua oblazione monastica, oppure ritornare nel mondo (che in certi casi conosceva appena). Ma questa tesi non e` sostenibile. Nella tradizione orientale sappiamo da S.Basilio (Reg.7) che nell'oblazione dei fanciulli erano sempre richiesti i testimoni e che inoltre essi non facevano promessa di verginita`; quindi la loro donazione non era definitiva. In occidente invece c'erano varie correnti: da quella che richiedeva il loro assenso (ad esempio in S.Leone Magno), fino a quella che riteneva perpetuo e irrevocabile il vincolo dell'oblazione fatta dai genitori. A meta` del sec.VI si nota una presa di posizione a favore dell'irrevocabilita`; nel IV Concilio di Lione (633) si stabili` il principio poi divenuto classico in occidente: "Monachum aut paterna devotio aut propria professio facit" <si diventa monaci o per la devozione del padrfe o per la propria professione>. Mentre l'oriente quindi resto` fedele in genere al principio di Basilio secondo cui la promessa di verginita` non puo` essere che un atto libero e personale, l'occidente ando` nella direzione opposta: "si e` sacrificata la libera scelta della verginita` a una nozione troppo materiale della consacrazione unita ai diritti dell'autorita` paterna" (DeVogue`).

RB sembra addirittura in anticipo sui tempi, nello stabilire con tanta chiarezza la prassi dell'oblazione dei fanciulli. E` inutile cercare attenuazioni: niente fa supporre che SB prevede una ratifica cosciente e libera della involontaria consacrazione fatta da piccoli; anzi, le precauzioni riguardo ai beni sono proprio per scoraggiare eventuali tentazioni di uscire dal monastero. Il paragone tra il c.58 e il c.59 fa vedere una reale corrispondenza tra la professione degli adulti e l'oblazione dei fanciulli, e che quindi l'oblazione fatta dai genitori obbligava in perpetuo l'oblato alla vita monastica. Cio` del resto e` confermato da altri passi della RB: i ragazzi appaiono sempre come veri monaci (e non come una categoria a parte) e vengono trattati come gli altri tenendo conto naturalmente della loro eta` debolezza (cf.RB.22,7; 30; 37; 45,3; 70,4-5; ecc.). L'unica ragione della incredibile durezza di questo capitolo e` la mentalita` dell'epoca, mentalita` che oggi non possiamo accettare. Per la validita` della professione, la Chiesa prescrive oggi almeno 18 anni di eta`, piena consapevolezza e liberta`, mancanza assoluta di ogni tipo di violenza, timore grave o inganno (CIC.656). Una volta non era cosi`, e SB si e` adattato alla mentalita` dell'epoca in ambiente occidentale. D'altra parte, per aiutarci a comprendere, e` noto che in alcuni popoli, ancor oggi, i matrimoni dei figli vengono arrangiati dai genitori fin da quando i figli stessi sono in tenera eta`! E oggi c'e` anche chi protesta, in nome della liberta` e dell'autodecisione, contro il battesimo dei bambini!

1-8: Oblazione dei fanciulli

SB distingue tra i figli dei nobili (vv.1-6), quelli dei meno ricchi (v.7) e quelli dei poveri (v.8). In tutti i casi, i genitori, offrendo i loro figli in tenera eta`, scrivevano la "petitio" e la avvolgevano nella tovaglia dell'altare insieme alla mano del piccolo (vv.1-2.8): "il fanciullo - e` stato detto con ragione - e` offerto passivamente con il pane e il vino. Non lo si tratta come persona, ma come oggetto" (DeVogue`).

Dove SB appare alla mentalita` odierna di una insensibilita` sconcertante per la liberta` umana, e` nelle prescrizioni relative alla disappropriazione del fanciullo, prescrizioni di carattere giuridico che occupano quasi tutto il testo del capitolo (vv.3-6). I padri dei piu` ricchi e dei meno ricchi potranno fare qualche donazione al monastero, ma si obbligheranno formalmente a non lasciare nulla ai figli, ne` per il presente ne` per l'avvenire. In questa assoluta e definitiva carenza di beni materiali, la RB vedeva una garanzia di perseveranza per l'oblato (v.6).

Evoluzione del termine "oblato"

Quindi per molti secoli quasi tutti i monasteri ebbero i "monaci oblati", cioe` offerti da piccoli e cresciuti nel cenobio; molti di essi divennero illustri per fama e santita`: S.Beda il Venerabile, S.Bonifacio apostolo della Germania, Santa Geltrude la Grande, ecc. Coloro invece che entravano da grandi nel monastero, si chiamavano conversi (non nel senso che il termine assunse poi, a partire dal sec .XI per distinguerli dai "chierici").

Fin dai piu` remoti secoli benedettini, accanto agli oblati, si trovavano nei monasteri i fanciulli che ricevevano la loro istruzione letteraria e la loro educazione morale. E` la gloriosa tradizione delle scuole monastiche che, insieme a quelle episcopali, tennero alto nel medioevo il culto del sapere e delle arti. OGGI, con il nome di "oblati", si intendono due categorie di persone: "oblati regolari" o "claustrali" (cioe` coloro che, senza essere monaci, vivono volontariamente in monastero per motivi spirituali) e "oblati secolari" (cioe` coloro che, sia sacerdoti che laici, uomini e donne, vivono nel mondo ispirando la propria vita cristiana alle norme e alla spiritualita` benedettina).

CAPITOLO 60

I sacerdoti che volessero eventualmente entrare in monastero

De sacerdotibus qui forte voluerint in monasterio habitare

1-9: Sacerdoti e chierici che domandano di diventare monaci

SB passa a un'altra classe di candidati: sacerdoti e chierici ("de ordine sacerdotali" del v.1 comprende vescovi, sacerdoti e diaconi; i "clerici" del v.8 sono invece i chierici di grado inferiore). L'espressione del titolo in monasterio habitare non significa starvi per qualche tempo, ma ha il senso di "incorporazione alla comunita` monastica, cioe` diventare monaci. Per capire bene questo capitolo, bisogna vederlo alla luce della storia e della tradizione benedettina. Nel piu` antico cenobitismo, mentre si prestava al sacerdozio ogni segno di rispetto, si nutriva anche una certa diffidenza, o almeno si usava molta cautela per l'ammissione di sacerdoti allo stato monastico, a causa dei problemi che la sua dignita` poteva creare col superiore e coi fratelli, specialmente per il fatto che tutti, abate compreso, erano in genere laici. Cosi` si spiega perche` i casi di tali passaggi fossero abbastanza rari, come potrebbe dedursi anche dalla parola forte <eventualmente> nel titolo.

La RM (c.83) ammette i sacerdoti solo come ospiti e pellegrini (non come monaci) e li obbliga a lavorare; dei chierici non parla affatto. SB e` piu` aperto: sa che la presenza di sacerdoti e chierici puo` causare problemi, ma li ammette come veri monaci, sia pure con cautela per evitare inconveniente. RB ordina quindi di non riceverli troppo presto (v.1), ma solo se insistono omnino <assolutamente> nella domanda (v.2), facendo loro capire subito che il carattere sacro non comporta alcuna mitigazione nell'osservanza della Regola (vv.2-3). L'espressione "Amice, ad quid venisti?" la rivolse Gesu` a Giuda nell'atto del tradimento (Mt.26,50). SB la cita senza il carattere di amarezza e di rimprovero che ha nel Vangelo, ma solo per ricordare al sacerdote che e` venuto di sua spontanea volonta` in monastero. Anche S.Arsenio nel deserto si domandava spesso: "Propter quid venisti?" <perche` seri venuto?>. E` noto l'uso efficace che di questa frase fece S.Bernardo per ammonire se stesso ripetendo: "Bernarde, ad quid venisti?". Cosi` i sacerdoti sono equiparati a tutti gli altri fratelli nel tenore di vita. Non e` detto pero` che bevono essere provati per un anno intero, come stabilito nel c.58; comunque dovevano fare una promessa formale (cioe` la professione) di osservare la Regola e di perseverare nel monastero, come si deduce dal confronto con il v.9: "anche questi...".

Per onorare il sacerdozio, l'abate potra` loro concedere alcuni privilegi. Al v.4 "missas tenere" e` discutibile se significhi "celebrare la messa", oppure "dire le orazioni finali" <"missas"> dell'Ufficio divino. Allora il senso generale del versetto sarebbe che il sacerdote occupa il secondo posto, subito dopo l'abate e, in assenza di questi, compie l'ufficio di benedire e di recitare le formule finali. Pero` questo non deve essere causa di presunzione, ma anzi "dia a tutti esempio di umilta`" (v.5) e quando si tratta di decisioni nella comunita` o di nomine, deve stare al posto che gli compete secondo la professione monastica (vv.6-7) come tutti gli altri (cf.RB.63). Lo stesso dicasi per i chierici di grado inferiore, solo che, invece del primo posto subito dopo l'abate, vengono messi in un luogo intermedio, cioe` si ha per loro un certo riguardo (vv.8-9).

 

CAPITOLO 61

Come debbono accogliersi i monaci pellegrini

De monachis peregrinis qualiter suscipiantur

Monaci pellegrini

Questo capitolo presenta un'ultima categoria di candidati: i monaci venuti da fuori. La parola "pellegrini", suscettibile di varie interpretazioni, qui significa soprattutto "monaci stranieri, forestieri" (non monaci sarabaiti e girovaghi tanto detestati da SB, cf.RB.1,6-11). RB.61 dice semplicemente: "monaco proveniente da paesi lontani" (v.1), non si specifica il motivo del viaggio, ne` la categoria a cui il monaco appartiene.

1-4: Il monaco pellegrino ricevuto come ospite

A differenza del sacerdote o chierico del capitolo precedente, il monaco pellegrino non intende entrare a far parte della comunita`, ma solo essere accolto in foresteria come ospite. Per SB non c'e` nessun problema: sia accolto "per tutto il tempo che vuole", purche` abbia due atteggiamenti fondamentali: si accontenti di quello che trova e non turbi la pace della famiglia monastica con pretese, critiche, pettegolezzi, ecc. (vv.1-3). Questo non esclude che egli possa fare delle giuste osservazioni "con motivi validi e con umile carita`" (v.4). Pieno di spirito di fede, SB suggerisce all'abate che forse il Signore ha inviato il monaco forestiero "proprio per tale motivo" (v.4): c'e` sempre da correggere e da migliorare e la volonta` del Signore si puo` manifestare attraverso un ospite, come attraverso le osservazioni dei fratelli piu` giovani (SB lo ha gia` detto in RB.3,3).

5-10: Aggregazione del monaco ospite alla comunita`

Se il monaco forestiero si trova bene nel monastero che lo ospita, potra` in seguito chiedere di essere ammesso nella comunita`: dato che si e` potuto conoscere la sua condotta, ci si regoli di conseguenza. SB e` preoccupato soprattutto del profitto spirituale dei suoi monaci; l'ospite puo` contagiare la comunita` con i suoi vizi, come puo` edificarla con la sua virtu`: nel primo caso gli si dica "con urbanita`" - non con insulti e violenza - di andar via; nel secondo caso non solo lo si accolga in comunita`, se lo chiede, ma anzi sia invitato a entrarvi perche` gli altri ne abbiano edificazione e perche` "in ogni luogo si serve un solo Signore e si milita sotto un unico Re" <in omni loco uni Domino servitur, uni Regi militatur>: la bella sentenza era forse comune nell'uso cristiano.

11-14: Due osservazioni

Il capitolo si chiude con due osservazioni. L'abate avra` l'autorita` di assegnare al nuovo fratello un posto piu` elevato, se lo ritiene degno (v.11); e lo stesso potra` fare per i sacerdoti e i chierici (v.12) di cui ha parlato al capitolo precedente. Si noti che non si tratta di una ripetizione, perche` prima aveva previsto la promozione per onorare il sacerdozio (RB.60,4.8), mentre qui vuole onorare la virtu` personale. La seconda osservazione e` ispirata al desiderio di conservare la pace tra i monasteri vicini; quindi per accogliere un monaco di un monastero noto sara` necessaria l'autorizzazione del suo abate e le "lettere commendatizie". Cosi` prescrivevano vari Concili e le regole monastiche del sec.V e VI.

Il c.61 ci appare cosi` una pagina di discrezione veramente soprannaturale: accoglie il monaco forestiero, ma accetta le eventuali osservazioni come provenienti dal Signore, si preoccupa dell'avanzamento spirituale della comunita` per cui, in caso di un ospite virtuoso, insiste per farlo rimanere, in modo da costituire uno sprone per gli altri: ma con prudenza e delicatezza, senza far torto a un monastero vicino. Ancora una volta SB ci appare non un legislatore minuzioso e legalista, ma un uomo spirituale e sollecito pastore di anime.

 

CAPITOLO 62

I sacerdoti del monastero

De sacerdotibus monasterii

Preliminari:

Per associazione, si parla qui dei sacerdoti del monastero, cioe` dei fratelli che nel monastero vengono elevati al sacerdozio (non gia` dei sacerdoti che chiedono di diventare monaci, come nel c.60): la loro posizione di privilegio si aggiunge a quella contemplata nei cc.60-61. RB.62 non ha un parallelo nella RM, la quale non prevede l'elevazione dei monaci al sacerdozio, anche se prevede la comunione giornaliera. Per la Messa si andava alla chiesa del villaggio, come del resto facevano gli antichi monaci ed eremiti (ma talvolta gli eremiti si ritenevano dispensati dalla partecipazione esterna al culto. Pensiamo a SB che, eremita, a Subiaco, ignorava che fosse il giorno di Pasqua: II.Dial.1). S.Pacomio ed altri preferivano chiamare nei loro cenobi qualche sacerdote per celebrare i sacri riti.

Monachesimo e sacerdozio

Tutto cio` manifesta la posizione generale, se non unanime, del monachesimo antico riguardo al sacerdozio. Gli anacoreti copti si mostravano restii all'ordinazione; i pacomiani la rifiutavano in assoluto; in Sitia i migliori monaci si opponevano a che i vescovi imponessero loro le mani. Sacerdozio e monachesimo sono realta` distinte: uno e` per il servizio ministeriale del popolo di Dio attraverso la Parola e i Sacramenti, l'altro e` per lo sforzo di realizzare nella solitudine la perfezione dell'unione con Cristo. Desiderare il sacerdozio per i monaci antichi era segno di superbia; i monaci avevano paura del sacerdozio; sacerdozio e orgoglio vanagloria sono termini spesso associati nei loro scritti (per esempio Cassiano, Inst.11,14-18; Coll.4,20; 5,12). Avevano paura che a motivo del sacerdozio dovessero lasciare la loro vita isolata per il ministero: "il monaco deve fuggire allo stesso modo i vescovi e le donne", secondo il celebre detto di Cassiano (Inst.11,18).

L'ordinazione di alcuni monaci per il servizio della comunita` poteva dare origine a dispute, invidie, divisioni, problemi di autorita` e di precedenza. Era un rischio. In questo contesto si comprende il c.62 di SB. Oggi, evidentemente, la situazione e la mentalita` sono mutate, la teologia ha aperto una nuova visione. Oggi sarebbe a dir poco ridicolo accettare con la odierna mentalita` l'espressione di Cassiano cosi` come suona...; ma non e` che Cassiano avesse torto: se anche noi oggi avessimo, del "vescovo e della donna", l'immagine pratica ed esterna che queste categorie immediatamente evocavano, non c'e` dubbio che dovremmo avere la stessa reazione. La realta` spirituale (la teologia) e` la stessa, l'immagine e la situazione esterna e contingente sono mutate. Ma anche oggi, del resto, non mancano aspetti di conflitto esteriore tra "vescovi e gerarchia" e religiosi; non per nulla e` stato necessario il documento pontificio "Mutuae Relationes"...

1: Elevazione di un monaco al sacerdozio

SB con tutto il monachesimo di allora dimostra una certa sfiducia di dover avere dei sacerdoti in monastero (appare abbastanza chiaro da questo capitolo e dal c.60), ma preferisce correre questo rischio per il vantaggio di avere in casa un sacerdote per la liturgia monastica. Tanto l'iniziativa che la scelta della persona spettano all'abate, il quale dovra` vedere chi sia degno, cioe` un monaco sensato, maturo e di "santa conversazione". Sacerdotio fungi <"esercitare l'ufficio sacerdotale", in senso largo: sacerdote e diacono) e` frase biblica da Sir.45,19.

2-7: Posizione e obblighi dell'ordinato

"Honores mutant mores", dice un proverbio: "Gli onori cambiano i costumi". Una volta elevato alla dignita` sacerdotale, il monaco che ne era degno (v.1) puo` cessare di esserlo e lasciarsi prendere dallo spirito di alterigia e di superbia (v.2).

SB gli ricorda l'obbligo di sottomissione alla Regola e all'abate; anzi, gli ricorda che si deve sentire piu` obbligato degli altri alla disciplina regolare e sforzarsi di "avanzare sempre piu` nel Signore" <"magis ac magis in Deum proficiat", v.4>. La frase riecheggia S.Cipriano, Epist.13,16. Insomma, "noblesse oblige", la nobilta` impone dei doveri! Il monaco ordinato sacerdote o diacono conservera` il suo posto in comunita` (v.5), anche se potra` essere trattato con piu` riguardo ed avanzare grado (come gia` previsto per i sacerdoti secolari che si fanno monaci: RB.60,4.8 e per i monaci forestieri: RB.61,11-12).

8-11: Penalita` per il sacerdote indegno

La finale del capitolo e` nello stesso tempo molto triste ed energica. Se il sacerdote cessa per la sua cattiva condotta di essere monaco, non lo si riterra` piu` neanche sacerdote, ma ribelle (v.8). Certo, lo si riprendera` piu` volte, "saepe monitus, chiamando a testimoniare anche il vescovo che lo ha ordinato (questo corrisponderebbe all'ammonizione pubblica di RB.23,3). In seguito si puo` arrivare addirittura all'espulsione dal monastero (v.10), ma naturalmente solo in casi estremi (v.11).E` presumibile che le disposizioni dei vv.7-11 si applicassero anche ai monaci che erano gia` sacerdoti prima di entrare in monastero (RB.60); ma il pericolo dell'insubordinazione sara` stato piu` facile - e forse SB lo apprese dall'esperienza - in coloro che, prima semplici monaci, si vedevano poi elevati alla dignita` sacerdotale o diaconale e preferiti ad altri loro fratelli.

Conclusione del capitolo

Concludendo, la RB "non considera il sacerdozio dei monaci che in due casi: quando vengono alla vita monastica gia` rivestiti del sacerdozio e quando si fa sentire la necessita` della presenza di un sacerdote nella comunita`, per assicurare il servizio dell'altare. In altre parole, il sacerdozio non e` stato previsto se non nei casi di vera necessita`. Il monaco sacerdote, lungi dall'essere un ideale, e` concepito come una pericolosa, benche` inevitabile, anomalia, i cui inconvenienti si cerca di ridurre con severi avvertimenti" (DeVogue`). Sono parole un po` forti, ma storicamente vere. Sappiamo che nel corso dei secoli, il numero dei monaci sacerdoti e` aumentato, il che ha cambiato la prospettiva della Regola (e tutta la visuale di questo capitolo), che e` quella di una comunita` laicale. Negli ultimi tempi, in alcuni luoghi, si notano dei movimenti di ritorno (almeno come ipotesi) ad un monachesimo laicale.

Conclusione di tutta la sezione

Come conclusione di tutta la sezione "Aggregazione dei nuovi membri" (RB.cc.58-61+62), riassumiamo quanto segue da: Lentini, pp.568-569. Riepilogando, SB ha distinto nella comunita` queste categorie:

1). monaci venuti come postulanti da adulti (c.58);

2). monaci offerti da fanciulli (oblati) (c.59);

3). monaci venuti gia` sacerdoti o chierici (c.60);

4). monaci venuti da altri monasteri (c.61);

5). monaci elevati al sacerdozio (c.62).

Origine dei "Fratelli Conversi"

I fanciulli naturalmente avevano piu` tempo e possibilita` di essere curati e istruiti; difatti, quando aumentarono i monaci elevati agli ordini sacri, furono presi soprattutto dagli "oblati", appunto per la loro preparazione. Percio` il termine "conversus", che designava il monaco entrato da adulto, comincio` a significare anche monaco illetterato. Nel sec.XI, quando ci furono tante vocazioni di uomini semplici e illetterati, S.Giovanni Gualberto in Italia, e altri fuori d'Italia, li accolsero assegnando loro i lavori manuali e preghiere semplici; essi facevano la professione, erano quindi monaci, ma non passavano mai nella categoria dei monaci sacerdoti e facevano vita a parte: refettorio e dormitorio separati, non partecipavano ai capitoli, portavano la barba (percio` erano detti anche "barbuti") e un abito speciale. Cosi` ebbero origine i "fratelli conversi", nel senso che hanno avuto fino a pochi anni fa. Essi si svilupparono tra cluniacensi e cisterciensi e poi dappertutto, anche nelle comunita` femminili. Oggi si e` tornati alla costituzione delle comunita` con una unica categoria di monaci, sacerdoti e non, con uguali diritti e doveri, salvo quelli connessi col carattere sacerdotale (PC.15).




SEZIONE sulle RELAZIONI FRATERNE

RB. 63; 69-72

Preliminari

Quest'ultima sezione della Regola che esaminiamo non rivela in SB il desiderio di imprimere un orientamento particolare alla vita della sua comunita`. Parliamo dei cc.69-72 aggiunti in secondo tempo da SB (dal c.67 in poi) e che sono originali suoi (non hanno alcun parallelo nella RM); nella stessa sezione parliamo del c.63, che tratta dell'ordine di precedenza nel monastero, ma la seconda parte presenta analogie nel tono e nel linguaggio con il c.72 (anche del c.63 non abbiamo un vero parallelo nella RM).

Le "relazioni orizzontali" - diciamo cosi`, anche se l'espressione e` troppo moderna - acquistano in RB.63 e 69-72 un'importanza di primi piano: si nota un'atmosfera piu` umana, la cura di rispettare le diverse personalita` dei fratelli, una squisita carita`, che modifica in un certo senso e arricchisce sostanzialmente la concezione della vita spirituale quale appare nella prima sezione (cc.1-7) del codice benedettino.

In RB.63,10-17 e RB.69-72 si insiste dunque di continuo sulla carita`, sotto il doppio aspetto di amore di Dio e amore del prossimo. Questi testi riecheggiano soprattutto la dottrina di Basilio e di Agostino, indiscutibili maestri della carita` fraterna fra i cenobiti. Ma dobbiamo citare anche Cassiano; egli che nelle Institutiones parla del monastero come di una scuola in cui contano soprattutto - se non esclusivamente - le "relazioni verticali", cioe` tra maestro e discepolo, tra monaco e abate, nella Coll.16 sulla "amicizia spirituale" da` alla carita` fraterna tanta importanza e giustifica le virtu` cenobitiche non solo in rapporto al profitto spirituale del monaco, ma anche in rapporto alla pace e all'amore tra i fratelli. "Passare dalle Institutiones alla Coll.16 di Cassiano e` un tragitto analogo a quello che va dal primo agli ultimi capitoli della RB" (DeVogue`).

Dobbiamo pero` dire che, oltre l'influsso di Basilio, Agostino e Cassiano, cio` che piu` appare e` la maturita` spirituale di SB, la sua esperienza e la sua riflessione che gli hanno fatto comprendere la necessita` di dare molto piu` rilievo, nella sua concezione della vita spirituale, alle relazioni interpersonali dei fratelli, alla carita` fraterna nelle sue molteplici manifestazioni.

CAPITOLO 63

L'ordine della comunita`

De ordine congregationis

1-9: L'ordine della comunita`

Abbiamo avuto modo di notare spesso la preoccupazione di SB per l'ordine e la precisione, che sono una salvaguardia per la pace e la tranquillita` della vita monastica. Uno spinoso problema che ha tormentato e tormenta gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, trascinandoli spesso in contese, a volte assurde e ridicole, e` quello della precedenza, del rango, del posto occupato rispetto agli altri (ricordiamo l'episodio dei figli di Zebedeo: Mc.10,34-35).

SB da` tre criteri: quello normale e` l'anzianita` monastica, cioe` la data d'ingresso in monastero (vv.1.7-8); un'eccezione puo` essere data da particolari meriti di un monaco (come nei casi riscontrati in RB.60,4; 61,11-12; 62,6); oppure la volonta` dell'abate, il quale e` autorizzato a promuovere e a degradare, ma solo per ragioni superiori e per motivi validi (vv.2-3); SB gli ricorda di fuggire il dispotismo e di pensare al giudizio di Dio, secondo lo stile e le espressioni gia` riscontrate in RB.2,64 e RB.65. Comunque, l'eta` fisica e l'estrazione sociale dell'individuo non conteranno nulla (vv.5-8.18). Pertanto anche i fanciulli oblati staranno al posto che corrisponde alla data della loro consacrazione a Dio, anche se sotto la tutela di monaci adulti (v.9 e l'argomento sara` ripreso nei vv.18-19).

10-17: Deferenza e amore tra i fratelli

Fissato l'ordine materiale dei posti, SB passa a un teme di grande originalita` (come si e` detto sopra, nell'introduzione alla sezione): le manifestazioni di reciproco rispetto e cortesia. Comincia con un principio generale (v.10), gia` annunciato negli strumenti delle buone opere (n.70 e 71): "Venerare i piu` anziani, amare i piu` giovani" (RB.4,70-71). Le norme seguenti (vv.11-17) sono applicazioni del principio generale sull'onore e l'amore. Tali forme di deferenza non sono soltanto manifestazioni di educazione, sensibilita`, delicatezza e buon gusto naturali, ma sono ispirate soprattutto dalla S.Scrittura (Rom.12,10): "Prevenitevi a vicenda nel rendervi onore" (v.17). Notiamo che il termine "nonno" e` di origine egiziana e si divulgo` in oriente; in seguito fu latinizzato e piu` tardi nel linguaggio ecclesiastico si applico`, con un senso familiare e affettuoso, alle persone che senza appartenere alla gerarchia, erano considerate degne di particolare venerazione: monaci, asceti, vergini consacrate a Dio, vedove e anziani; ancor oggi in francese "nonne", in inglese "nun", in tedesco "nonne" significa monaca. Anche i titoli per l'abate "dominus et abbas" <signore e abate> non sono nuovi, ma gia` attestati nella tradizione monastica: "dominus" esprimerebbe l'onore dovuto all'abate come vicario di Cristo; "abbas" esprimerebbe l'amore.

18-19: Posizione dei fanciulli

Gli ultimi versetti riguardano la prima parte del c.63, non la seconda. E` una specie di appendice sulla posizione dei fanciulli (v.9). I piccoli oblati in qualita` di persone consacrate a Dio come gli altri monaci professi, mantenevano il loro posto negli atti ufficiali della comunita` (coro e refettorio, v.18). Essendo pero` nel periodo della formazione, debbono essere curati con la vigilanza e mantenuti sotto disciplina "fino alla maggiore eta`" (v.19), che era considerata verso i 15 anni (cf.RB.70,4).

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NOTA:

Il c.64 e` stato trattato subito dopo il c.2.

Il c.65 e` stato trattato subito dopo il c.31.

I cc.66-67 sono stati trattati nella sezione "Relazioni con l'esterno".

Il c.68 e` stato trattato subito dopo il c.5.


CAPITOLO 69

In monastero nessuno ardisca difendere un altro

Ut in monasterio non praesumat alter alterum defendere.

Preliminari

Questo e il capitolo seguente sono un tutt'uno: parlano di due atteggiamenti opposti che possono gravemente disturbare le relazioni fraterne ed offendere la carita`. Ci sono infatti nei monasteri dei temperamenti istintivi portati per natura ad assumersi il ruolo di "avvocato difensore" e di giustiziere; seguendo la propria indole, costoro si arrogano delle funzioni che non sono di loro competenza e possono turbare l'armonia della comunita` con interventi senza discrezione. Il c.69 condanna percio` con fermezza qualsiasi intervento di un monaco in difesa di un altro; il c.70 stabilisce in modo deciso che la riprensione (grave e pubblica) e il castigo compete solo all'abate e a pochi altri autorizzati da lui. Dal punto di vista delle relazioni fraterne, potremmo dire che il c.69 mette in guardia i monaci da comportamenti fuori luogo dettati da simpatia, il c.70 da eccessi a cui puo` condurre l'antipatia e anche lo zelo immoderato. Su SB ci saranno stati, si`, degli influssi letterari della tradizione pacomiana, ma e` stato detto - giustamente - che sono dettati soprattutto dall'esperienza. Il tono di particolare severita`, l'asprezza delle espressioni, il citare il caso particolare della consanguineita` in RB.69,2, fanno capire che SB ha in mente fatti concreti che gli erano capitati e che lo spinsero ad aggiungere questi due capitoli. Solo poche parole di commento.

1-4: Non difendere un altro

Notiamo tre volte (titolo, v.1, v.3) il verbo praesumere <ardire, osare> che c'e` spesso nella Regola per indicare l'usurpazione di un potere altrui (in questo caso il compito dei superiori). Il v.3: "Possono nascere gravissime occasioni di scandali". Notiamo la gravita` delle parole "gravissime" e "scandali". Dall'appoggio di un "avvocato" fuori posto, il monaco si sente incoraggiato a respingere un'obbedienza, a resistere contro l'abate e altri confratelli, ed ecco simpatie, antipatie, pettegolezzi, gelosie, discordie... Il v.4: "Sia punito molto severamente". Anche S.Pacomio in questi casi prescrive una riprensione severissima (Reg.176) e S.Basilio e` molto rigido, perche` il fratello difeso indebitamente si confermava nella colpa.

 

CAPITOLO 70

Nessuno osi arbitrariamente percuotere un altro

Ut non praesumat passim aliquis caedere

1-3: Non punire arbitrariamente i fratelli

Il capitolo comincia col ribadire l'assoluta inammissibilita` di un potere indebito, di atti arbitrari, di arroganza (c'e` nel testo la famosa parola praesumptio). SB, in RB.23,4-5, ha parlato espressamente delle due pene: scomunica e battiture; qui ribadisce che puo` infliggerle solo che ne ha l'autorita`. Certo, a noi appare un po` strano che un semplice monaco potesse cosi` semplicemente scomunicare un altro!

4-5: Disciplina dei fanciulli

SB torna ad occuparsi dei fanciulli. Nel monastero c'era una perfetta comunione di vita tra vecchi, adulti, adolescenti e fanciulli, i quali pregavano, mangiavano lavoravano, dormivano tutti insieme. Certamente la natura stessa porta a delle differenze di cui si tiene conto, com'e` logico; anche la Regola fa oggetto di particolare attenzione vecchi e fanciulli (RB.37; cf. anche 22,7; 30; 45,3) e ha ordinato che i fanciulli siano sotto la vigilanza e la disciplina (RB.63,18-19) e che questa sia un'incombenza di tutti i monaci adulti (RB.63,9). In questo capitolo SB specifica ancora questa disposizione (vv.4-5): per i fanciulli fino ai 15 anni, tutti i monaci si devono sentire educatori; si stabilisce cosi` un'altra dimensione nelle relazioni fraterne: i monaci adulti siano educatori dei loro fratelli piu` piccoli. E si noti che SB raccomanda in cio` "mensura et ratio" <equilibrio e moderazione>, qualita` raccomandate all'abate nel suo esercizio di correzione (cf.RB.64).

6-7: Pene per i trasgressori

Chi usa senza discrezione, senza misura, la correzione nei confronti dei fanciulli, o chi si arroga il diritto nei confronti di altri monaci adulti, sia punito; e la motivazione SB la prende dall'assioma chiamato la "regola d'oro", che in Mt.7,12 e in Lc.6,31 e` in forma positiva (come in Tobia 4,15): "Non fare agli altri..."; la troviamo per la terza volta nella RB (qui, 4,9 e 16,4): cioe` castigare i fratelli senza autorizzazione e i fanciulli senza discrezione sono mancanze contro la carita` fraterna.

 

CAPITOLO 71

Che i fratelli si obbediscano a vicenda

Ut obeodientes sibi sint invicem

1-5: Obbedienza reciproca tra i fratelli

Quante volte e in quanti modi SB ha parlato gia` dell'obbedienza! Soprattutto nel Prologo, nei cc.5, 7 e 68 ne ha trattato e vi ha insistito in mille maniere: veramente in essa egli assomma praticamente tutta l'ascesi monastica. Sembrerebbe che non ci sia nulla da aggiungere. Ed invece ecco qui un altro capitolo, con un taglio in parte diverso. E` stato notato che i monaci lungo la Regola appaiono come semplici discepoli sotto la direzione e il magistero dell'abate e dei suoi collaboratori. Dal c.63 in poi possiamo notare un'atmosfera diversa: tutti sono responsabili dell'educazione dei fanciulli oblati (RB.63,9; 70,4); nel c.71 si parla poi di obbedienza reciproca. Praticamente si nota un'evoluzione della figura del monaco nella mente di SB: i monaci non sono semplici scolari, ma persone adulte, mature e che debbono essere considerate come tali.

Ancora un'altra osservazione: si apre un altro aspetto dell'obbedienza. All'abate, vicario di Cristo, si obbedisce perche` manifesta la volonta` di Dio, quindi il monaco e` sicuro cosi` di realizzare cio` che Dio gli chiede; nel c.71 l'obbedienza reciproca che si inculca prescinde dal contenuto oggettivo: e` un bene comune, il cammino per andare a Dio. La frase e` diventata una delle sentenze piu` sintetiche e luminose della Regola: scientes per hanc oboedientiae viam se ituros ad Deum <persuasi che per questa via dell'obbedienza andranno a Dio, v.2>. Anche S.Basilio (Reg.13; 64) e Cassiano parlano di obbedienza reciproca. Anzi Cassiano dedica la Coll.16 all'obbedienza reciproca senza distinzione di gradi.

Questa obbedienza ha pertanto un valore in se stessa, in quanto implica l'imitazione di Cristo (cf. tutta la dottrine sull'obbedienza nella RB, soprattutto nel c.7 sull'umilta`); ma al tempo stesso e` una manifestazione di carita`, di amore fraterno, un vincolo nuovo tra i monaci, i quali debbono obbedirsi con ogni carita` e sollecitudine (v.4), cercare non quello che e` il proprio tornaconto, ma quello degli altri. Tale genere di obbedienza potrebbe causare confusione nella comunita` e SB, sempre preoccupato della pace e dell'ordine del cenobio stabilisce una certa gerarchia in questa obbedienza reciproca (vv.3-5): obbedienza ai comandi dell'abate e dei suoi collaboratori, quindi obbedienza dei fratelli l'un l'altro, tenendo conto dell'ingresso in monastero (questo e` il senso di "anziano"; vedremo poi che nel capitolo seguente si pralera` di gara nell'obbedirsi a vicenda, senza piu` distinzione tra anziani e giovani (cf.RB.72,6).

In senso generale, come riflessione per noi oggi su questo capitolo della Regola, sara` bene richiamarci tutti a cio` che si direbbe oggi rispetto reciproco della personalita` di ciascuno, aiuto vicendevole, disponibilita` l'uno verso l'altro: e` una legge ineludibile del cenobitismo benedettino, un modo di vivere sempre e comunque l'oboedientae bonum <il bene dell'obbedienza>!

6-9: Contegno dinanzi alle riprensioni

SB passa a parlare dell'atteggiamento di fronte alla riprensione. Per conservare la pace e l'armonia nella comunita`, il S.Patriarca da` ai piu` anziani il 'diritto-dovere" di correggere gli altri fratelli verbalmente (la scomunica e le altre pene sono riservate all'abate, cf.RB.70,2) e vuole nei monaci tanta umilta` e docilita` che sappiano accettare e chiedere scusa (vv.6-8); anzi appare fin troppo severo per chi fosse cosi` pieno di orgoglio da rifiutare un atto di sottomissione e di umilta` (v.9). E` senza dubbio un rimedio drastico per mantenere la pace e l'armonia in comunita` di uomini rudi e violenti, quali erano gli immediati destinatari della Regola.

Cio` che deve essere valido per noi oggi e` questo senso dell'importanza della comunione fraterna che appare in SB: malintesi, rivalita`, dispute, certe "guerre fredde", quel vivere quasi da estranei in comunita`..., sono cose che possono succedere nei monasteri: chiarisi l'un l'atro i motivi di certe tensioni, chiedersi scusa per ristabilire la serenita`, sono valori perenni che vanno conservati a costo di qualunque sacrificio.


CAPITOLO 72

Lo zelo buono che i monaci debbono avere

De zelo bono quod debent monachi habere

Il TESTAMENTO SPIRITUALE di S.Benedetto

Con ragione il c.72 e` stato considerato sempre come una delle pagine piu` preziose della Regola. E` certamente il capitolo piu` soave del codice monastico, sintesi del suo contenuto, compendio della perfezione monastica. Chiudendo la Regola il S.Patriarca non sa meglio sintetizzare il suo insegnamento se non nella parola con cui Gesu` compendia e corona la sua dottrina: la CARITA`.

RB.72 e` stato chiamato il "testamento spirituale" di S.Benedetto. Si presenta in effetti con le caratteristiche di un capitolo conclusivo: esortazione, sentenze spirituali, frase finale in forma di augurio e di preghiera; vermanete appare chiaro che ci troviamo di fronte alle "ultime parole" <ultima verba> del Santo Padre. D'altronde e` abbastanza evidente che il c.73 era stato composto prima e si trovava subito dopo il c.66, e fu posto dopo il c.72 nella redazione definitiva della Regola, a guisa di epilogo, quale e` in realta` (cf. commento al c.73).

Quindi le ultime frasi che uscirono dalla penna di SB possiamo ritenerle queste sullo "zelo buono". E` stato scritto: "La cosa piu` importante di questo capitolo e` il fatto di offrire la prospettiva in cui si deve leggere la Regola. Appare come SB, dopo essere vissuto per lungo tempo con i suoi monaci in una vita di preghiera e di osservanze monastiche, sia giunto a questa convinzione: la dimensione della carita`, lo zelo buono; che ne e` il segno e il risultato, e` la cosa piu` importante per il monaco" (J.E.Bamberger).

Il testamento spirituale di SB costituisce la canonizzazione - per cosi` dire - delle relazioni interpersonali: i fratelli che vivono in uno stesso monastero e formano una sola famiglia spirituale, debbono stimare sopra ogni altra cosa e coltivare con zelo queste relazioni interpersonali. Questa pagina cosi` densa e soave, non puo` essere frutto solo di teoria, di letture, di fonti che possono avere influito; si tratta soprattutto dell'esperienza personale di SB, uomo di Dio e padre spirituale: veramente egli parla "ex abundantia cordis" <dalla sovrabbondanza del cuore>. Tuttavia possiamo notare in generale l'influsso di Agostino e reminiscenze soprattutto di S.Paolo, nonche` della meravigliosa Collazione 16 di Cassiano sulla "amicizia spirituale".

Schema del capitolo

Come altri legislatori, SB stende il suo testamento spirituale in forma concisa, con massime brevi e precise. Definisce prima lo "zelo buono" (vv.1-2); esorta ad esercitarlo (v.3); enumera otto massime in cui esso deve manifestarsi (vv.4-11); conclude con un augurio e una preghiera (v.12).

1-2: Lo zelo buono

La parola "ZELO" viene dal greco, da una radice che significa "essere caldo", in ebollizione; quindi si tratta di una "passione", e comprende ira, invidia, gelosia, ecc. In latino "zelum" significa gelosia, sentimenti di rivalita`, che opera da agente disgregatore della comunita`, S.Paolo lo include tra le opere delle tenebre (Gal.5,20-21; cf.Giac.3,14 "zelum amarum"). Anche SB usa il termine nel senso di invidia, gelosia: RB.4,66; 65,22. Tutto questo e` uno zelo cattivo, amaro (v.1). Ma la Scrittura conosce un altro genere di gelosia, qualle che si applica a Dio, quando dice che "Yahwe` si chiama Geloso; egli e` un Dio Geloso" (Esodo 34,14), che non tollera rivali nell'onore e nell'amore a Lui dovuti. Da questa gelosia divina deriva lo zelo che animava gli uomini di Dio; "lo zelo della tua casa mi divora" (salmo 68,10) venne in mente agli apostoli quando videro Gesu` scacciare i venditori dal tempio (Giov.2,17); nello stesso senso S.Paolo scriveva ai Corinzi: "Io sono geloso di voi, della gelosia di Dio, avendovi promesso a un unico sposo per presentarvi quale vergine casta a Cristo" (2Cor.11,2). E` questo lo "zelo buono che allontana dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna" (v.2).

In questo senso la parola ha il signofocato di ardore, fervore, come in RB.64,6; anche a proposito del pertinaio si parla di fervor caritatis <fervore di carita`, RB.66,4). Il doppio zelo richiama la dottrina delle due vie, come spesso nell'AT e nel discorso della montagna, Mt.7,13-14. E` interessante notare che questo zelo buono che conduce a Dio e alla vita eterna si esplicita, come vedremo subito, nelle manifestazioni della carita` fraterna; cioe`: quella purificazione dei vizi e raggiungimento della vita eterna che SB aveva prima attribuito a tutto il cammino dell'umilta` (RB.7,67-70), qui e` attribuito all'amore fraterno, quindi l'unione dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo.

Ha scritto DeVogue`: "(...) l'ascetismo monastico (...) si arricchisce qui di una nuova dimensione. L'itinerario del monaco, dal timor di Dio fino alla carita` perfetta, attraverso l'obbedienza, la pazienza, l'apertura della propria coscienza, l'umilta`, il silenzio, la compunzione - per non citare che le prime tappe -, nelle quali il discepolo camminava sempre solo dietro le orme del suo maestro, si allarga e completa con un nuovo tracciato, finora poco indicato. All'ascetismo individuale praticato sotto la direzione di un superiore, si aggiunge un elemento nuovo: le relazioni fraterne".

3-11: Le massime dello zelo buono

SB raccomanda dunque che "a questo zelo buono debbono darsi i monaci", cioe` agire ferventissimo amore <con ardore di carita`, con intenso amore, v.3>. E passa ad enunciare alcune manifestazioni. Le otto massime, concise, sono enunziate quasi tutte col medesimo schema: all'inizio il termine principale, alla fine il verbo in forma esortativa. Le prime cinque massime si riferiscono all'amore fraterno, con varie modalita`; le ultime tre all'amore a Dio, all'abate, a Cristo. Sono una specie di apoftegmi meravigliosamente espressivi.

1.ma massima (v.4)

E` il testo di S.Paolo (Rom.12,10) gia` citato in RB.63,17; pero` qui non si allude affatto all'ordine di precedenza, si onora il fratello senza guardare se e` superiore o un inferiore: il fervore di carita` non fa caso a queste distinzioni.

2.da massima (v.5)

Norma quanto mai necessaria per una vera convivenza nella carita`. Chi e` cosi` perfetto da non avere qualcosa da far sopportare al vicino? In ogni comunita` la massima e` di costante applicazione. (L'espressione ricorda Cassiano, Coll.19,9).

3.za massima (v.6)

Su questo tema dell'obbedienza reciproca SB ha parlato nel c.71 (cf. commento). Ma qui non si allude all'ordine di precedenza; e c'e` anche l'avverbio "certatim" <a gara>, cioe` si deve proprio sentire il gusto, il compiacimento di obbedirsi a vicenda.

4.ta massima (v.7)

E` di chiaro sapore paolino: cf.1Cor.10,24.33; 13,5; Filip.2,4. Si tratta della sollecitudine dettata dalla vera carita`, e nel monastero ci sono tante occasioni di sacrificare i propri interessi, riposo, piccole comodita`, ritagli di tempo, ecc. Tale pratica costante richiede una continua abnegazione e puo` significare spesso un vero eroismo, nascosto, ma genuino.

5.ta massima (v.8)

Anche questa e` ispirata a S.Paolo: cf.Rom.12,10; 1Tess.4,9; cf. anche Ebr.13,1 e 1Piet.1,22. L'avverbio "caste" <con amore puro, castamente>, significa l'amore soprannaturale, gratuito, disinteressato, non cioe` l'affetto sensibile e naturale. I monaci devono sapersi voler bene di quell'amore che scaturisce dall'amore di Cristo. Come commento ai vv.7-8, si legga tutto il brano di S.Paolo ai Filippesi 2,1-5 (prima dell'inno cristologico sulla "kenosis" di Gesu`).

6.ta massima (v.9)

Da questo versetto di lascia un po` la dimensione orizzontale per elevarsi, da questa piattaforma dell'amore fraterno, verso l'alto, all'amore di Dio, dell'abate, di Cristo. "Temeranno Dio con amore": comunemente amore e timore si interpretano come due termini antitetici. Gli antichi la pensavano diversamente (nella Scrittura il "timore di Dio" e` una realta` molto complessa che significa tutto il fenomeno religioso, tutta l'esperienza di Dio, fino all'amore). S.Cipriano ha "amore e timore" nella stessa frase (preghiera del Signore, 15); nel Sacramentario Leoniano (XXX,1104) abbiamo la medesima espressione di SB: amore te timeant <ti temano con amore>; secondo Cassiano, il timore amoroso di Dio, "timore di amore", e` il grado piu` alto e sublime a cui possono arrivare i perfetti (Coll.11,15).

7.ma massima (v.10)

E` un precetto formale, anche se non del tutto nuovo; SB ha parlato dell'amore per l'abate per amore di Cristo (RB.63,13); all'abate raccomanda di farsi piu` amare che temere (RB.64,15); l'abate deve amare tutti i fratelli (RB.2,17). Ora chiaramente si dice che i fratelli devono amare l'abate con sincerita`. Nella RM questa idea manca del tutto, lo schema e` molto piu` verticale: per il loro maestro i discepoli non possono nutrire se non fede e obbedienza. La RB pone l'amore reciproco tra monaci e abate, nella stessa corrente di carita` verso Dio: "misura del cenobitismo e` la relazione mutua che unisce i fratelli all'abate in Cristo" (DeVogue`).

8.va massima (v.11)

Il nome di Cristo non era ancora apparso nel testamento spirituale di SB; e` stato lasciato alla fine come coronamento. L'espressione e` presa da S.Cipriano: "Non antepongano assolutamente nulla a Cristo, perche` Egli non antepose nulla a noi" (La Preghiera del Signore, 15); anche S.Agostino ha: "Nihil praeponant Christo" (Espos. sul salmo 29,9). SB ha gia` posto una simile massima tra gli strumenti delle buone opere: "Niente anteporre all'amore di Cristo" (RB.4,91). Qui la rafforza con un energico "omnino" <assolutamente>. Il monaco ha posto l'amore di Cristo al di sopra di ogni altro amore; "Christo omnino nihil praeponant" e` l'anima e l'anelito di tutta la Regola come di tutta la vita di S.Benedetto.

12: Orazione conclusiva

La frase che esprime un desiderio, un augurio, un voto, una speranza, non solo chiude il capitolo, ma, nella mente del legislatore, tutta l'appendice (cc.67-72) e quindi tutta la Regola. SB ha parlato di tante cose, ha dato tante disposizioni, consigli, esortazioni: certo, tutto si deve cercare di fare, e il monaco puo` attraversare tanti momenti di scoraggiamento, puo` sperimentare la difficolta` del cammino. E allora il S.Padre termina con una orazione breve, intensa, significativa, in prospettiva escatologica. Si tratta di arrivare alla "vita eterna", alla patria celeste tante volte intravista e sospirata nel corso della Regola (cf.Prol.17,41; RB.4,46; 5,3.10; 7,11; 72,2): a Cristo e solo a Cristo il monaco affida la capacita` di poter trionfare definitivamente nella sua "ricerca di Dio" (Rb.58,7); ed Egli solo ci potra` condurre alla vita eterna, "pariter" <tutti insieme>. E notiamo questo "tutti insieme": non si tratta di un'impresa solitaria, di un cammino desertico, ma insieme: i cenobiti camminano alla pari, formando una carovana con Cristo in testa che guida e ci conduce alla vita eterna.

Conclusione

Tale e` il testamento spirituale di SB; un capitolo in cui scompaiono - diciamo cosi` - le precedenze, la disciplina regolare, le difficolta` del cammino ascetico; un capitolo ridondante tutto di amore, amore a Dio, a Cristo, all'abate, in particolare dell'amore reciproco tra i fratelli: una nuova dimensione che completa, arricchisce, e in un certo senso modifica l'ascetismo monastico descritto nei primi capitoli della Regola. SB ha scoperto (nella linea di Agostino) tutto il valore umano e cristiano della comunita`; e` giunto alla ferma convinzione che i monaci cenobiti non vivono insieme in monastero solo per essere discepoli di uno stesso maestro, l'abate, ma che la stessa vita di comunita`, la comunione di spirito costituisce un fine in se`, nello stesso tempo che e` il mezzo proprio di questo genere di monaci, per correre verso la vita eterna. Percio` al termine della Regola SB da` tanta importanza alle relazioni interpersonali, alla comunione dei fratelli tra loro, con l'abate e con Cristo in Dio. Ecco allora lo zelo buono, la "gelosia" buona: "una emulazione per amore nelle diverse manifestazioni dell'amore' (DeVogue`).

Concludiamo con una citazione del grande maestro della vita comune, il "Dottore della carita`", S.Agostino. Parlando delle comunita` di Roma e di Milano, egli scrive: "Vi si osserva principalmente la carita`. Alla carita` si ispira e si adatta il loro cibo, la loro conversazione, il loro vestito, il loro ambiente. Tutto e` indirizzato e coordinato verso la carita`. Sanno che Cristo e gli Apostoli la raccomandarono tanto che, se essa manca, nulla conta, e, se essa e` presente, tutto acquista la sua pienezza". (De Moribus Ecclesiae Catholicae 33,73). Non ci sono parole piu` belle per esprimere l'ideale comunitario di S.Benedetto.

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Il c.73 e` stato trattato subito dopo il Prologo.

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APPENDICE GENERALE ALLA REGOLA

I valori fondamentali della RB per la vita del monaco

A questo punto, una panoramica a volo di uccello ci aiutera` a puntualizzare alcuni valori fondamentali che ci sono apparsi piu` evidenti dallo studio della RB.

 

1. RICERCA DI DIO

In una famosa espressione dello Pseudo-Dionigi, la parola "monaco", dalla etimologia 'monos', viene interpretata come 'uomo di una cosa sola. SB, per il postulante, vuole che si veda "Si revera Deum quaerit" <se veramente cerca Dio> (Rb.58,7). Forse siamo di fronte a quel valore monastico cosi` importante e fondamentale da poter essere qualificato come l'"unum" veramente necessario <"revera" = veramente>, quel valore che, se vissuto seriamente, da solo basta (vedi commento a RB 58,7 e bibliografia indicata). Concretamente significa che Dio diventa il centro di interesse, per cui tutte le realta` sono polarizzate continuamente da Lui. Questo e` il senso della famosa visione che ebbe SB quando contemplo` tutto il mondo raccolto in un solo raggio di luce che lo univa a Dio (II.Dial.35), a significare che nel rapporto con Dio, sono assunte e trasfigurate tutte le realta` create. Dunque la ricerca di Dio e` quello che definisce il monaco, e` l'asse portante della vita monastica.

Evidentemente, alla base di tale ricerca, c'e` l'iniziativa di Dio stesso: e` Lui che prima viene a cercare; Dio cerca l'uomo (Gen.3,9: "Dove sei?") e l'incarnazione di Cristo e` proprio questo annuncio definitivo dell'amore preveniente di Dio: "Il Figlio dell'Uomo e` venuto a cercare..." (Lc.19,10; cf.Lc.15,1-7; Giov.10,10-16). Questo tema biblico e` continuamente presente nella tradizione patristica e monastica: il monaco cerca Dio come uno che sa di essere gia` stato cercato e "afferrato" per primo (Filip.3,12), sa che Dio cerca il suo operaio tra la folla (Prol.14). Non si puo` andare alla ricerca di Dio se non ci si e` accorti e non si e` convinti che Lui per primo e` venuto alla nostra ricerca.

 

2. CENTRALITA' DI CRISTO

Nella RB questa ricerca di Dio passa attraverso un rapporto tutto particolare con Gesu` Cristo. E` il cosiddetto Cristocentrismo della Regola: Cristo posto al di sopra e nel cuore di tutte le realta`: "niente anteporre all'amore di Cristo" (RB.4,21); "Nulla, assolutamente nulla, antepongano all'amore di Cristo" (RB.72,2); "per loro, non considerano nulla piu` caro di Cristo (RB.5,2). Questo forte rapporto personale con Cristo da` tutto il vero senso della vita monastica; persone e cose diventano segno della presenza di Lui: "l'abate tiene le veci di Cristo" (RB.2,2); ai fratellimalati "si serva proprio come a Cristo in persona" (RB.36,1); negli ospiti "si adori Cristo stesso che in essi viene accolto" (RB.53,1.7), e se sono poveri e pellegrini "si accoglie Cristo ancora di piu`" (RB.53,15). Veramente il monaco deve tendere ad essere un cristiano che non sa altro se non Gesu` Cristo (cf. 1Cor.2,2), in cui vede racchiusi tutto il senso della vita e della storia.

 

3. PREGHIERA

Il monaco dedica alla preghiera la parte migliore della sua giornata e deve tendere a diventare uomo di preghiera. Appare nella Regola la posizione importante che SB assegna alla preghiera liturgica comunitaria, che egli chiama "Opus Dei", opera di Dio per eccellenza. "Nulla anteporre all'Opera di Dio" (RB.43,3), e "Nulla anteporre all'amore di Cristo" (RB.4,21) sono due espressioni parallele di un'unica convinzione; la liturgia e` infatti lo spazio privilegiato dell'incontro con Cristo. La giornata monastica e` scandita dai vari momenti della lode divina che ritmano il fluire del tempo (deve essere veramente "Liturgia delle Ore"). Cf. introduzione alla sezione "LOpera di Dio" e "excursus sulla preghiera monastica").

 

4. ASCOLTO

La dimensione preghiera in modo molto biblico e` espressa anche dalla categoria dell'ascolto, che e` un momento molto importante nella RB. Il monaco e` l'uomo dell'ascolto in maniera molto accentuata ("Ascolta, o figlio"..., Prol.1): cercato da Dio (Prol.14) e cercatore di Dio (RB.58,7), il monaco ascolta con orecchio attentissimo e meravigliato (Prol.9) la voce del Signore che risuona soprattutto nella S.Scrittura (Prol.8-13). La preghiera liturgica e` tutta intessuta di Parola di Dio. Preparazione e proseguimento della preghiera liturgica e nutrimento della preghiera personale e` la lettura amorosa e pregata della Bibbia, quale avviene nella "lectio divina", alla quale SB da` molta importanza (RB.48; cf. Excursus sulla Lectio Divina).

 

5. SILENZIO

L'ascolto di Dio ha come condizione il silenzio, sia esteriore, sia del cuore e della mente. Il silenzio ha due aspetti: quello ascetico, cioe` astenersi dal parlare per mortificazione (RB.6; 4,5-54; 7,56-61; 9^,10^ e 11^ gradino di umilta`), e quello mistico, cioe` il clima di silenzio per far risuonare la Parola di Dio: e` il "deserto del cuore", quel deserto dove Dio vuol riportare il suo popolo (Osea 2,14) per parlargli e convertirlo a Se`. E` diventato un tema comune nella tradizione monastica: solitudine e silenzio sono elementi essenziali per una autentica vita di preghiera (vedi introduzione e conclusione nel commento a RB.6).

 

6. SPOGLIAMENTO DI SE` (umilta`)

Il monaco e` chiamato a un cammino di sequela che e` essenzialmente un cammino di spogliamento di se`. Il capitolo piu` lungo della Regola, il 7.mo., e` dedicato all'umilta`, che non significa una virtu` particolare, ma tutta una realta` spirituale molto ampia e profonda, tutto il cammino ascetico rappresentato come una scala da ascendere faticosamente. Nella letteratura monastica, la figura del monaco e` sempre rappresentata come umilissima, con un'anima da povero, sempre cosciente del proprio peccato, chiamato a sentirsi sinceramente ultimo di tutti (RB.7,51), chiamato ad essere critico verso i suoi gusti personali, verso la "voluntas propria", sull'esempio di Cristo che venne non per fare la volonta` propria, ma quella del Padre (Giov.6,38). Il fondamento dell'umilta` e del cammino di spogliamento di se` che il monaco intraprende, e` la "kenosis" di Cristo (Filip.2,5-8). Cf. Introduzione a RB.7).

 

7. OBBEDIENZA

Questo cammino di umilta` ha una delle sue modalita` privilegiate nell'obbedienza a persone concrete; ben tre gradini di umilta` (il 2^, 3^ e 4^: RB.7,31-43) parlano dell'obbedienza. Per il monaco, questo e` un fattore fondamentale, perche` lo assimila a Cristo, la cui vita e` stata un'obbedienza totale alla volonta` del Pdre: l'esempio di Cristo e l'amore di Cristo (RB.2,2): quindi obbedire come Cristo (RB.5,13) e obbedire come a Cristo (RB.5,6.15). SB parla tante volte e in tanti modi dell'obbedienza, soprattutto nel Prologo e nei primi tre capitoli; ma poi continuamente, qua e la` nella Regola, senza nasconderne le difficolta`: la "fatica dell'obbedienza" (Prol.2), obbedienza tra asprezze e contrarieta` e addirittura ingiurie (RB.7,35), obbedienza anche nelle cose impossibili (RB.68). Verso la fine della Regola, appare ancora un altro aspetto: l'obbedienza reciproca (RB.71; 72,6), perche` l'obbedienza e` senz'altro un "bene" (RB.71,1) e i monaci devono essere "convinti che attraverso questa via dell'obbedienza essi andranno a Dio" (RB.71,2).

Certo, oggi l'obbedienza - e` inutile nasconderselo - sta attraversando una certa crisi, ed esiste nelle nuove generazioni l'insofferenza per l'autorita` in genere (anche se c'e` un recupero negli ultimi tempi). Tuttavia nella concezione monastica non possiamo prescindere da questo punto fondamentale. Possiamo notare di positivo la riscoperta oggi della tradizionale figura del padre spirituale, e quindi dell'accentuazione del superiore come mediatore della Parola di Dio e della di Lui volonta`, e come animatore spirituale della comunita` (cf. ultima parte dell'Excursus sull'abate, articolo di L.SENA, in Inter Fratres 35 (1985) 20-25, e commento a RB.5 e RB.68).

 

8. ASCESI

Sara` bene oggi richiamarci anche ai valori dell'ascesi concreta nei suoi aspetti piu` tradizionali, quali il digiuno, la veglia, la fatica, la poverta`, ecc. Sappiamo che SB non ama i grandi atletismi ascetici, che anzi una delle sue caratteristiche e` la moderazione, la considerazione per i deboli, la famosa "discretio". Pero` sappiamo anche quanto e` esigente per cio` che riguarda il distacco personale del monaco, il quale deve sradicare in se` il vizio della proprieta` (RB.33; 54; 55; il c.33 e` uno dei piu` duri di tutta la Regola), mettere tutto in comune, evitare ogni forma di autoaffermazione attraverso le cose, addirittura non deve essere attaccato nemmeno al suo lavoro e alle sue eventuali capacita` (RB.57).

D'altronde, nella piu` genuina tradizione monastica, il monaco e` caratterizzato da una vita semplice, distaccata, povera. Anche per noi va riscoperta l'importanza e il valore di una vita austera, di una certa mortificazione fisica (ricordiamo ad esempio l'aspetto ascetico del silenzio).

 

9. SEPARAZIONE DAL MONDO

Il monastero, nella primitiva tradizione, era considerato come un luogo chiuso, rigidamente separato dal mondo; la cosiddetta "fuga mundi" era la prima e fondamentale condizione del monaco. Nella concezione di SB il monastero e` autosufficiente proprio per ridurre al minimo le uscite (RB.66,6-7); il monaco e` uno che si e` fatto estraneo ai costumi del mondo (RB.4,20). Tuttavia, anche per SB ci sono relazioni con l'esterno, soprattutto attraverso l'esercizio dell'ospitalita` (RB.53); sono inoltre contemplati anche i viaggi (RB.51; 67).

Oggi abbiamo certamente una concezione diversa dei contatti con l'esterno e l'inserimento del monastero nella comunita` ecclesiale e civile e` un fatto positivo.

Tuttavia, una certa separazione, anche materiale, dal mondo, deve considerarsi come una componente essenziale della professione monastica. La fedelta` a un certo distacco, a una certa separazione (ma la cosiddetta "fuga mundi" deve essere rettamente intesa; cf. commento a RB.66), a una vita piu` nascosta in Dio secondo l'affermazione escatologica di S.Paolo (Col.3,3-4), puo` essere la forma principale di testimonianza dei monaci oggi: "Si`, ancor oggi la Chiesa e il mondo, per differenti ma convergenti ragioni, hanno bisogno che SB esca dalla comunita` ecclesiale e sociale e si circondi del suo recinto di solitudine e di silenzio, e di li` ci faccia ascoltare l'incantevole accento della sua pacata ed assorta preghiera" (Paolo VI a Montecassino, 24 Ottobre 1964).

 

10. LAVORO

SB accentua molto il valore e l'importanza del lavoro, facendone uno dei punti principali della sua concezione monastica (e la tradizione ne ha ben colto il senso, coniando il motto "ORA ET LABORA"). Il monaco deve sentirsi soggetto alla comune legge del lavoro, e vi si dedica sia per fuggire l'oziosita` (RB.48,1), sia come forma di poverta` (RB.48,7-8), sia come servizio scambievole nella carita` (RB.35,6). SB vuole che il lavoro si faccia con umilta` e distacco (RB.57), ma anche con impegno e competenza (RB.31; 32; 53,22, ecc.), e sempre nella serenita`, nella liberta` (RB.31,17.19; 35,12-13; 48,9-24; 53,18-20). Naturalmente, il lavoro va armonizzato con le altre componenti della giornata monastica: preghiera e lectio divina (RB.48; cf. commento a RB.48 ed Excursus sul lavoro).

 

11. COMUNIONE FRATERNA

SB accentua fortemente l'aspetto comunitario della vita monastica, soprattutto sotto l'influsso di S.Agostino, il "Dottore della carita`", in modo che la comunita` cenobitica appaia come erede della prima comunita` di Gerusalemme, che era "un cuore solo e un'anima sola" (Atti 4,32). Relazioni "verticali" (ascolto, Opus Dei, obbedienza all'abate...) e relazioni "orizzontali" si incontrano e si armonizzano in SB in un equilibrio ammirevole e forse insuperabile. Tante volte ricorre nella Regola l'espressione "a vicenda" <"sibi invicem"> e "nella carita`" <"sub caritate">: i fratelli si servano a vicenda nella carita` (RB.35,1-6; 36,4-5; 38,6); siano pronti a prestarsi aiuto vicendevole nei vari lavori in cui sono impegnati (RB.31,17; 35,3; 53,18-20; 66,5); in via ordinaria si esortino a vicenda (RB.22,8); si sopportino vicendevolmente (RB.4,22-30; 72,5); si perdonino e si riconcilino prima del tramonto del sole (RB.4,73; 13,12-13); si onorino l'un l'altro (RB.4,70-71; 63,17; 72,3) e si obbediscano a vicenda (RB.71; 72,6). Sappiamo che la "magna charta delle relazioni interpersonali e` il mirabile c.72, in cui e` inculcato l'amore vero tra i fratelli (v.8) con tante manifestazioni (cf. commento); il capitolo ci da` anche la chiave per leggere tutta la RB: il cammino del monaco cenobita passa necessariamente attraverso la carita` fraterna; la vita comunitaria e` il modo principale di esercitare il rinnegamento di se`; ci sono tanti aspetti duri e dolorosi, ma attraverso di essi e` possibile una crescita e un arricchimento di vita. Ed e` dalla capacita` di accoglienza reciproca e di perdono reciproco che si misura la "maturita`" di una comunita` monastica. Cf. L.SENA, Fondamenti e prospettive..., in: "Inter Fratres" 1983/II, pp.198-221.

 

12. LA PAX BENEDICTINA

SB ha una visione serena dell'uomo; con la sua discrezione (II.Dial.36; RB.64,19) considera la personalita` e la debolezza della natura umana. Egli va diritto alle disposizioni interiori, in cui e` molto esigente: in fatto di obbedienza, di distacco, di preghiera, ecc., vuole un impegno totale, senza incrinature, e lancia ai suoi figli verso mete sempre piu` alte (RB.73); ma, uomo pratico secondo Gesu` Cristo, mitiga in genere le osservanze esterne, vuole che la sua Regola sia accessibile a tutti, ed ha come criterio "che i forti desiderino fare di piu`, e i deboli non si scoraggino" (RB.64,19). A questo scopo l'abate "deve adattare il suo servizio all'indole di ciascuno" (RB.2,31).

Tutta questa larghezza, realismo e grande umanita` di SB contribuisce a far si` che il monaco, pur impegnato seriamente, conduca la sua ricerca di Dio nella serenita`, nella pace; in coloro che hanno volontariamente scelto Cristo nella vita monastica, non ci deve essere posto per l'acidita`, la scontentezza, l'insoddisfazione. "Ecco, lavora e non ti rattristare" disse SB al goto (II.Dial.6); e tutto deve essere organizzato in modo tale che nella casa di Dio nessuno si turbi e si rattristi (RB.31,19). E` questo il senso della "Paz Benedictina", che deve essere abituale atmosfera nei nostri monasteri.

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Altri aspetti ancora potevano essere messi in risalto nella RB, ad esempio quello dell'ospitalita`, dello spirito di fede, della stabilita`, dell'equilibrio, della discrezione, ecc. Sono stati qui puntualizzati soprattutto i valori fondamentali per la vita del monaco; egli, impegnato nel cammino di ritorno verso Dio (Prol.2), e` convinto dell'amore di Dio che lo ha scelto (Prol.14); e` convinto anche della propria umanita` e fragilita` e quindi di essere sempre bisognoso di conversione. Ma in questo cammino e` aiutato dalla comunita` dei fratelli, ed e` spinto dall'amore di Cristo, a cui nulla assolutamente anteporre (RB.72,11) e da cui spera che ci conduca tutti insieme alla vita eterna (RB.72,12). AMEN

 




 

EXCURSUS sul LAVORO MONASTICO
(Appendice al c.48 di RB)

SOMMARIO: Introduzione - I: Il lavoro nel monachesimo primitivo - II. Il lavoro nella RB - III. Evoluzione nel corso dei secoli - IV. Il lavoro nella Congregazione Silvestrina - V. Problemi attuali - Conclusione.

INTRODUZIONE

Il problema del lavoro non e` stato mai risolto facilmente e definitivamente nel monachesimo, per la bipolarita` che esso presenta in se stesso e per la complessita` degli aspetti che contiene. Da una parte, le piu` grandi autorita` spirituali hanno sempre visto nel lavoro serio e faticoso un elemento di perfezione spirituale, basandosi su molti testi biblici; d'altra parte, l'idea di una vita spirituale espressa in termini di vita contemplativa con l'assenza di ogni interesse e di ogni preoccupazione materiale, ha spinto altri a ridurre al minimo il tempo dedicato al lavoro e a combattere i motivi che spingono l'uomo a lavorare, richiamandosi ad altrettanti testi biblici.

D'altronde, una vera teologia del lavoro e` qualcosa di molto recente; certo non possiamo trovarla in epoca patristica; la valorizzazione positiva del lavoro e` una "scoperta" (possiamo dire, ma parlando con riserva) della societa` industriale, in cui il lavoro si e` potuto considerare sotto l'aspetto di creativita`, piu` che come necessita` di sussistenza o come una maledizione. Tracciare una evoluzione della tradizione del lavoro con le sue modalita` e le sue motivazioni, non e` possibile. Tuttavia, per approfondire un po` il complesso argomento, vediamo il lavoro dalla tradizione monastica antica a SB, e poi nel corso dei secoli, per illuminare i problemi attuali del lavoro monastico.

 

I. IL LAVORO NEL MONACHESIMO PRIMITIVO

Il monachesimo primitivo scopri` subito il valore spirituale del lavoro. Per gli antichi monaci si trattava solo di lavoro manuale, non esisteva altra forma di lavoro propriamente detto; erano esclusi positivamente sia il lavoro intellettuale, perche` la maggioranza dei monaci erano incolti, sia il lavoro apostolico o ministeriale, perche` quasi tutti i monaci erano laici e perche` tale attivita` diventava incompatibile con la solitudine e la contemplazione. Quindi, lavoro significava per i monaci solo lavoro manuale, ed esso, grazie ai solitari e ai cenobiti, divento` un valore positivo. Per l'antichita` pagana il fatto di lavorare non fu mai un fatto positivo, era ritenuto una punizione degli dei e compito esclusivo degli schiavi; spiriti elevati come Cicerone consideravano disonorevole il lavoro retribuito e interessato. Perfino tra i cristiani, il lavoro manuale distingueva i monaci dagli uomini liberi del tempo. Cassiano dice: "Gli uomini liberi fanno ricorso alla fatica altrui, mentre i monaci vivono secondo il precetto dell'Apostolo, lavorando con le proprie man i" (Coll.24,12).

Nel monachesimo antico, quindi, il lavoro e` legato al fatto della poverta`: i monaci, come i piu` poveri, gli ultimi della societa`, gli schiavi, vivono del lavoro delle proprie mani. Schematicamente, possiamo presentare cosi` le motivazioni del lavoro nel monachesimo primitivo:

- il lavoro e` un elemento essenziale della vita monastica;

- ha lo scopo di:

* provvedere al proprio sostentamento

* fare l'elemosina ai poveri

* evitare il "tedio" (la famosa 'acedia' o 'accidia')

* mantenere il corpo in soggezione.

Il lavoro manuale e` quindi caratteristico della vita monastica, specialmente in Egitto: abbiamo un'eneorme quantita` di testimonianze nel "Detti" dei Padri. Si diffuse come norma di vita l'esempio di Antonio il Grande, padre di tutte le forme di monachesimo. Nella celebre Vita scritta da Atanasio, si dice che si ritiro` nella solitudine "per arrivare alla perfezione della vita ascetica e lavorare con le sue mani, perche` aveva sentito dire: chi non lavora non mangi (2Tess.3,10). Una parte di quello che guadagnava lo spendeva per comprare il pane, il resto per soccorrere i poveri" (Vita, c.3). Negli Apophtegmata si racconta che egli imparo` da un angelo che la vita di un monaco e` una successione di preghiera e lavoro. Un giorno, preso dall'accidia, supplicava il Signore di mostrargli la via della perfezione. Vede allora un altro Antonio che sta seduto e lavora, poi interrompe il lavoro, si alza in piedi e prega. Era un angelo del Signore mandato per correggere Antonio e dargli forza. E udi` l'angelo che diceva: "Fa` cosi` e sarai salvo" (Detti, Antonio VII,1).

Dall'esempio e dall'insegnamento - trasmesso, questo, da Cassiano (Coll.24,12) - del grande maestro, presero lo spunto tutti gli altri monaci e le Regole monastiche. Gli anacoreti copti solevano dedicare tutto il giorno e parte della notte alla confezione di ceste, corde e stuoie, mentre recitavano o meditavano la Parola di Dio e facevano frequenti orazioni; molti aiutavano i contadini nella raccolta delle messi, facendosi dare come compenso una certa quantita` di grano che bastava loro per tutto l'anno. (avevano bisogno di poco). I monaci di Pacomio erano dei grandi lavoratori: coltivavano i campi, esercitavano dei mestieri; tutti, compresi i superiori, dovevano guadagnare il pane per se` e per i poveri. Anzi, dobbiamo dire che i Pacomiani rischiavano di peccare per eccesso di lavoro.

S.Basilio e` il piu` insistente e profondo legislatore a proposito del lavoro; ritiene piu` adatti alla vita monastica il lavoro di tessitore, di fabbro e altri, senza nascondere la sua preferenza per l'agricoltura che, oltre a garantire la permanenza nei recinti del monastero, copre le necessita` della comunita` monastica e dei poveri. Ma oltre a Basilio, tanti altri Padri e scrittori monastici trattano l'argomento: S.Giovanni Crisostomo, Cassiano, S.Girolamo, S.Agostino, ecc.. Negli Apoftegmi si hanno numerosi accenni al lavoro spesso in forma di fatterelli o aneddoti. Si parte dalla convinzione che il lavoro e` una legge della condizione umana: il monaco, uomo come gli altri, deve lavorare: sarebbe una incongruenza farsi mantenere dai secolari (espressamente lo nota Teodorito di Cipro, Storia religiosa, 10). Ma le argomentazioni piu` forti erano prese dalla Scrittura. Si citava con preferenza il detto di S.Paolo: "Chi non lavora non mangi (2Tess.3,10) e ancora: "Chi e` avvezzo a rubare non rubi piu`, anzi si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi si trova nella necessita`" (Efes.4,28). L'esempio poi di Paolo che lavorava con le sue mani (Atti 18,3) e se ne gloriava (Atti 20,34; 1Cor.4,12; 2Tess.3,7-5), era ricordato continuamente e veniva applicato agli Apostoli in generale (come fara` poi S.Benedetto in RB.48,8).

Non mancano pero` tendenze contrarie (soprattutto in Siria e in Medio Oriente) che ritengono il lavoro manuale come indegno dell'uomo spirituale e incompatibile con la vita monastica; vivere della provvidenza, cioe` di elemosine, appare segno di perfezione. E naturalmente anche questi monaci conoscevano altrettanto bene la Scrittura e si appoggiavano ad altri testi: "Non affannatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete..." (Mt.6,25-34); "Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna" (Giov.6,27); "Maria ha scelto la parte migliore" (Lc. 10,42); "Pregate senza interruzione" (1Tess.5,17). Bisogna dire, ad onor del vero, che questi monaci, riducendo al minimo le loro necessita`, sentono appena il bisogno di lavorare; spesso il lavoro per loro e` solo una pura occupazione (fare e disfare i canestri, tanto per tenere occupate le mani); spesso il lavoro appare per se` privo di importanza, fatto solo per obbedienza, senza interesse alcuno per la qualita` dell'opera prodotta. Le diverse tendenze si possono vedere analizzando i "Detti" e le "Collazioni" di Cassiano; appare, ad esempio, che la tradizione che fa capo a Poemen sia contraria al lavoro dei campi perche` svolto all'aria aperta, il che fa distrarre!.

L'ala piu` estrema delle correnti angelistiche e` rappresentata dai Messaliani, i quali insistono anche sull'obbligo dei fedeli di soccorrere i bisogni dei solitari e dei monaci che si dedicano unicamente a pregare notte e giorno per il mondo e per gli uomini. Contro di essi Agostino scrisse il famoso "De opere monachorum <Il lavoro dei monaci>, confutando con ironia e humour le conseguenze dei loro principi, e ribadendo che sacerdoti e chierici hanno diritto a vivere del Vangelo, ma non i monaci che devono lavorare (cf.1,2; 21,24). S.Basilio ha meglio armonizzato , in maniera magistrale, i testi del NT citati in contrapposizione dalle correnti opposte; il nocciolo della sua argomentazione e` questo: 'dobbiamo non affannarci, non preoccuparci del cibo che perisce, ma di quello spirituale che e` fare la volonta` del Padre (Giov.4,34); ma la volonta` del Padre e` soccorrere i deboli e i bisognosi; dobbiamo dunque lavorare, non per noi, ma per i poveri in cui riconosciamo Cristo' (ma si veda tutto il testo, che e` molto bello: Regola,127).

In conclusione, il monachesimo antico insegno` e pratico` la legge del lavoro, fondandola soprattutto sui testi della Scrittura; ma noto` subito anche il pericolo che il lavoro comporta, se non e` inserito nella giusta gerarchia dei valori monastici: deve essere subordinato alla preghiera, in modo da trovare l'equilibrio tra lavoro e preghiera con la preminenza per l'uomo interiore; deve essere visto in rapporto all'obbedienza e alla carita` (altrimenti il rischio dell'attaccamento, dell'eccessiva preoccupazione, del guadagno che si accumula, ecc.).Fin dalle origini, praticamente, il monachesimo ha dovuto guardarsi dai due eccessi:

- troppo lavoro, e quindi grande attivita`, dissipazione, ricchezza...;

- poco lavoro, e quindi vita di rendita, oziosita`...

Questo puo` dire qualcosa al monachesimo di tutti i tempi.

 

II. IL LAVORO NELLA REGOLA DI S.BENEDETTO

Quando S.Benedetto scriveva la Regola, la situazione del lavoro dei monaci era cambiata rispetto al monachesimo primitivo. Non risulta che i primi monaci in Occidente, quelli di Martino, lavorassero; della sua comunita` si dice che "non si esercitava alcun mestiere se non quello di scrivano, a cui inoltre venivano adibiti in piu` giovani; gli anziani si dedicavano all'orazione" (Vita Martini, X.6). Cassiano si lamenta che i monaci in Occidente non lavorino molto (Inst.10,23). Pare che all'origine del monachesimo latino ci siano delle tendenze affini al messalianismo. Tutte le Regole monastiche occidentali sembrano supporre che il lavoro costituiva - se non altro - un problema per i monaci; difatti polemizzano contro l'ozio (si noti come S.Benedetto ha la fobia della "otiositas", tre volte nello stesso RB.48,1. 23. 24). Gli ostacoli sembrano essere stati una certa sicurezza economica, stanchezza prodotta dall'osservanza, specialmente del digiuno, inabilita` risultante da debolezza corporale o da cattive condizioni di salute. Queste ultime, S.Agostino le metteva in relazione con l'estrazione sociale dei monaci: gli ex-ricchi erano incapaci di dedicarsi al lavoro manuale, e quindi ne erano dispensati, ma dovevano comunque fare qualcosa.

L'incapacita` di lavorare per motivi di salute e` presa generalmente in considerazione in tutte le Regole (cosi` S.Benedetto molte volte). La RB e` in linea con la situazione di allora riguardo al lavoro, ma nello stesso tempo sembra dare una svolta. Al suo tempo i monaci non avevano generalmente necessita` stretta di lavorare per sostentarsi: possedevano un'azienda, dei campi avuti al momento della fondazione del monastero o in seguito da altri benefattori, e la cui coltivazione affidavano a dei contadini secolari, vivevano con tali entrate. Questo non vuol dire che non facevano lavoro manuale, ma non erano lavori redditizi: si limitavano cioe` ai lavori di casa, esercitavano qualche "arte", coltivavano l'orto; spesso si trattava solo di tenersi occupati, proprio perche` "l'ozio e` nemico dell'anima" (motivazione negativa). La Regula Magistri (=RM) e` illuminante a questo proposito: vuole il lavoro manuale, sembra per evitare l'ozio (RM.50,1-2), ma non quello dei campi assolutamente, per paura che poi si debba dispensare dalla legge del digiuno; i possedimenti del monastero devono essere affidati ai secolari: "e` meglio conservarli lasciando la preoccupazione ad altri e percepire con sicurezza le rendite annuali, senza pensare ad altro che all'anima. Difatti, se facessimo coltivare i campi ai fratelli spirituali imponendo loro lavori pesanti, essi perderebbero l'abitudine di digiunare...; percio` come lavoro del monastero ci sia solo qualche mestiere e l'orto" (RM.86,24-27). Anzi, per il Maestro, anche l'orto e` un compito ingrato da lasciare a quei fratelli che non hanno potuto o voluto imparare un mestiere (RM.50,72). Tutto il c.86 merita di essere analizzato; rivela la mentalita` monastica dell'epoca: affidare ai secolari la coltivazione dei campi, occuparsi di lavori manuali si`, ma meno pesanti, in modo da non dover lasciare, come buoni monaci, la regola dei digiuni e pensare solo alla propria anima.

S.Benedetto risente certamente di questa linea e di questa mentalita`. Il lavoro manuale da lui considerato (prescindendo per ora dai campi), non e` certo sufficiente per il sostentamento dei monaci: l'orto poteva bastare a procurare gli ortaggi per la mensa comune; in quanto ai mestieri, il c.57 ne parla sempre con molte condizioni e con distacco: "se per caso ci sono degli artigiani..., se l'abate lo permette..., se c'e` da vendere qualche prodotto del lavoro degli artigiani..., si venda a prezzo minore di quanto lo vendono i secolari": e` evidente che i monaci non vivevano degli eventuali prodotti dei vari mestieri.

Quindi la RB, da una parte, si trova nella linea del monachesimo del suo tempo; dall'altra, notiamo una certa svolta. E partiamo proprio dalla paura di non poter piu` digiunare, qualora si facessero lavori pesanti, cosa che preoccupa tanto la RM. E' proprio qui che S.Benedetto cambia. Nei capitoli sulla misura del mangiare (RB.39) e del bere (RB.40) e sull'orario dei pasti (RB.41), S.Benedetto parla di concessioni, di eccezioni alla regola generale; di questi eventuali supplementi alla quantita` del vitto ne parla anche la RM, ma mentre qui la motivazione e` un senso di gioia, di festa o la venuta di ospiti, per S.Benedetto l'unica motivazione e` il caso di lavoro eccessivo o piu` faticoso. Vale la pena rileggere i testi. A proposito del cibo si ha: "Se per caso si fosse compiuto un lavoro piu` gravoso del solito, l'abate avra` piena facolta`, se gli sembrera` opportuno, di aggiungere ancora qualche cosa" (RB.39,6; vedi invece RM.26,11-12); a proposito del bere: "Se poi la condizione del luogo o il lavoro speciale o il calore dell'estate richiedesse un supplemento, il superiore abbia la facolta` di darlo (RB.40,5); vedi invece RM.27,43-45); per i digiuni: "Da Pentecoste e per tutta l'estate, se i monaci non hanno forti lavori campestri e l'eccessivo calore non lo impedisce, il mercoledi` e il venerdi` digiunino fino a nona; negli altri giorni pranzino a sesta. Ma se avranno lavori nei campi o se il caldo dell'estate sara` soverchio, anche i quei due giorni il pranzo sara` a sesta..." (RB.41,2-4; invece, per il Maestro, il digiuno si puo` rompere in qualche caso per gli ospiti: RM.72,1-7; S.Benedetto, per gli ospiti, dispensa dal digiuno solo l'abate, che mangia con lo, i fratelli no! RB.53,10-11). Quindi per S.Benedetto si puo` dare il caso che i monaci facciano lavori pesanti e i lavori dei campi.

E arriviamo al famoso passo del c.48 che ci illumina al riguardo. Intanto, tutto il c.48 ha un'impostazione diversa dalla RM; in questa l'orario e` visto alla luce dell'Ufficio divino; in RB l'orario ha uno scopo piu` pratico: ripartire bene lavoro e lectio divina. S.Benedetto considera piuttosto il ritmo della vita umana con l'alternarsi di riposo e di sforzo, di lavoro spirituale e di lavoro manuale; RB si preoccupa molto che i monaci lavorino. Orben, a un certo punto del c.48, abbiamo una parentesi di singolare importanza: "Se poi - in latino "si") le condizioni del luogo o la poverta` richiedessero che gli stessi monaci si occupino nel raccogliere le messi, non ne siano malcontenti, perche` allora sono veri monaci quando (in latino "si") vivono del lavoro delle loro mani, come i nostri Padri e gli Apostoli"(RB.48,7-8).

I monaci del suo tempo non erano abituati al duro lavoro dei campi. Pero` le circostanze (pensiamo alla guerra che c'era allora tra Goti e Bizantini, quindi alla mancanza di mano d'opera o alla impossibilita` di pagarla, pensiamo alla poverta del monastero) potevano costringere i monaci a fare da se stessi tali lavori, il che causava un certo malcontento. Ebbene, S.Benedetto li consola riportandoli a una motivazione soprannaturale: "allora sono veramente monaci, quando...". Notiamo la struttura grammaticale della frase: il primo "si" <se = quando) regge un verbo al condizionale, indica quindi una semplice eventualita`: "Se le circostanze lo richiedessero"; il secondo "si" <se = quando> regge un verbo all'indicativo e non indica una eventualita`, ma un principio generale. Il testo e` stato analizzato alla perfezione da Olivier du Roy: "La prima condizione e` chiaramente accidentale, locale; la seconda e` di ordine essenziale, ideale. La prima riguarda il "lavoro agricolo", la seconda riguarda "il lavoro" (manuale) per vivere (...).Partendo da alcune circostanze particolari, S.Benedetto ha l'occasione di inculcare un principio fondamentale della vita cristiana e, a fortiori, della vita monastica: vive del proprio lavoro manuale" (O.DuROY, Moines aujourd'hui. Une experience de reforme institutionnelle, Paris 1972, p.271).

Malgrado le reticenze degli ambienti monastici italiani del suo tempo (testimoniato dalla RM), S.Benedetto si vede costretto dalle circostanze a introdurre il lavoro agricolo (ecco perche` nella Regola parla piu` volte di lavori pesanti, per cui ammette supplementi alimentari); riscopre cosi` nel suo tempo la grande legge del monachesimo primitivo: mantenersi con il proprio lavoro manuale ("Se la necessita` (...), allora sono veri monaci, quando..." RB.48,7-8). Si e` notato che l'argomento addotto da S.Benedetto convince solo a meta`, perche` il richiamo a "come i nostri Padri e gli Apostoli" non prova nulla a favore del lavoro dei campi, ma solo l'obbligo del lavoro manuale in generale. La tradizione monastica fondata sull'esempio di Paolo prova solo questo, tant'e` vero che la RM, espressamente contraria al lavoro agricolo, non manca di riferirsi ugualmente ai testi paolini. Ma l'obiezione non regge. S.Benedetto vuole provare tanto la necessita` di lavorare nei campi (che puo` dipendere dalle circostanze), quanto piuttosto di guadagnarsi la vita con il proprio lavoro. Se e` vero che S.Paolo non era agricoltore, ma tessitore di lana, se e` vero che i monaci antichi non lavoravano necessariamente nei campi - anzi alcuni, come si e` detto, erano contrari perche` ritenevano che dissipasse lo spirito - e` altrettanto vero che sia l'Apostolo che i primi monaci lavoravano per attendere alle proprie necessita` e, possibilmente, a quelle degli altri, ospiti e poveri.

Questo e` il punto, questo e` l'ideale antico che riscopre e ripropone S.Benedetto: non solo occuparsi nei lavori piu` o meno utili, perche` "l'oziosita` e` nemica dell'anima" (RB.48,1, motivazione negativa), ma vivere veramente del proprio lavoro come i Padri e gli Apostoli (motivazione positiva).Ora, vivere del proprio lavoro nelle circostanze concrete di allora (poverta`, guerre...) equivaleva in pratica ad accettare il lavoro agricolo con quanto esso comportava di pesante. Di fatto, i monasteri si reggevano, grazie ai terreni che possedevano, gli altri introiti non potevano bastare alle varie necessita`. Se dunque si affidava la coltivazione dei campi ai secolari, come vuole la RM, i monaci vivevano di rendita; se invece li coltivavano personalmente, allora - e solo allora - praticavano la legge apostolica e monastica di vivere del proprio lavoro. Inquadrando la famosa frase di RN.48,7-8 nel contesto storico di allora, l'argomentazione di S.Benedetto risulta molto profonda e pienamente convincente. E` la piu` bella dimostrazione: e conferma ci puo` venire da Gregorio Magno quando ci presenta il santo Patriarca nel momento di ritornare dai campi con gli strumenti di lavoro sulle spalle (II.Dial.32).

A questo punto possiamo chiederci se c'e` una spiritualita` del lavoro in S.Benedetto. Posta in maniera cosi` precisa e specifica, la domanda e` anacronistica; il lavoro va inquadrato in tutta la spiritualita` monastica: per S.Benedetto non ci sono "azioni profane", ma nella "casa di Dio" (RB.31,19; 53,22; 64,5), tutto acquista il valore di un'azione sacra, perche` il monaco ha consacrato a Dio non solo tutto cio` che ha, ma anche tutto cio` che e` (RB.33,4). S.Benedetto raccomanda addirittura che gli oggetti del monastero siano trattati "come vasi sacri dell'altare" (RB.31,10).

Considerando il c.48 sul lavoro quotidiano, il c.57 sugli artigiani, il c.66 sull'organizzazione del monastero (a proposito del portinaio), possiamo ricavare dalla Regola tre orientamenti in merito al lavoro (riassumiamo dall'interessantissimo articolo di J.LECLERCQ, Economia monastica occidentale in "Dizionario degli Istituto di Perfezione (1976) 1021-1022):

- (a) - Bisogna lavorare. S.Benedetto fa del lavoro quotidiano uno dei punti principali della sua concezione monastica, ne fissa l'orario, ne indica il senso, ne determina il valore. Certi asceti del deserto si sarebbero certo meravigliati nel vedere attribuiti al lavoro piu` ore che all'Ufficio divino, e nel notare che quest'ultimo sia talora condizionato dalle occupazioni (cf.RB.48, passim). Ma gia` si e` detto che anche il lavoro acquista il carattere di azione sacra nella mente di S.Benedetto; il suo valore e` in rapporto all'ascesi e alla vita mistica: e` un rimedio all'ozio che e` nemico dell'anima (RB.48,1), ma esige anche sforzo e fatica, ed e` quindi per il monaco uno strumento di perfezione, un mezzo per dominarsi; non si lavora soltanto per tenersi occupati, ma per ascesi: si tratta di un atto di obbedienza (cf.RB.48,11.14; RB.57). Il carattere penoso del lavoro provoca la tendenza a non lavorare o a lavorare il meno possibile. Di fatto, al tramonto dell'Impero Romano, il lavoro si era ridotto a un obbligo degli schiavi. Facendone una legge per tutti i monaci, S.Benedetto ne mise in rilievo la dignita`.

Pero` il lavoro monastico deve conciliarsi con un certo "ozio", necessario per dedicarsi in pace alla preghiera e alla contemplazione. Di qui l'insistenza di S.Benedetto sulla tranquillita` che l'animo deve conservare, quindi sulla misura, sulla considerazione delle persone (RB.31,17; 35,3-4; 48,9.24-25). "L'ozio monastico <otium latino) quale e` caratterizzato dalla tradizione, e` dunque qualcosa di intermedio tra l'oziosita` <otiositas> e cio` che e` la negazione stessa dello 'otium', cioe` il 'negotium', ossia il tumulto e il chiasso degli 'affari'".

- (b) - Inoltre il lavoro, secondo S.Benedetto, deve essere disinteressato, esso e` a base di rinuncia. Cio` e` chiarissimo dal c.57 sugli artigiani: non solo notiamo la continua insistenza sull'obbedienza e sull'umilta`, ma S.Benedetto inculca che il monaco deve essere distaccato dall'opera e dal suo risultato. Il risultato ha un suo valore, ma non e` determinante; non si misura da rendimento e dall'arricchimento (si viveva poi cosi` di poco nell'Italia meridionale al tempo di S.Benedetto!). S.Benedetto prescrive che si vendano a minor prezzo gli eventuali prodotti, non per fare concorrenza ai laici (il che sarebbe sleale soprattutto oggi), ma per mettere in risalto che il lavoro non si considera come un mezzo per far soldi.

- (c) - Infine, secondo S.Benedetto, il lavoro monastico tende alla "autarchia", cioe` all'autosufficienza: e` evidente dal c.66,6-7. L'attivita` monastica e` condizionata dalla clausura e dalla stabilita`. Questo fatto, da una parte limita le attivita`, dall'altra e` causa di fecondita` e comporto` grandi vantaggi, anche sociali. Ad esempio, un monastero nel medioevo diventava quasi sempre la cellula madre di un insediamento umano, che a poco a poco dava origine a borgate e villaggi.

Se chiediamo alla storia come nel medioevo siano state messe in pratica le idee contenute nella RB, abbiamo in risposta una serie di paradossi: non si cercava il rendimento, ma lo si otteneva; non si cercava di operare lontano dal monastero, ma lo si faceva; non ci si voleva immischiare nel traffico e nel commercio, ma di fatto con il ruotare di tanti "famuli", ospiti e poveri intorno ai monasteri, si organizzavano trasporti (quindi le vie di comunicazione), si organizzavano le fiere, che erano insieme solennita` religiose e occasioni di scambi economici. Certamente molte ombre e molti errori (a volte cose che per noi oggi sarebbero di grave scandalo), si trovano nell'economia monastica. Ma dobbiamo sottolineare un elemento essenziale: all'origine e nei risultati di tale economia monastica, si trova un fatto religioso; alla base degli stessi benefici materiali c'e` paradossalmente l'ispirazione soprannaturale di distacco, di lavoro fatto per obbedienza e per ascesi.

 

III. EVOLUZIONE NEL CORSO DEI SECOLI

Nella RB e nella tradizione monastica, il lavoro ha dunque un valore spirituale che va sottolineato: da una parte si tratta di evitare l'ozio con tutti i suoi inconvenienti per l'anima; dall'altra, guadagnare di che vivere e anche soccorrere il prossimo con l'elemosina e l'ospitalita`. Oltre a queste due finalita` - ascetica e caritativa - gli storici hanno attribuito con compiacenza agli antichi monaci altre finalita` sociali, culturali, civilizzatrici, che nella Regola, di per se`, non ci sono; se essa ha effettivamente dato un contributo alla civilizzazione europea, cio` si deve alla sua immensa diffusione, che ha portato ovunque lo stile di vita dei monaci, con la giornata ben divisa tra preghiera, lectio e lavoro.

Le circostanze storiche, l'evoluzione dei tempi, la stessa apertura prevista dalla Regola con la considerazione per la persona (lavoro piu` leggero per i piu` deboli, ecc.), hanno portato i monaci ad abbracciare molti generi di attivita` che dobbiamo giudicare per se` pienamente legittime. Da quanto detto prima, non dobbiamo arrivare alla esagerazione di ritenere essenziale ed esclusivo per i monaci il lavoro manuale, sarebbe un forzare il testo della Regola di S.Benedetto. E difatti, la storia ci mostra una gamma vastissima di lavoro monastico. E` impossibile tracciare anche soltanto rapidamente una linea della evoluzione del lavoro monastico lungo i secoli (cf. voce "lavoro" sul Dizionario degli Istituti di Perfezione e, per il lavoro nelle diverse tradizioni monastiche, articoli vari su "Yermo" 13 (1975). Teologo del lavoro puo` essere considerato per il medioevo, il cistercense Isacco della Stella, che ne parla in diversi sermoni (cf. studio su di lui di J.Leclercq, citato nella Bibliogafia).

Ma tutto questo non e` avvenuto senza difficolta`, controversie, polemiche; la storia cioe` ci dimostra come il problema del lavoro dei monaci rimane nella sua sostanziale ambiguita`: quale lavoro? come conciliarlo con le esigenze della clausura, della stabilita`, delle osservanze monastiche? come evitare gli eccessi da una parte e dall'altra?

Nella prospettiva cluniacense, ad esempio, si altero` l'equilibrio tra preghiera e lavoro; si tolse a quest'ultimo il suo valore santificante, per l'idea che la vita del monaco e` quasi esclusivamente consacrata all'Ufficio divino. Cosi` di fatto avveniva a Cluny: il lavoro manuale era ridotto a qualche piccola attivita` interna; Pietro il Venerabile dice espressamente che i monaci hanno altro da fare che non la coltivazione della terra o il lavoro artigianale. Ormai il lavoro della terra era lasciato ai laici.

Uno degli elementi decisivi per l'evoluzione del lavoro monastico fu la clericalizzazione della vita religiosa. Alle origini e nell'alto medioevo, il monachesimo si presentava chiaramente come una forma non clericale di consacrazione a Dio; man mano aumentarono nelle file dei monaci coloro che diventavano sacerdoti, soprattutto - a detta degli storici - per lo sviluppo della liturgia nei monasteri, che esigeva una preparazione culturale, e quindi tempo e studio per l'apprendimento. Nel secolo XI assistiamo alla nascita della categoria dei "conversi" <=convertiti, cioe` fattisi monaci tardi>, i quali, non avendo, ne` volendo, una preparazione culturale, erano meno adatti al servizio del coro; avevano percio` mansioni piu` modeste e si accollavano il lavoro agricolo e l'esercizio dei vari mestieri.

La riforma cisterciense pose al centro il problema del lavoro, per un ritorno a una interpretazione piu` fedele della Regola: ristabilire l'equilibrio tra preghiera e lavoro, riabilitare il lavoro manuale (che era per loro esclusivamente quello agricolo). Citeaux e` l'ultimo rappresentante di un'economia puramente agricola, e cio` spiega la partecipazione cisterciense al progresso economico dell'Europa, anche se l'importanza dei monaci "dissodatori" e` stata un po` esagerata. Con la istituzione dei conversi, appare presso i cisterciensi un nuovo tipo di coltura, la "grangia" <letteralmente: luogo dove si conserva il grano, capannone), cioe` un'azienda agricola dipendente dal monastero e distante da esso, dove i monaci lavoravano senza dover tornare ogni giorno all'abbazia.

Rimane comunque l'ambiguita` del lavoro e la difficolta` di trovare l'equilibrio tra lavoro e contemplazione, tra il mantenersi col lavoro delle proprie mani e la proprieta`. Tutto questo appare in maniera chiara nelle polemiche del secolo XII sulla vita religiosa. Certo, secondo la tradizione, il monastero benedettino ha il diritto di possedere beni mobili e immobili; ma il successo della Regola, le donazioni e le fondazioni, avevano introdotto, insieme alla proprieta`, anche l'agiatezza, e talvolta anche il lusso; i monasteri avevano raggiunto un'opulenza straordinaria. Contro questa eccessiva ricchezza insorsero le nuove tendenze monastiche (S.Guglielmo di Montevergine, S.Pier Damiano, S.Giovanni Gualberto, S.Silvestro Guzzolini...): questi tentativi desideravano testimoniare una poverta` non solo individuale, ma anche collettiva, richiamandosi alle origini della vita monastica, con il rinunciare alle rendite, per puntare tutto sul lavoro manuale dei monaci stessi. Ci fu la polemica del secolo XII, se i monaci avessero o no diritto alle decime (cioe` ad essere mantenuti dai fedeli).

Dobbiamo dire, qualunque sia la direzione delle varie tendenze, che anche i nuovi movimenti - dopo un primo periodo di fervore che rappresento` una bella testimonianza - finirono per accettare decime e rendite varie ("spirituali") di ogni tipo. Anche i cisterciensi ben presto (gia` alla fine del secolo XII), abbandonarono il lavoro manuale per vivere sempre piu` di redditi, con il lavoro dei conversi e dei salariati. Forse il motivo principale va ricercato nella impossibilita` di vivere con una economia naturale basata sul lavoro manuale, in un'epoca in cui l'economia monetaria stava avendo un grande sviluppo. Inoltre,

l'ideale dei riformatori si spostava verso una forma di vita non piu` fuori del mondo, ma a servizio del popolo cristiano e in varie forme nel mondo (il monachesimo urbano); si tendeva sempre piu` a unire l'ideale monastico e l'ideale clericale.

Aumento` quindi nei monasteri il lavoro intellettuale, i monaci divennero uomini di cultura, fiorirono le scuole monastiche, di cui c'era una tradizione gia` dall'alto medioevo; moltissimi monasteri gestivano non solo una scuola interna ("schola claustri") per l'istruzione e la formazione dei futuri monaci, ma anche una scuola esterna ("schola canonica" o "externa") separata dalla prima. Dobbiamo dire che le scuole monastiche portarono il maggior peso della pubblica istruzione. L'amore dei libri e dello studio e` stata una realta` dei monasteri benedettini, tanto che si e` creato il tipo tradizionale del benedettino studioso, e si era formata la concezione che "monasterium sine armario quasi castrum sine armamentario" <un monastero senza libri e` come un castello senza armi>. E a questa organizzazione del cenobio si deve la mole di opere prodotte da questo tipo di lavoro monastico, dalle opere di Beda, Alcuino, Paolo Diacono, S.Pier Damiano, S.Anselmo, S.Bernardo, ecc., fino a quelle moderne dei Maurini (Mabillon, ecc.) e a quelle attuali di centri benedettini di cultura e di studio.

A questo proposito, come non ricordare l'apporto dei monaci nella trasmissione materiale - diciamo cosi` - della cultura? Tra i lavori proposti ai monaci fin dai tempi piu` antichi si trova la trascrizione dei testi. Questa attivita` dei monaci scrivani e` accennata da RM.54,1; sembra supporla S.Benedetta (si deduce da alcuni dettagli in RB.33,3; 55,19); e` riferita dalle monache di S.Cesario di Arles; la nota per inciso anche S.Gregorio Magno (Dial.1,4); assunse grande importanza soprattutto a Vivarium, dove Cassiodoro la raccomandava con insistenza. Lavoro, questo, che divenne man mano passione e "sacro" more dei libri (anche qui non senza polemiche), e che diede vita ai famosi "scriptoria" medioevali, officine di milioni di codici che hanno conservato e trasmesso non solo il pensiero cristiano, ma anche le opere del genio greco e romano. Tra le mansioni di ogni genere che hanno svolto i monaci nel corso dei secoli, poche lasciarono una traccia cosi` duratura come questa produzione manoscritta che si puo` collocare al limite tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, senza dimenticare il grande elemento dell'ascesi (pazienza, assiduita`, meticolosita`) che esso comportava.

 

IV. IL LAVORO NELLA CONGREGAZIONE SILVESTRINA

Una parola per la Congregazione Silvestrina (cf., per gli inizi, G.FATTORINI, La spiritualita` nell'ordine di S.Benedetto di Montefano, pp.237-256; per il sec.XVII, U.PAOLI, L'unione della Congregazione Vallombrosana e Silvestrina, pp.106-108). Nelle primitive Costituzioni della Congregazione, si parla del lavoro nella II "Distinctio", ai cc.5-6-7. Per lavoro all'inizio si intende soprattutto lavoro manuale <opus manuum>. I primi monasteri silvestrini furono fondati da S.Silvestro in luoghi piuttosto isolati, e per la loro fondazione S.Silvestro accettava donazioni e lasciti consistenti soprattutto in appezzamenti di terreno coltivabili o boschivi, in modo che con una adeguata proprieta` terriera, i monaci avessero una certa tranquillita` economica e potessero salvaguardare la solitudine e la preminena del culto divino. I campi venivano coltivati dai monaci stessi, eccetto "quelli ammalati e occupati nelle diverse officine" (c.7). Anche tutte le altre occupazioni manuali erano svolte dai monaci, e tutte dentro l'area del monastero, essendo le proprieta` adiacenti alla casa e non molto estese. Il lavoro in genere veniva svolto in silenzio, ma e` previsto che il superiore "per un po` di sollievo potra dare il permesso di parlare di cose necessarfie e decenti, ma senza schiamazzo" (c.7).

Nel lavoro agricolo era compreso lo sfruttamento dei boschi (i primi monasteri erano "nelle selve" <in silvis> e delle colture spontanee, come ad esempio lo scotano (per la concia delle pelli). Ricordiamo a questo proposito l'apporto dei primi silvestrini all'industria cartaria di Fabriano, avendo essi installato nei loro terreni delle "gualchiere' in proprio.

Dobbiamo pero` credere che il lavoro non fosse uguale per tutti i monaci. I conversi certamente facevano i lavori piu` pesanti, e forse potevano esercitare un'arte specifica (ma non sappiamo con certezza quale; le Costituzioni parlano di diverse officine nel monastero, ma cio` non e` una prova di per se` apodittica, potrebbero essere formule stereotipate). L'attivita` artistica merita comunque di essere ricordata; pensiamo al caso di Fra Bevignate, ideatore della Fontana Maggiore di Perugia, del primo disegno del Duomo di Orvieto e di altre opere; egli nei suoi lavori era coadiuvato da altri confratelli. Alcuni monaci ebbero incarichi delicati dai Comuni, come quelli di economi, sovrintendenti ai lavori pubblici, ecc.

I monaci corali, pero`, si dedicavano di piu` allo studio; anzi pare che il lavoro intellettuale man mano acquisto` sempre piu` importanza, come e` testimoniato dalle prime Costituzioni (c.5 della V "Distinctio"), e in seguito da vari decreti dei Capitoli Generali (in cui non si accenna quasi piu` al lavoro manuale, ma allo studio e al lavoro apostolico). Ci si teneva molto, nella Congregazione, alla formazione intellettuale dei monaci, e per questo non si badava a spese; nei decreti di un capitolo generale (del 1318?), si parla anche di istituire degli scriptoria in determinati monasteri per la traduzione dei libri teologici (sono rimasti, quale testimonianza, alcuni codici nell'archivio di Montefano, contenenti opere teologiche e filosofiche).

Nel corso dei secoli questa linea si e` mantenuta e ci sono stati nella Congregazione uomini di cultura che acquistarono discreta fama come eruditi e scrittori; molti monaci si dedicarono all'insegnamento non solo nelle scuole interne del monastero per i novizi e per i professi, ma anche aprendo scuole pubbliche (all'inizio del sec.XVII presso S.Benedetto di Fabriano e S.Benedetto di Cingoli, cf. U.PAOLI, p.107, nota 63); altri monaci insegnavano nei seminari.

Oltre il lavoro intellettuale e manuale, i monaci silvestrini si orientarono verso l'attivita` apostolica, a partire dalla fine del sec.XVIII, sotto l'influsso delle circostanze che portarono tutti i monaci, in quel secolo, in tale prospettiva. I silvestrini si dedicarono alla predicazione molto presto, cominciando dallo stesso Fondatore; in quanto alla cura d'anime sistematica e vincolante, non pare si possa risalire a S.Silvestro, il quale forse in questo fu molto cauto; una evoluzione lenta e ancora contenuta si registra sotto il B.Bartolo e poi con il Ven. Andrea; la prima parrocchia affidata ai monaci silvestrini sembra essere stata quella di S.Maria Nuova di Perugia (1296), poi S.Marco di Firenze (1300). In seguito, il lavoro parrocchiale diventa normale; ad esempio, nel sec.XVII, dei quindici monasteri silvestrini esistenti, almeno la meta` avevano annessa la parrocchia.

In tale evoluzione del lavoro dei Silvestrini (e di altri Benedettini), i lavori manuali e piu` pesanti rimangono affidati ai conversi, i quali si occupano della cucina, della portineria, del lavoro dei campi, delle pulizie. Le Costituzioni del 1618 parlano, si`, di lavoro manuale per tutti, ma ammettono le eccezioni e in realta` i monaci sacerdoti, compiuti gli studi, si dedicavano alla predicazione, all'insegnamento nelle scuole interne di filosofia e teologia e anche nelle scuole pubbliche, e alla cura d'anime nelle parrocchie. Nel secolo scorso (1845), fu intrapreso dalla Congregazione il lavoro missionario nell'isola di Ceylon (ora Sri Lanka).In Italia, nel secondo dopoguerra, fu iniziata l'attivita` assistenziale dei collegi, attivita` che e` durata fino ai nostri giorni.

Concludendo, la Congregazione Silvestrina, sorta nel sec.XII, prese, ritenendole pienamente attuali, le direttive della Regola benedettina riguardo al lavoro, soprattutto sotto l'influsso di Citeaux, che ne aveva fatto un punto programmatico, nello sforzo di ritornare alle fonti e per una pratica piu` coerente della poverta`. Pero`, proprio in quel secolo, entravano nella prospettiva del lavoro monastico anche altre occupazioni (oltre a quelle manuali); una comunita` a carattere clericale deve rispondere ad esigenze che S.Benedetto non poteva prevedere del tutto; per i monaci del '200-'300, il lavoro intellettuale, lo studio e l'apostolato non erano voci indifferenti, ed essi furono indotti dalle circostanze storiche e dagli orientamenti dei Pontefici ad un piu` esplicito impegno ecclesiale.

Quindi, l'attivita` dei monaci silvestrini si sviluppo` su queste tre linee direttrici: lavoro manuale - lavoro intellettuale - lavoro apostolico. Certamente all'inizio fu privilegiata la dimensione contemplativa e di vita ritirata; e sempre furono messi in primo piano i valori monastici della preghiera comune e delle meditazione, che devono armonizzarsi con il lavoro. Ma questo e` un problema di sempre, di allora e di oggi, e che riguarda tutto il mondo monastico, e di cui trattiamo nel punto seguente.

 

V. PROBLEMI ATTUALI

Gia` si e` detto della complessita` del problema del lavoro per i monaci, gia` all'inizio del monachesimo, e poi lungo i secoli. Lo stesso vale per oggi, e forse in maniera piu` accentuata. Nell'affrontare l'argomento, oggi va tenuto conto anzitutto della mentalita` diversa riguardo alla concezione del lavoro: non si tratta piu` soltanto del lavoro come ascesi o esercizio di penitenza (cioe` aspetto negativo del lavoro, ma anche e soprattutto della sua valorizzazione positiva come creativita`. Una spiritualita` del lavoro secondo una mentalita` nuova l'abbiamo nella "Gaudium et Spes" <GS> nn.33-39, ripresa da Giovanni Paolo II nella enciclica Laborem exercens del 1981, nn.24-27. Gli elementi essenziali di questa spiritualita` si possono cosi` schematizzare:

- l'uomo con il suo lavoro partecipa all'opera del Creatore e realizza se stesso;

- il lavoro trova la sua piena spiegazione alla luce del mistero pasquale di morte e risurrezione: quindi lavoro nella sua parte negativa di sofferenza e fatica e nella sua parte positiva di elevazione, partecipazione creativa, ecc.;

- Cristo e` l'uomo del lavoro, che sperimenta il lavoro e dal mondo del lavoro prende immagini e linguaggio per il suo insegnamento;

- il lavoro ha anche un'altra dimensione: e` un esercizio della carita`; ogni lavoro fatto con rettitudine di intenzione, con serieta` e responsabilita`, va a beneficio del prossimo;

- il cristiano sa che il suo lavoro serve non solo al progresso terreno, ma anche allo sviluppo del Regno di Dio (GS.39; LE.27).

A questa visuale del lavoro aggiungiamo ancora il superamento - almeno in teoria - del dualismo tra lavoro manuale e ogni altro genere di lavoro. Di fatto, per gli antichi, solo il lavoro manuale era considerato lavoro ed era retribuito (lo studio, la cultura, l'arte, appartenevano piuttosto alla categoria degli "otia", a cui si dedicavano gli uomini "liberi"). Oggi, per lavoro, si intende qualsiasi attivita` dell'uomo (cf.LE.5-7, passim) o manuale o intellettuale o nel settore dei servizi o nella ricerca scientifica, pura e applicata.

Tutto questo e` importante per inquadrare il lavoro monastico oggi. Tentiamo ora qualche riflessione, anche sotto forma di questione o di difficolta`.

1. - Il monaco non e` un uomo astorico, e` un uomo del suo tempo, e come tale deve agire. Ebbene, oggi c'e` una nuova coscienza del lavoro e dei lavoratori, i quali, a tutti i livelli, dal tecnico al semplice contadino, sanno che la loro attivita` serve al bene di tutti, e il fatto del lavoro si sente molto di piu` come un titolo di gloria e di autorealizzazione. Di qui la reazione violenta contro i parassiti della societa`; tra questi, spesso sono considerati tutti coloro che si consacrano al Signore, e c'e` nella gente l'idea che la vita religiosa e` una vita comoda e senza problemi sotto l'aspetto economico. Forse questo ha provocato negli ultimi tempi una certa crisi in religiosi e sacerdoti, con il conseguente impegno in compiti assistenziali, culturali e lavorativi a tempo pieno (vedi per esempio i "preti operai").

Anche qui appare subito la doppia faccia del problema. Non si nega che forse alcune accuse sono fondate, non si nega che il monaco deve tener conto di questa realta` sociale e adattarvisi, cercando di offrire una testimonianza di un lavoro (di qualsiasi genere) serio e impegnato. D'altra parte, pero`, il monaco non puo` contentarsi solo di non essere un "parassita" della societa`: deve essere un testimone vivo della presenza di Cristo nel lavoro.

Oggi la societa` corre il rischio di essere vittima delle sue stesse conquiste; il desiderio di possedere sempre di piu`, puo` portare a una idolatria del lavoro, fino a rendere l'uomo schiavo e abbrutito. Il monaco deve dimostrare di saper lavorare seriamente e con impegno, ma nella pace, nella liberta` di spirito, facendo del lavoro non uno strumento di dominio, ma di servizio.

Illuminante potrebbe essere il n.20 dell'esortazione apostolica di Paolo VI sulla vita religiosa Evangelica Testificatio: ""Un aspetto essenziale della vostra poverta` sara` quello di attestare il senso umano del lavoro, svolto in liberta` di spirito, e restituito alla sua natura di mezzo di sostentamento e di servizio. Non ha messo il Concilio, molto a proposito, l'accento sulla vostra necessaria sottomissione alla "legge comune del lavoro"? Guadagnare la vostra vita e quella dei vostri fratelli o delle vostre sorelle, aiutare i poveri con il vostro lavoro: ecco i doveri che incombono su di voi. Ma le vostre attivita` non possono derogare alla vocazione dei vostri diversi istituti, ne` comportare abitualmente lavori che siano tali da sostituirsi ai loro compiti specifici. Esse non dovrebbero neppure trascinarvi in alcuna maniera verso la secolarizzazione, con detrimento della vita religiosa.""

2. - Ma quale lavoro per i monaci, oggi? I monaci cenobiti, per essere autentici, devono vivere del proprio lavoro. Tale principio e, per il momento storico attuale, di grande importanza. Cio` non significa che il lavoro prettamente monastico sia o debba essere quello "manuale"; ogni volta che si cerca di stabilire lo "specifico" del monaco si rischia di fallire. In teoria il monaco puo` dedicarsi a qualsiasi attivita`; la storia e` molto eloquente riguardo a questo fatto: la vita monastica ci presenta un meraviglioso pluralismo di attivita` e di opere compiute dai monaci.

Il principio di fondo e` che ogni lavoro, per essere autenticamente monastico, deve permettere al monaco di essere sempre fedele alla sua vocazione. Ora, come nel monachesimo antico, si puo` cadere nei due eccessi: da una parte, sotto l'influsso della mentalita` efficientista ed economicista di oggi, si puo` correre il rischio del troppo lavoro, del lavoro affannoso che assorbe completamente le forze dei monaci, cosi` da non lasciare tempo e spazio (psicologico) per la lettura, lo studio, le riunioni di famiglia, l'aggiornamento, ecc...

Non possiamo fare il paragone tra la nostra attivita` e l'orario di fabbrica! Se un monaco fa otto ore di lavoro pesante (di qualsiasi tipo, anche apostolico), non si puo` pretendere che possa dedicarsi poi con impegno alla preghiera comune, alla lettura divina e a un po` di studio per la sua formazione permanente. E' un'illusione! In questo, non dobbiamo essere influenzati dalle pressioni dell'ambiente, dalla mentalita` corrente, dal giudizio - o pregiudizio - della gente: il "mondo" non potra` mai capire che il monaco deve dedicare il tempo migliore della sua giornata alla preghiera comune: difficilmente la gente potra` valutare ore e ore passate in coro.

Non dimentichiamo che chi viene al monastero, come postulante o come ospite, spera di trovarvi un clima di pace, di serenita`, di uomini centrati in Dio, e non un clima da grande azienda piu` o meno prospera o da societa` per azioni. Non si puo` organizzare il monastero partendo dalla efficienza economica, ma, al contrario, dal criterio della schola dominici servitii, luogo dove soprattutto si cerca Dio.

D'altra parte, si puo` correre l'altro rischio - come fu ugualmente nel monachesimo antico - di una mancanza di lavoro, il rischio che l'"otium cum dignitate" per "vacare Deo" si trasformi in un "dolce far niente" di gente che vive di rendita. La pace degli individui e delle comunita` si ottiene quando si giunge all'equilibrio con una armonica combinazione tra Opus Dei, lectio divina e lavoro, come sapientemente aveva previsto S.Benedetto.

Le condizioni di oggi, la societa` attuale, l'ambiente particolare in cui si vive, le istanze della Chiesa locale ai monaci, le suggestioni dello Spirito, l'attenzione ai segni dei tempi, richiederanno dei cambiamenti: ristrutturazione dell'attivita` economica, nuova disposizione dell'orario giornaliero, in considerazione specialmente del "fenomeno urbano"; ma bisogna salvaguardare comunque quell'equilibrio tra i tre cardini della giornata monastica, cosi` come essa e` concepita nella nostra vita benedettina. Allora la comunita` cenobita potra` esprimere in maniera piu` leggibile cio` che il monachesimo e` realmente, e cio` in cui crede con fermezza.

3. - Quando si scende al concreto, e` molto piu` difficile - se non impossibile - stabilire quali lavori siano piu` confacenti allo stato monastico. Il monaco e` un uomo alla ricerca continua dell'incontro con Dio; ora, questo avviene attraverso la preghiera liturgica, comunitaria, la meditazione assidua della Parola di Dio, l'incessante orazione personale, la carita` fraterna nella vita comune e il lavoro. Ebbene, quale lavoro puo` salvaguardare questo ideale? Tralasciamo in questa sede il problema del lavoro apostolico sistematico: "parrocchia si` - parrocchia no", Non credo ci sia una soluzione come stanno oggi le cose. C'e` in questo campo un pluralismo monastico molto vasto. La nuova linea evolutiva del monachesimo, cioe` la storia futura, potra` dire qualche parola in piu`.

Ma consideriamo anche un'attivita` di lavoro manuale o aziendale. Oggi essa richiede, per la complessita` della vita moderna, un contatto frequente con i mezzi di produzione, di commercializzazione, di distribuzione, con grattacapi, preoccupazioni, dispersivita`, dato che entrano in gioco direttamente componenti di tipo economico, la competitivita`, il rendimento, ecc... Non credo sia molto semplice dare una risposta; e tuttavia un ritorno a una linea piu` contemplativa del monachesimo deve necessariamente misurarsi col problema del lavoro nel monastero.

E allora, quali potrebbero essere i lavori piu` appropriati per i monaci? (Riassumiamo l'ultima parte dell'articolo di PASCUAL in "Yermo" 13 (1975) nn.1-2, pp.349-351; il volume raccoglie gli Atti della XII Settimana di studi monastici del 1971 nel monastero di Leyra in Navarra, incentrata tutta sul lavoro monastico).

Il principio generale e` che, salvi i diritti primordiali dell'Opus Dei, della lettura e degli esercizi regolari, il tempo restante si dedichi al lavoro, lavoro compatibile con la vita monastica. Bisogna tener conto che il giovane che entra in monastero oggi, desidera una vita di maggior raccoglimento, di unione con Dio in maggiore silenzio e si mostra piu` perplesso di fronte a cose che forse una volta entravano, come elementi accessori, in molte vocazioni, ad esempio la grandiosita` e la fama del monastero, le investigazioni scientifiche, ecc., e si sente deluso qualora dovesse ritrovarsi nel monastero con lo stesso ritmo agitato, frenetico, con tensioni, ansie, che ha lasciato nel mondo. Non si vuol dire con questo che desidera una vita comoda (la vita in monastero con l'orario e la vita comune, se si segue con impegno, non e` affatto una vita comoda), ma solo che ci sia una gerarchia di valori in persone e in ambiente che si dicono votati al servizio di Dio.

4. - Lavoro intellettuale, o lavoro manuale? L'uno e l'altro possono essere pienamente monastici se sono fatti seriamente e nelle condizioni di un'autentica famiglia monastica; l'uno e l'altro possono essere incompatibili se si praticano come semplice passatempo e hobby, oppure si trasformano in fine. Il lavoro intellettuale, fatto con responsabilita` e serieta`, e` un lavoro duro, sufficiente a realizzare l'aspetto penitenziale del lavoro in una persona normale. In questo senso non e` un lavoro di tutti. Tuttavia e` un tipo di attivita` che non dovrebbe mai mancare in nessun monastero, ne` si deve minimizzare per principio. Sarebbe funesto: il livello culturale, e anche quello spirituale, dei nostri monasteri scadrebbe immediatamente. Una comunita` che non e` capace di dare spazio a coloro che hanno avuto da Dio la vocazione del lavoro intellettuale - e lo stesso si puo` dire dell'arte - dimostrerebbe una carita` molto gretta. Nelle comunita` esiste una specie di osmosi, uno scambio di idee: la cultura dei monaci dedicati allo studio, la vita comune con essi apportera` insensibilmente una elevazione culturale, morale, spirituale di tutta la comunita`.

Il lavoro manuale sara`, senza dubbio, l'occupazione della maggioranza (eccetto, e` ovvio, i monasteri che hanno parrocchie o scuole). In tal caso , quale tipo di lavoro manuale? Il lavoro dei campi ha avuto una certa predilezione nella tradizione monastica. Ora, se si tratta di orti p di campi vicino al monastero che siano redditizi e sufficienti per il monastero senza un'eccessiva meccanizzazione e industrializzazione, lo possono fare agevolmente i monaci da se stessi. Ma nel caso di una grande azienda con investimenti colossali in macchinari e strutture (altrimenti non sarebbe redditizio non essendo competitivo), ci possono essere reali perplessita`; si corre il rischio che i monaci siano assorbiti eccessivamente, e inoltre che ci sia una controtestimonianza della poverta`.

Lo stesso dicasi per i lavori di tipo industriale, a livello di gramde industria. Dice Maritain: "Mi pare che l'industrializzazione dei grandi monasteri, i quali nella vendita dei loro prodotti sul mercato si trasformano in competitori delle grandi ditte moderne, sia una via pericolosa e contraria allo spirito di poverta`. Cio` pone i monasteri sullo stesso piano delle grandi industrie, che sono uno dei maggiori centri di ricchezza e di potere". (In: AA.VV., Visioni attuali sulla vita monastica, Montserrat 1966, p.200).

Diverso e` il caso quando si vendono i prodotti artigianali del monastero. Alcune comunita`, poi, soprattutto femminili, hanno trovato una soluzione facendo dei lavori per conto di alcune ditte: queste forniscono la materia prima e si incaricano di tutto il settore della distribuzione e commercializzazione, la comunita` percepisce uno stipendio per il lavoro svolto (ma anche in questo caso ci sono molti problemi). Si potrebbero fare altre esemplificazioni, ma bastano quelle accennate; del resto ogni comunita` deve vedere concretamente il tipo di lavoro ad essa piu` adatto.

5. - Lavoro e spirito di famiglia. Accenniamo ora ad un altro aspetto molto importante del lavoro monastico: lavoro e spirito di famiglia. Puo` accadere che si stabiliscano anche nelle comunita` monastiche delle divisioni a causa del lavoro; o dualismo (come nella societa`) tra coloro che fanno lavoro manuale e coloro che fanno lavoro intellettuale; o ancora lo spettacolo di monaci sovraccarichi di lavoro da una parte e, dall'altra parte, di monaci che si sentono vuoti e inutili per mancanza di attivita`. Si tratta di peccati contro la carita`. Nella famiglia monastica si deve avere una totale comunione in tutto. Questo non significa livellamento. Ci vuole spirito di famiglia: il lavoro produttivo di alcuni puo` permettere ad altri di dedicarsi a lavori molto importanti, ma non lucrativi. Certi lavori scientifici o di erudizione sono un servizio che i monaci fanno a tutta la chiesa, e contribuiscono anche al buon nome del monastero: ma normalmente non producono benefici economici, anzi gravano sulle finanze della casa.

La forma migliore per lo spirito di famiglia in questo campo, e` la cogestione, nel senso che tutta la comunita` intervenga nello scegliere e programmare il lavoro; se solo i superiori o alcuni monaci organizzano un lavoro, e` facile che la maggior parte si senta non responsabile, quindi si disinteressa e non partecipa a quell'attivita`. La carita` fraterna e lo spirito di famiglia vanno verificati anche in questo fatto del lavoro.


CONCLUSIONE

Non crediamo di aver esaurito in questa esposizione tutti gli aspetti del lavoro in rapporto alla vita monastica. Il problema e` molto complesso e ha mille facce, che vanno tenute presenti. Al di la` delle varie questioni e difficolta`, rimane il fatto per il monaco di inserire la sua attivita` - qualunque essa sia - in una visuale di fede (alla luce del "Vangelo del lavoro" ultimamente messo in risalto dalla enciclica Laborem Exercens, soprattutto nn.24-27), ricondurla al mistero pasquale di morte e risurrezione di Cristo, con l'aspetto di fatica-sacrificio e di creativita`- realizzazione, impegnandosi seriamente, ma sempre proiettato in una dimensione ultraterrena.

Il monaco deve sentire che il lavoro e` una componente essenziale della giornata monastica e diventa lavoro orante, perche` le ore dell'Ufficio divino santificano tutto cio` che il monaco fa: "Qualunque cosa facciate, fatela di cuore come per il Signore e non per gli uomini" (Coloss.3,23) e "In omnibus glorificetur Deus" (1Piet.4,11 citato in RB.57,9).

 

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NOTA BIBLIOGRAFICA

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EXCURSUS sulla LECTIO DIVINA
(Appendice al c.48 di RB)

SOMMARIO: Introduzione - I: Concetto generale. Il metodo dei Padri. L'esegesi spirituale. - II: Disposizioni fondamentali per la lectio divina. - III: I vari momenti della lectio divina: 1) lectio; 2) meditatio; 3) oratio; 4) contemplatio. - IV: Alcune difficolta`. - Conclusione.

INTRODUZIONE

Il motto divenuto tradizionale per i Benedettini (ma non c'e` nella Regola, ne` e` stato coniato dai monaci, ma applicato ad essi da altri), cioe` "ORA et LABORA", passa sotto silenzio la "LECTIO DIVINA" (=l.d.), alla quale la Regola di S.Benedetto (=RB) e tutta la tradizione monastica accordano una particolare attenzione. San Benedetto (=SB), stabilendo nel c.48 l'orario del monaco, distribuisce tra il lavoro e la l.d. il tempo rimasto libero dalla preghiera. Per molto tempo, durante il periodo patristico e l'alto medioevo, la pratica della l.d.fu continua e molto sentita tra i monaci e fuori; man mano, a partire dal sec.XII, divenne piu` rara e scomparve del tutto all'epoca del massimo sviluppo della "devotio moderna" (sec.XV), quando la spiritualita` trovo` una forma di preghiera nuova e l'orazione mentale divenne un esercizio di pieta` che non si alimentava piu` principalmente alla Bibbia. Tutto questo e` durato fino al movimento biblico del sec.XX con il ritorno alla S.Scrittura; tra il 1940 e il 1950, con lo sviluppo del movimento liturgico francese, la formula si diffuse di nuovo largamente tra i monaci e fuori.

Il nostro tempo ha dunque riscoperto l'importanza almeno - se non ancora la pratica abituale e sapienziale - della l.d., soprattutto dopo la Costituzione dogmatica "Dei Verbum" (=DV) sulla divina rivelazione del Concilio Ecumenico

Vaticano II, che e` tutta nutrita di termini e di idee fornite dalla tradizione della l.d. nelle diverse epoche; si puo` dire che tutta la parte finale della DV ne raccomandi la pratica. Nelle "Proposte" approvate dal Congresso degli Abati del 1967 ("La vita benedettina"), la l.d. e` presentata come una delle attivita` principali del monaco, insieme alla preghiera e al lavoro. Cosi` si e` tornati - almeno a livello di convinzione - alla triplice articolazione della giornata monastica: PREGHIERA - LECTIO - LAVORO.

 

I. CONCETTO GENERALE. IL METODO DEI PADRI. L'ESEGESI SPIRITUALE.

Che cos'e` dunque la l.d.? E` un modo particolare di accostarsi alla Parola di Dio, in vista soprattutto della preghiera, e l'ascolto-risposta di (quindi colloquio con) Dio attraverso la parola scritta: "Nei libri sacri il Padre (...) viene incontro ai suoi figli e discorre con loro" (DV.21). Per i Padri della Chiesa e del monachesimo era una cosa familiare e normale: il contatto continuo, amoroso con la parola di Dio, fino ad assimilarla e a farsene assimilare. Per questo nella Regola non si puo` trovare una dottrina sistematica della l.d., perche` questa e` data per scontata; si dice soltanto ripetutamente (RB.48,1. 4. 10. 13. 14. 17. 18. 22) "vacare lectioni" <dedicarsi alla lettura>, oppure "in lectione divina" <nella lettura divina>. In senso proprio e stretto, denotava la lettura della S.Scrittura.

Fin dalle origini del monachesimo, la Bibbia e` stata il libro dei monaci anacoreti e cenobiti; i grandi maestri inculcarono la necessita` della lettura frequente e assidua; chiamata "alimento celestiale", "pane caduto dal cielo", "pane e sangue di Cristo", la Scrittura costituiva lo strumento imprescindibile - e spesso unico - della formazione del monaco, e del suo itinerario spirituale fino all'incontro con Dio. Divinae vacare lectioni <dedicarsi alla (o "essere libero" per la) lettura divina> era la formula con cui si indicava questa lettura approfondita del monaco, questa assimilazione della parola di Dio attraverso la lettura.

S.Pacomio aveva stabilito che tutti nel monastero sapessero a memoria alcuni passi della S.Scrittura e, come minimo, il NT e il salterio; questo era il programma comune, e generalmente venne rispettato in seguito da tutti i monaci.

La Bibbia costituiva la lettura essenziale, frequente, assidua dei monaci e della Chiesa tutta. Nel medioevo non abbiamo che una esegesi molto imperfetta, se la paragoniamo a quella di oggi, resa possibile dai progressi della filologia e delle altre scienze moderne. Eppure allora la Scrittura alimentava abbondantemente la vita dei monaci e della Chiesa in genere, soprattutto attraverso una esegesi spirituale. Per i monaci dell'antichita` e del medioevo, la Bibbia non puo` essere separata dai commentari che ne hanno fatto i Padri della Chiesa; i loro scritti sono spesso designati semplicemente come "expositiones" <esposizioni> dei libri sacri, perche` qualunque sia il genere letterario da essi adottato, non hanno fatto altro che spiegare versetti della Scrittura.

In pratica i monaci avevano una familiarita` tale con la Scrittura, da esserne veramente "impastati": indubbiamente la Bibbia era il libro del monaco, e il monaco l'uomo della Bibbia; la sua preghiera consisteva spesso nel ripetere lentamente, "gustandoli", versetti della Scrittura (la cosiddetta "ruminatio", come piu` avanti vedremo). Alla base di questo interesse primordiale e quasi esclusivo verso la Bibbia, c'e` la convinzione che esiste un legame stretto tra vita monastica e parola di Dio; e in particolare la convinzione dell'unita` tra le varie fasi dell'economia divina: dall'AT in su`, e` la stessa storia della salvezza, che ha il suo culmine nel mistero pasquale di Cristo, al quale ogni monaco, ogni cristiano, partecipa, facendo suoi i misteri di cui parlano le Scritture; in un certo modo lo stesso Spirito di Dio, che ha ispirato gli autori dei libri sacri, continua ad agire in coloro che li leggono e che cercano di ripetere quella esperienza di cui parlano i sacri testi.

I monaci soprattutto vedevano la loro vita in questa linea: vita monastica come "Historia Salutis" <Storia della Salvezza>. (Si veda, su questo, lo studio fondamentale e bellissimo di B.CALATI, Historia salutis, in: Vita Monastica 12 (1959), n.56, pp.3-48, l'intero fascicolo). Tutta la Scrittura, quindi, va vista nell'unita` dell'AT e del NT, alla luce del mistero di Cristo e della Chiesa: l'AT va letto come preparazione al Nuovo, come una grande storia profetica, unica grande profezia che annuncia Cristo, la Chiesa e noi, cioe` che Cristo, la Chiesa e noi esprimeremo in tutta la pienezza di fede, nella speranza del compimento glorioso. Cristo e` la chiave dei Testamenti, perche` Egli e` la Parola definitiva di Dio, la Parola <il Verbo> fatta carne nella pienezza dei tempi, in cui tutte le promesse di Dio e le parole precedenti hanno avuto il loro compimento: "Lui che cerco nei libri", diceva S.Agostino.

Ma il mistero di Cristo continua nel mistero della Chiesa e nella vita di ogni singolo credente, che sono la continuazione-attualizzazione del mistero della salvezza. Quindi tutta la Scrittura viene letta come annuncio-profezia di Cristo, della Chiesa, del cristiano. Questo e` il metodo dei Padri, dalla cui riflessione e` scaturita la dottrina dei diversi "sensi biblici": la tradizione medioevale ne conosce quattro:

- senso letterale ("littera gesta docet" <la lettera insegna i fatti>);

- senso allegorico ("quid credas, allegoria" <l'allegoria insegna cio` che devi credere>);

- senso morale ("moralis quid agas" <il senso morale ti insegna come comportarti>);

- senso anagogico, cioe` escatologico o contemplativo ("quo tendas, anagogia" <l'anagogia ti insegna a cosa devi tendere>).

Il senso letterale e` la "corteccia", gli altri tre costituiscono l'approfondimento, il senso spirituale. Caratteristico della tradizione monastica e` l'accentuazione dell'aspetto esperienziale e dell'aspetto escatologico. Maestro per eccellenza di questo senso spirituale della S.Scrittura e` stato S,Gregorio Magno (cf. B.CALATI, S.Gregorio Magno e la Bibbia, in AA.VV., Bibbia e spiritualita`, Ed. Paoline, Roma 1967, pp.121-178); i suoi commentari biblici ci dimostrano il senso profondo che egli scopre nella Scrittura, intendendo la vita spirituale come compimento della storia sacra in ogni fedele. Alcuni testi: "Queste cose che crediamo avvenute storicamente, speriamo anche che si realizzeranno misticamente" (Moralia, libro 35, c.XV, n.35); "(...) oltre il senso letterale, tutte le cose scritte, per disposizione dello Spirito Santo <dispensatione Sancti Spiritus!>. E Beda il Venerabile commentava cosi` il brano di Gregorio: "egli ha spiegato il libro (di Giobbe) secondo il senso letterale, e come va riferito ai misteri di Cristo e della Chiesa e come va applicato a ciascun fedele" (Storia di Inghilterra, libro II, cap.1).

Ecco: e` il mistero di Cristo, della Chiesa e ci ciascuno di noi. A questo criterio deve ridursi il valore teologico della l.d. nel senso di lettura "oggettiva", cioe` adattare se stesso a cio` che dice la Bibbia, rivivere tutte le avventure del popolo eletto, tutto il Vangelo, la vita degli Apostoli, ecc.; cioe` la Scrittura ci da` il mezzo per passare attraverso le esperienze religiose dei personaggi di cui parla, e queste sono le piu` varie, possono quindi rispondere ai bisogni di tutti, di tutte le eta` e di tutte le situazioni spirituali. L'anima deve provare gli stati d'animo interiori dei santi dell'Antico e del NT, realizzare i loro atti, riprodurre le loro virtu`, imitare le loro penitenze.

Un esempio tipico di questo senso spirituale a cui e` diretta la l.d., l'abbiamo nel II Libro dei Dialoghi. E` il "vir Dei Benedictus", specialmente, che Gregorio ci presenta, come la formula piu` viva del senso spirituale e del senso pieno della Scrittura. Benedetto e` l'uomo e l'esperienza viva della "unita` dei Testamenti". Nuovo Mose`, nuovo Eliseo, nuovo Elia, nuovo David, nuovo Pietro, "questo uomo fu davvero ripieno dello spirito di tutti i giusti", ma ripieno specialmente delle Spirito di Gesu`, nel quale si unificarono i due Testamenti:

"L'uomo di Dio Benedetto ebbe un unico Spirito: quello di Colui che mediante la grazia della redenzione, riempi` i cuori di tutti gli eletti (...), di lui e` scritto: 'dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto'" (II.Dial.c,8).

Cosi` i Padri intendevano questa unione intima con la Scrittura. Bisogna vivere tutta la Bibbia, partecipare interamente a cio` che si legge. Si veda ancora questo testo meraviglioso di Cassiano: "Fortificato da questo cibo, (il monaco) penetra a tal punto nei sentimenti espressi dai salmi, che egli li recita ormai non come composti dal profeta, ma come se fosse lui stesso l'autore, come un'opera personale nella piu` profonda compunzione; o almeno pensa che i salmi sono stati composti apposta per lui, e capisce che cio` che i salmi esprimono, non si e` avverato solo in tempi lontani nella persona del profeta, ma trova anche in lui al momento presente il suo compimento" (Coll.X,11). Se tutto cio` e` vero dell'AT, a piu` forte ragione vale per il NT, per Cristo; il Vangelo ci offre l'occasione di penetrare il consiglio di Paolo: "Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo" (Filip.2,5). Ecco come tutta la Bibbia si legge come un unico filo conduttore, con l'occhio cioe` illuminato dal carisma profetico, come mistero di storia sacra, storia della salvezza, che dovra` compiersi fino al ritorno glorioso di Gesu`.

 

II. DISPOSIZIONI FONDAMENTALI PER LA LECTIO DIVINA

Con questa mentalita` dobbiamo accostarci anche oggi al sacro testo. Il Concilio ricorda che la S.Scrittura deve "essere letta e interpretata con l'aiuto dello stesso Spirito, mediante il quale e` stata scritta" (DV.12). E` la disposizione fondamentale davanti alla parola di Dio: va letta nella fede, va penetrata attraverso l'intervento dello Spirito Santo, come parola che viene da Dio e a Dio conduce. Il monaco, che deve essere soprattutto l'uomo dell'ascolto, e` attento alla parola di Dio per accoglierla, custodirla, metterla in pratica, produrre frutti (Mt.13,23). "Scopo della lectio divina e` la ricerca di Dio nella parola scritta.

Percio` la lectio in tutta la tradizione monastica e` ritenuta uno dei mezzi piu` comuni e caratteristici della vita dei monaci" (La Vita Benedettina, Congresso degli Abati 1967, n.19 c). Riportiamo anche quest'altra recente descrizione della l.d.: "Si tratta di una lettura meditata, soprattutto della Bibbia, e prolungata in preghiera contemplativa. Questo tipo di lettura sapienziale ha occupato in ogni tempo un posto importante, per non dire essenziale, nella vita spirituale, in particolare nella vita dei monaci" (J.M.DELVAUX, Lectio divina, in Collectanea Cisterciensia 33 (1971) 104).

Notiamo quindi che la l.d. non e` solamente la lettura o lo studio della Scrittura: e` la ricerca di Dio nella sua parola scritta. Una lettura, sia pur spirituale, che ha per scopo la preparazione di una conferenza, di un articolo o dell'omelia, oppure la curiosita` erudita o estetica, non risponde alla definizione della l.d. Essa vale non per quello che ci fa acquisire (avere), ma per quello che ci fa diventare (essere). Ecco perche` si parla di lettura "sapienziale" (e la 'Sapientia' e` gusto delle cose di Dio, un dono dello Spirito Santo), e` una contemplazione delle Scritture, una lettura in vista della preghiera. Allora e` una lettura sacra e divina. Tradotta in italiano, l'espressione perde un po` della sua forza: "lettura", per noi, e` un termine troppo superficiale; "studio" e` troppo intellettuale; "meditazione" forse sa troppo di psicologistico e di pietistico> E` preferibile lasciare l'espressione "lectio divina" (che include e trascende queste tappe, come vedremo), oppure tradurre: "pregare la Parola" (come nel titolo del libro di E.BIANCHI).

Evidentemente la Bibbia e` l'oggetto "primordiale", nel senso di principale e fondamentale della l.d.; ma l'orizzonte si puo` allargare: "la l.d. deve avere per principale oggetto la S.Scrittura; tuttavia abbraccia anche con molta larghezza i Padri, la tradizione, gli esempi e la dottrina dei santi, la riflessione sempre viva della Chiesa nel corso dei secoli" (La Vita Benedettina, o.cit., n.19 d). Perche`, in fondo, la lectio non e` divina in ragione del testo letto, ma in ragione del modo con cui il testo viene letto. Leggere la Bibbia per semplice curiosita` intellettuale o per spirito polemico, non e` l.d.; leggere il giornale per discernere, attraverso gli elementi politici e i vari avvenimenti, i "segni di Dio" nella storia, puo` essere l.d.; in questo caso si tratterebbe di leggere la storia quotidiana al modo dei profeti d'Israele!.

Alcuni testi ci aiuteranno a comprendere meglio alcuni aspetti della l.d.

- In Neemia 8,1-12 possiamo notare una specie di teologia della liturgia della parola. Dopo il ritorno dall'esilio, inizia una nuova fase storica per tutto Israele, e questo avviene con una solenne liturgia a cui tutto il popolo e` invitato (vv.1-2). Dopo una benedizione di lode al Signore, si legge la parola di Dio per una intera giornata, brano per brano, traducendo le parole ebraiche al popolo che conosceva solo l'aramaico, con spiegazione e commento a cura di Esdra e dei leviti. E il popolo, pensando alla sua infedelta` all'alleanza, e` mosso a pentimento e piange. Ecco una caratteristica della l.d.: nella sua parola, Dio si fa presente, tocca e penetra i cuori; allora l'uomo e` disarmato di fronte alla parola di Dio, l'uomo si arrende, immediatamente appare la contraddizione tra l'iniziativa da parte di Dio e l'infedelta` da parte dell'uomo; ed ecco il pentimento; ma e` un pianto salutare per la salvezza; quindi viene la parola di consolazione: "Non piangete..." (v.9).

- In Luca 4,21, Gesu` ci da` un approfondimento del metodo della l.d.: primo, perche` Egli realizza in se` quello che le Scritture dicevano; secondo, perche` Egli riferisce all'"oggi" la parola di Dio. Il brano di Isaia 61,1-2 trova il suo "oggi" nella proclamazione di Gesu`: "Oggi si compie...". Ebbene, la parola di Dio scritta nei libri sacri non e` stata detta - lo sappiamo - solo nel momento in cui Egli parlo` al suo portavoce, ma e` detta (nel senso piu` forte) ogni volta che il testo viene proclamato, in qualunque forma, nella celebrazione liturgica (cf. SC.7; DV.21) o anche nella lettura privata, perche` sempre "la Parola di Dio e` viva, efficace..." (Ebr.4,12; cf. Is.55,10-11).

Dunque Dio parla a me, qui, in questo momento. L'attualizzazione della Parola di Dio per me, "hic et nunc", e` il perno della l.d. "Oggi si compie in voi questa Scrittura": e` il passaggio del Mar Rosso, come la manna del deserto, il vino miracoloso di Cana, la guarigione del sordomuto: "Oggi si compie...". Ecco perche` si parla di lettura personale, di un confronto continuo con la Scrittura. Secondo una definizione assai diffusa nel medioevo attraverso Gregorio Magno, ma la cui partenita` spetta a S.Agostino, la Bibbia e` come uno specchio in cui si deve veder riprodotta l'immagine da seguire e, se da questa si discosta la propria condotta, e` dovere del singolo ridurre o eliminare lo scarto che rende l'uomo difforme dal modello biblico. Il Maestro interiore rivolge a ciascuno un messaggio personale e unico, ma cio` attraverso un messaggio universale, anteriore a noi, che nella Bibbia e` proposto a tutti; tocca quindi a ciascuno farlo individuale, interiorizzarlo, attualizzarlo per se`. Nei racconti e nei libri storici, il lettore confrontera` la sua esperienza con quella dei personaggi biblici, vedra` l'iniziativa di Dio e la risposta dell'uomo: tutto servira` come simbolo della realta` della vita cristiana.

Fra le tante parti cosi` diverse che compongono la Bibbia, ciascuno avra` delle legittime preferenze: chi si nutre molto bene dell'AT, chi del NT, a qualcuno piace particolarmente S.Paolo, a qualcun altro piacciono i Vangeli, chi preferisce i Sinottici, chi Giovanni, qualcuno si ritrova meglio nei libri sapienziali o nei salmi, qualcun altro nei Profeti. Perche` nella Bibbia si trova tutto, ci si puo` riferire a tutti i casi: che ciascuno ponga davanti al sacro testo le questioni e i problemi suoi, e Dio dara` la risposta a lui adatta. Perche` la l.d. e` un dialogo d'amore, il cuore si lascia toccare da cio` che Dio dice; Dio parla e io rispondo: e` una conversazione con una Persona Viva che mi interpella e mi coinvolge in una comunione di vita. Questa e` la grande, suprema esegesi. Questo e` il succo della l.d.

 

III. I VARI MOMENTI DELLA LECTIO DIVINA

Illustriamo ora i vari atti in cui si articola la l.d., come sono stati consacrati dalla tradizione monastica, in quanto si tratta di una lettura meditata e orante della parola di Dio. Nel sec.XII, Guigo II il Certosino ha cosi` sintetizzato le tappe di questo ascoltare-rispondere, che e` poi l'arco di tutta la vita spirituale: 1. Lectio - 2. Meditatio - 3. Oratio - 4. Contemplatio. (Una traduzione italiana della lettera di Guigo, "Scala claustralium" <La Scala dei monaci>, si trova in appendice al libro di E.BIANCHI, Pregare la Parola, pp.75-91).

1. Lettura <Lectio>.

E` il punto di partenza. Per giungere a quella intimita` con la sacra pagina, intimita` di cui si e` parlato sopra, e` necessaria una lettura continua e organica. Tutti gli autori monastici insistono su questo punto, perche` esso e` la condizione preliminare per stabilire col testo un rapporto personale e proficuo. Allora bisogna applicarsi al testo con attenzione, con calma, e soprattutto accostarsi nello spirito. Prima di iniziare la lettura, bisogna mettersi in una disposizione particolare e invocare lo Spirito Santo che venga ad illuminarci. Un autore moderno dice che la parola di Dio ha bisogno di una "epiclesi" (come il pane e il vino). Nella l.d. il credente deve fare questa epiclesi in unione con la grande epiclesi eucaristica. Ci vuole poi fedelta`, continuita`, assiduita`. Bisogna dedicare alla l.d. un tempo, e un tempo adatto, non i ritagli di tempo, nella fretta e nella distrazione. E questo non e` facile oggi; puo` diventare un vero esercizio di ascesi. Deve essere una lettura assidua: e` una condizione indispensabile per la l.d.

Bisogna leggere la Bibbia, soprattutto la Bibbia, leggerla spesso e leggerla interamente. (sfogliare a caso qua e la forse non e` cosa utile), senza trascurare quelle parti dell'AT che forse possono sembrare poco utilizzabili nella vita spirituale. Alle volte saremo tentati di scegliere testi molto densi, ma e` meglio seguire tutte le parti, perche` in tal modo si introduce nella vita interiore un elemento di varieta`; lo spirito umano e` facile ad abituarsi a tutto! Non dimentichiamo poi che la parola di Dio ha la qualita` di essere cibo quotidiano e, come ogni nostro pasto, non sempre ci puo` dare quella soddisfazione e quell'appagamento di cui soltanto in rari momenti ci e` dato di godere. Il caso di aridita` diventa il momento dell'ascolto di Dio nella fede, nel buio della fede; questi "silenzi" di Dio sono salutare, perche` ci fanno comprendere la nostra incapacita` a pregare e ci aiutano a fissare lo sguardo in Dio solo.

Ci vuole dunque assiduita`: leggere e rileggere, perche` la parola di Dio penetri. (Concretamente, si potrebbero scegliere due strade: o seguire il lezionario quotidiano, cosi` si ha anche l'aggancio con la liturgia del giorno; oppure fare la lettura continuativa dei singoli libri della Scrittura; ma anche qui ognuno ha la sua esperienza, lo Spirito soffia dove vuole!). Come risultato di questo contatto continuo con la parola di Dio, si finisce per subire una sorta di condizionamento psicologico con le idee, le immagini, le frasi stesse della S.Scrittura, fino a farci acquistare cio` che si puo` chiamare una "mentalita` biblica", che influisce continuamente sulle nostre scelte.

2. MEDITAZIONE <Meditatio>

Secondo momento, che per altro non si distingue chiaramente dal primo: si passa insensibilmente dalla lettura all'approfondimento. Per gli antichi, la "meditatio" non era quello che noi intendiamo oggi per "meditazione", ma era un esercizio di lettura, di ripetizione, anche pronunziata, delle parole fino a imparare il testo a memoria; "meditatio" nel senso di "exercitatio", ed era un esercizio in cui interveniva la persona intera: il corpo, perche` la bocca pronunziava il testo; la memoria che lo riteneva; l'intelligenza che si sforzava di penetrarne il significato; la volonta` che si proponeva di metterlo in atto nella vita pratica. I Padri parlavano anche di "masticare" la Parola, per essi c'era la famosa "ruminatio" della S.Scrittura, cioe` ritornare sul testo, richiamarne le parole, ritrovare il tema centrale e imprimerlo profondamente nel cuore. Le testimonianze sono numerosissime: Atanasio a proposito di Antonio il Grande, Girolamo, Ambrogio, Agostino, Isidoro,... su su fino al medioevo (nei libri elencati in bibliografia si possono trovare molti testi): cercavano il "sapore" della Scrittura, non la scienza. Giovanni di Fecamp (sec.XI) parla di "gustarla in ore cordis" <'nella bocca del cuore', ma l'espressione e` intraducibile>. Tutte le testimonianze dei Padri vanno viste alla luce del salmo 118: "Nel silenzio della notte medito la tua parola..., nel cuore della notte mi alzo per leggere la tua parola..., medito la tua parola..., desidero la tua parola..., la tua parola e` la mia gioia..., giorno e notte medito la tua parola..., la tua parola mi fa vivere..." (salmo 118, passim).

Come non richiamare qui, quale modello singolare, l'atteggiamento meraviglioso di Maria SS.ma? Lei, l'umile ancella del Signore (Lc.1,38), che ha creduto alla Parola (Lc.1,45), se ne stava in silenzio, ascoltando, meditando e custodendo nel suo cuore cio` che faceva e diceva Gesu` (Lc2,19.51; 11,27-28).

Poiche` si tratta di un lavoro paziente di approfondimento, di "gustare" la parola di Dio, ci serviamo anche degli strumenti culturali e scientifici che abbiamo, e dei commenti patristici e spirituali. Ricordiamoci che il fine e` la meditazione del testo stesso; la comprensione del testo che e` richiesta dalla l.d., dipende dall'intelligenza dell'intera Bibbia, dalla conoscenza della "Scrittura attraverso la Scrittura" (e` il metodo dei Padri), dalla capacita` di lettura mediante concordanze, accostamenti, richiami di testi paralleli. Si provi ad esempio con un brano sulla Bibbia di Gerusalemme, andando a cercare tutti i richiami indicati in margine; si vedra` come l'orizzonte si allarga e pian piano si estra nell'atmosfera della parola di Dio; si crea cosi` uno spazio di risonanza, che illumina e accresce il messaggio e provoca, sotto l'azione dello Spirito Santo, l'intelligenza estensiva e spirituale. S.Gregorio Magno, grande maestro della lettura spirituale della Scrittura,, ha un'espressione bellissima: "Scriptura crescit cum legente" <'la Scrittura cresce con chi legge', Omelia VII su Ezechiele, libro I, n.8>, cioe` le Scritture sante si sviluppano e accrescono nel loro senso e negli annunci profetici di salvezza, a seconda della fede e dell'amore di chi legge.

3. PREGHIERA <Oratio>

I momenti precedenti quasi conducono alla preghiera. In realta` gia` quanto detto finora e` una forma di preghiera; si tratta di prenderne coscienza, ed e` la risposta alla lettura, si entra in conversazione con Dio; la parola e` venuta in noi ed ora torna a Dio sotto forma di preghiera. Ed e` questa la vera preghiera cristiana, quella che sgorga dal cuore al tocco della divina parola. "Cerca di non dire niente senza di Lui" - dice S.Agostino - "ed Egli non dira` nulla senza di te" (Esposizione sul salmo 85,1); cioe`, prega con la parola di Dio ed Egli allora non mandera` a vuoto in te la sua Parola. Si tratta di fare nostre le parole della Scrittura, farle entrare nel cuore, e poi restituirle a Dio dopo averle segnate con la nostra adesione. Ascoltiamo ancora S.Agostino: "Se il salmo e` preghiera, pregate; se e` gemito, gemete; se e` riconoscente, siate nella gioia; se e` un testo di speranza, sperate; se ispira il timore, temete" (Esposizione sul salmo 33). E` una risposta nell'umilta`, nella piccolezza, ma anche nella franchezza che e` possibile proprio quando si parla a Dio con le sue parole. Lo ha ben compreso l'intelligenza liturgica della Chiesa che ci mette sulle labbra sempre parole ispirate. (Penso sia superfluo - tanto appare scontato da quanto detto - ricordare l'aggancio tra l.d. e liturgia: la l.d. e` preparazione e, nello stesso tempo, prolungamento della liturgia della parola. (Vedi soprattutto: AA.VV. L'oggi della Parola di Dio nella Liturgia, Torino, 1969).

Abituiamoci dunque a nutrire la nostra preghiera di tutto quel ricco deposito che la Parola di Dio, letta nel silenzio, o ascoltata nella proclamazione liturgica, ha lasciato in noi.

 

4. CONTEMPLAZIONE <Contemplatio>

Non e` qualcosa a cui arriviamo noi, con sforzi personali, e` un dono dello Spirito Santo che germoglia sulla nostra lettura pregata. Non e` estasi, ne` esperienza straordinaria, o stato mistico, o visione, ma e` esperienza viva di fede, e` Cristo che si manifesta nelle Scritture. Egli e` cosi` entrato nella parte piu` intima del nostro essere: non ci resta che guardarlo e contemplarlo, come Maria la Madre di Gesu` a Betlemme, e come Maria di Betania seduta ai suoi piedi (Lc.10,39). Ogni pagina della Scrittura ci svela questo Cristo e ce lo fa emergere nella l.d.

Gesu`, nel Vangelo di Giovanni, promette l'esperienza di Dio a chi lo ama veramente e accoglie la sua parola, quando parla di un "manifestarsi" a lui (Giov.14,21.23); e ancora dice: "Questa e` la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesu` Cristo" (Giov.17,3). Sappiamo tutta la forza di quel verbo "conoscere" <ebraico "jada`, intraducibile nelle nostre lingue), un 'conoscere' frutto di amore, entrare in profonda comunione, creare un rapporto di intimita` con Lui, un 'conoscere sapienziale', quella conoscenza di Cristo di cui tanto spesso parla S.Paolo (Efes.3,10; Filip.3,10; Colos.1,10; 2,2-3; 3,10; ecc.) e che si identifica con la fede adulta di ogni cristiano; essa e` l'oggetto della preghiera dell'Apostolo per i fedeli: "(...) potentemente rafforzati dal suo Spirito nell'uomo interiore. Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e (...) siate in grado di conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perche` siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio" (Ef.3,16-19). Questa e` la sostanza di cio` che Cassiano e la tradizione monastica chiamano la "oratio pura", questa e` la contemplatio nell'ultima tappa della l.d.

 

IV. ALCUNE DIFFICOLTA`

Non vogliamo, al termine di questa esposizione, dissimulare alcune difficolta`. Se si dice - e giustamente - che la pieta` monastica e` fondata sulla Bibbia, non bisogna dimenticare che il soggetto di tale lettura e` l'uomo concreto, l'uomo del nostro tempo, con il suo bagaglio psicologico e ambientale.

Una prima difficolta` deriva dal fatto stesso della lettura, di come si serve della lettura l'uomo d'oggi. L'uomo moderno legge velocemente; la civilta` moderna esige velocita` nella stessa lettura, la quale e` soprattutto "informativa", tende a far sapere il maggior numero di cose nel minor tempo possibile: la l.d., invece, deve essere lenta. La lettura che cerca di acquistare nuove conoscenze lo vuole fare nella maniera piu` veloce: la l.d., al contrario, e` a base di "ruminazione", cioe` della lenta assimilazione del testo letto. L'uomo moderno, poi, legge per agire, si documenta in vista dell'azione, la sua lettura guarda all'efficacia, all'efficienza: la l.d., invece, deve essere disinteressata. L'uomo moderno, inoltre, legge per distrarsi: di qui la moda (anche nei films e in TV) dei romanzi d'evasione, dei gialli intricati, della fantascienza, per uscire appunto dal quotidiano, dalla vita di sempre: la l.d. e` una lettura impegnata, in cui uno si sente realmente e direttamente coinvolto. E ancora l'uomo moderno si informa e si distrae collettivamente: fino a pochi anni fa` c'era la civilta` del libro che sviluppa un'informazione individuale, ora, con i mass-media, la civilta` attuale produce un tipo di informazione collettiva: la l.d., invece, e` una lettura solitaria, un rapporto personalissimo tra pagina sacra e lettore.

Altra difficolta`: non dimentichiamo che la S.Scrittura non sempre e` cosi` facile o immediata; richiede una certa preparazione, studio, e quindi tempo. Un'altra difficolta` e` data dal fatto che i testi dei Padri non sono cosi` facilmente gustabili, se non si ha una determinata formazione, se non si entra in una certa mentalita`. Alcune interpretazioni allegoriche sembrano a noi un po` ricercate e forzate, non ci danno il senso dell'immediato, dell'attualizzazione ovvia ed evidente; siamo abituati poi a un linguaggio diverso, ecc. Tuttavia, non dobbiamo lasciare (anzi dobbiamo riscoprire) i Padri: il loro metodo e` il migliore per una lettura orante della Bibbia; e` un cibo duro, ma solido e nutriente.

Aggiungiamo tutte le difficolta` dell'uomo di oggi per raccogliersi, per concentrarsi. Per riuscire in questo, ci vuole sforzo continuo, fatica, allenamento. Bisogna proprio riconsiderare il rapporto tra preghiera, lectio e ascesi. C'e` tutto il problema di una certa preparazione alla preghiera e alla l.d.: una preparazione remota, che comprende tutta la vita, uno sforzo di coerenza alla propria vocazione, l'evitare una eccessiva agitazione e dissipazione nel lavoro o nel ministero; una preparazione prossima, per stabilire pace e silenzio in noi stessi, oltre che all'esterno... Tutte queste cose non sono sempre cosi` facili e soprattutto non sono affatto scontate: dobbiamo fare i conti con le situazioni concrete della vita e della persona umana!.

E pensiamo quindi al problema di fondo, cioe` a una dimensione maggiormente contemplativa della vita monastica. Per arrivare a quell'atmosfera in cui sia possibile una proficua l.d., bisogna recuperare il valore della solitudine, del silenzio, di una vita nascosta in Dio, valori che forse davanti al mondo d'oggi il monachesimo e` chiamato a incarnare e testimoniare.

 

CONCLUSIONE

Davanti alle difficolta` accennate, davanti forse a tutta l'esposizione precedente, si potrebbe avere l'impressione di un apparato complesso, complicato, e ci si potrebbe chiedere se la l.d. non sia un "esercizio monastico" divenuto anacronistico, resto di una civilta` passata. Ma se si prova a dare spazio allo Spirito del Signore, se ci si mette con semplicita` e poverta` davanti a Lui, tutto appare molto piu` semplice. Bisogna fare l'esperienza, sia pure nello sforzo, nell'aridita`. Dobbiamo tornare alla l.d., tornare a fare il vero "metodo" di vita spirituale.

S.Gregorio Magno rimproverava dolcemente Teodoro, il caro amico medico, perche` non trovava piu` il tempo di attendere quotidianamente alla l.d. come si era impegnato: "ogni giorno medita le parole del tuo Creatore. Conosci il cuore di Dio nelle parole di Dio" <disce cor Dei in verbis Dei, Epistola 31,54>. Quel povero Servolo, paralitico e analfabeta, che con grande sacrificio si era procurato il codice della Scrittura e se la faceva leggere dai suoi visitatori, e` proposto da Gregorio come esempio (IV.Dial.15; Omelie sui Vangeli 15,5). All'abate Giovanni raccomanda che attenda "ad lectionem atque orationem" <alla lettura e all'orazione>; e ai suoi monaci rivolge lo stesso invito, lamentandosi che non li vede "ad lectionem vacare" (Epistola 3,3). Il santo abate Equizio, che ha tanti punti in comune con S.Benedetto, e` presentato da Gregorio nella sua predicazione peregrinante con l'immancabile codice della S.Scrittura (I.Dial.4). E c'e` l'esempio fulgido di Gregorio stesso, Pontefice, ma fedele come un monaco alla l.d.; nella predicazione, commentando Ezechiele, fa un umile e commovente esame di coscienza personale di fronte alla parola di Dio: "Tacere non posso )...; parlero`, parlero` affinche` la spada della parola di Dio (...) arrivi a trafiggere (...); parlero`, parlero` affinche la parola di Dio risuoni anche contro di me per mezzo mio" (Omelia XI su Ezechiele, libro I, n.5).

Venendo poi a noi monaci silvestrini, troviamo splendidi esempi di l.d. nella Vita Silvestri e nelle Vite dei suoi primi discepoli. La ruminatio verbi sia anche per noi nutrimento e consolidamento spirituale. Se non ne comprendiamo l'utilita`, il Signore ci faccia la grazia di sentire, come Agostino in una serata d'agosto del 386 in un giardino a Milano: "Tolle, lege" <prendi e leggi>! (Confes.VIII, 12,29). Alcune indicazioni pratiche per "pregare la Parola" si possono trovare in E.BIANCHI, Pregare la Parola, pp.67-69).

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